Colloquio di lavoro: come cambia un colloquio se sei donna
Il colloquio di lavoro cambia se il candidato è un uomo o una donna? La risposta è sì, e ci sono delle domande che vengono fatte solo alle donne.
Il colloquio di lavoro cambia se il candidato è un uomo o una donna? La risposta è sì, e ci sono delle domande che vengono fatte solo alle donne.
La verità è che i responsabili dell’assunzione in ancora troppe realtà fanno alle donne determinate domande che sono illegali. Anche se non tutti hanno intenzioni negative e nemmeno se ne rendono conto completamente. Tuttavia, domande all’apparenza inoffensive, creano disagio e sono usate come discriminante per l’assunzione o meno della candidata. Dal momento che oggi ancora un altissimo numero di donne dice di ricevere domande inopportune ai colloqui di lavoro, vediamo come riconoscerle e soprattutto come difendersi da esse.
Durante un colloquio di lavoro vengono poste ai candidati una serie di domande, volte a comprendere le capacità professionali e gli interessi personali. Si tratta però di capacità che riguardano il lavoro, le famose skills che si mettono anche sul curriculum, e dimostrano come si affronta la realtà lavorativa. Questo può risultare ovvio per un colloquio di lavoro ad un uomo, ma non per quello di una donna. Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Social Science e riportato dal Telegraph, le donne ricevono colloqui di lavoro più pesanti e difficili rispetto agli uomini.
In particolare, la ricerca fa emergere come le donne siano interrotte maggiormente e gli vengano fatte più domande rispetto ai corrispettivi maschili. Questo perché chi esegue il colloquio, spesso ritiene di dover mettere di più alla prova le donne. E lo fa con continue interruzioni, atteggiamento paternalistico e numerose domande, anche inappropriate, non permettendo alla candidata di elaborare un discorso completo.
Lo stesso studio ha infatti rivelato che la maggior parte delle donne tende ad affrettare le sue risposte per arrivare al momento topico in cui fare la propria presentazione, preparata per impressionare positivamente il datore di lavoro. E che riguarda solo ed esclusivamente la sua intelligenza, preparazione e voglia di mettersi in gioco in una professione. Anche se, per ora, non ha ancora raggiunto le stesse possibilità di un uomo di ottenere il lavoro.
L’articolo 27 del Decreto Legislativo 198/2006 del Codice delle pari opportunità dice che
È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale.
In particolare si fa riferimento all’orientamento sessuale, allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza, e alla gestione della famiglia. La legge parla chiaro. Ma esistono ancora troppi responsabili di assunzione e datori di lavoro che non la rispettano o fingono di non conoscerla, ponendo domande che sono invece assolutamente illegali. Tanto che alte percentuali di donne dicono di aver ricevuto domande inopportune almeno una volta nella loro vita durante un colloquio. Una ricerca pubblicata sull’Independent dimostra che sono il 40% delle donne britanniche, contro il 12% degli uomini, ad aver ricevuto una o più delle seguenti domande.
Le principali domande che vengono fatte ai colloqui alle sole donne riguardano il loro stato matrimoniale e famigliare. Talvolta viene rivolta la domanda diretta: “È sposata/fidanzata/convivente?”, volta a comprendere, secondo il datore di lavoro, quanto una donna sia legata a un’altra persona e di conseguenza quanto tempo potrebbe dedicare al lavoro.
In realtà, si tratta prima di tutto di domande illegali perché non pertinenti durante un colloquio. Inoltre non servono a capire la motivazione e le capacità professionali della persona. Anche altre domande, all’apparenza innocue e per fare conversazione, sono invece poste per inquadrare da subito la candidata in base al suo stato di nubile o meno. Ad esempio è tipico che venga iniziato il colloquio con la domanda “Signora o signorina?“.
La domanda che viene posta immediatamente, o subito dopo quella precedente, è “Ha figli?“. Come nel primo caso, si tratta di una domanda che non riguarda né l’aspetto lavorativo, né quello degli interessi personali per comprendere le capacità della candidata. È chiaro che una donna, così come un uomo, può scegliere di parlare in autonomia dei propri figli, magari per dimostrare le proprie abilità di gestione e di resistenza alla pressione. Allo stesso modo è legittima la scelta di non avere figli, che non è necessariamente legata alla professione. Ma non è legale chiedere affinché l’informazione sia usata in maniera discriminatoria.
L’interesse, nel caso di colloquio ad una donna, viene posto anche alla sua volontà futura di sposarsi o avere figli. Prendendo così in considerazione se la persona assunta ha intenzione di allontanarsi per un periodo di maternità o cambiare la sua disponibilità a seconda se crea una famiglia o meno. Non si può fare, mentre sono possibili domande alternative, ma poste a tutti i candidati, non solamente a quelli di sesso femminile.
Ad esempio: “Prevede delle assenze di lavoro ripetute?”, “Ha delle restrizioni che non le permettono di viaggiare/spostarsi?”.
Se una donna risponde alle precedenti domande con una risposta positiva, può seguire quasi sicuramente la domanda “Come pensa di bilanciare il lavoro e la famiglia?“. Purtroppo, ancora oggi, non è possibile per la maggior parte dei datori di lavoro capire che una donna possa essere lavoratrice e moglie, mamma e donna in carriera, single e casalinga, disoccupata e fidanzata.
Pertanto, alla domanda su come si pensa di fare più cose insieme, si può rispondere con un bel: “Lo faccio da sempre e con successo!”. Ad un uomo questa domanda non viene mai posta, perché in caso avesse una famiglia, è scontato che avrà una moglie a casa che ci pensa.
Solamente le donne si sentono chiedere inoltre cosa ne pensa un uomo dei suoi piani lavorativi. Fa parte in generale dell’atteggiamento paternalistico e accondiscendente che può spingere alcuni datori di lavoro a ritenere che una donna necessiti dell’approvazione di una controparte maschile per poter inseguire i propri sogni, lavorare e fare qualsiasi cosa.
Un aspetto che emerge spesso nei colloqui di lavoro è che il datore o intervistatore, soprattutto se è un uomo, tende a dare spontaneamente del “tu” informale alle candidate donne, piuttosto che a uomini. Pur non conoscendola personalmente. Questo è un chiaro atteggiamento di disparità e di discriminazione: le donne non meritano lo stesso rispetto e la stessa formalità?
È chiaro a tutti, anche se spesso ignorato o minimizzato, che le battute e le domande a sfondo sessuale o riguardanti l’aspetto fisico siano assolutamente inappropriate. Tuttavia non è insolito ricevere, se si è donne, battute del tipo “Con quel bel faccino sarebbe sicuramente una risorsa in più” oppure “Fattureremo di più con una come lei”. Allo stesso modo sono illegali e da non fare commenti di body shaming, come “Non ha l’aspetto che cerchiamo per questo ruolo”, “La dipendente che cerchiamo deve rappresentare bene l’immagine dell’azienda”, ma anche di slut shaming.
Vi sembra comune che a un uomo durante un colloquio venga chiesto cosa ha intenzione di indossare in ufficio, o sul luogo di lavoro? Sicuramente è molto improbabile, e solitamente si rivolge se il candidato al colloquio si presenta vestito in maniera non consona a un’occasione formale. Alle donne invece capita spesso, anche se indossano outfit assolutamente adeguati al colloquio. Che importanza può avere l’armadio di una candidata sulla scelta se assumerla oppure no per un lavoro che con la moda non c’entra niente?
In diversi settori lavorativi la presenza maschile è ancora predominante, nonostante la crescita di donne laureate in tutti gli ambiti, che hanno superato anche gli uomini. Di conseguenza, è facile che una donna assunta si trovi a lavorare con un team formato prevalentemente da uomini. Questo non giustifica comunque la domanda che spesso le donne si sentono fare: “Come si troverebbe a lavorare in un team a prevalenza maschile?”.
La risposta più gentile da dare sarebbe “Non fa differenza il team in cui sono inserita, riesco ad adattarmi e lavorare bene con tutti”. Anche se si tratta di una domanda inopportuna, che, anche se in pochissimi ambiti si presenta la situazione opposta con prevalenza femminile, a un uomo non sarebbe comunque mai rivolta.
Probabilmente nessun uomo si è mai sentito rivolgere nemmeno la domanda se ha mai pianto a lavoro o sotto pressione. Piangere sarebbe una prerogativa soltanto femminile? Vittime della propria isteria, le donne non saprebbero sopportare la pressione come gli uomini, cadendo in pianti vergognosi davanti ai colleghi? Quando invece una donna vive in questa società costantemente sotto pressione, non solo a lavoro.
Anche se fortunatamente gli sfacciati non sono la maggioranza, può capitare di sentirsi rivolgere domande del tipo “In ufficio facciamo spesso battute e scherzi spinti, le sta bene?”. Se anche non è posta in modo così diretto, è facilmente intuibile questo senso in altre frasi poste dai datori di lavoro durante un colloquio con una donna. In questi casi, la risposta da dare sarebbe un bel “no” secco. Oppure comprendere quanto veramente è importante quella posizione lavorativa se il team si rivela così irrispettoso.
Abbiamo visto le principali domande che solo le donne ricevono durante un colloquio di lavoro. Ma ce ne sarebbero anche altre, di significato simile ma con sfumature un diverse. Cosa deve fare una donna per difendersi da questo tipo di situazione? Innanzitutto è importante ricordare che la legge è dalla parte delle persone discriminate. In qualunque momento una donna si senta offesa o discriminata da domande inappropriate, ha diritto a non rispondere, dichiarando di non essere a proprio agio nel rispondere, o che si tratta di informazioni private.
Quando viene posta una delle domande precedenti, si può rispondere con diplomazia, per difendersi dimostrando però capacità di gestire lo stress. Si può ad esempio dire frasi del tipo: “Non vedo come la mia risposta possa aiutarla nella selezione, ma non ho problemi a rispondere”, oppure rispondendo in maniera secca a domande scomode, in modo da non dare adito alla conversazione. E rispondere invece in modo più fluente solo alle domande di tipo lavorativo. Può capitare di ricevere domande particolarmente discriminatorie e che dimostrano il poco rispetto dell’azienda verso le donne.
Queste domande devono fungere da campanello d’allarme per la candidata, che può rivalutare se effettivamente quel posto fa per lei. È terribile che accadano situazioni del genere: una donna non può scegliere il lavoro dei propri sogni tenendo conto solamente della propria preparazione, ma anche considerando se l’azienda le darebbe il rispetto che merita. Se viene discriminata durante il colloquio può far presente all’intervistatore di aver fatto domande illegali e andarsene. Tanto questo porterebbe quasi inevitabilmente il datore di lavoro a scartare quella candidata. La domanda da farsi in questi casi quindi è: “Ne vale davvero la pena oppure no?”.
Amante della lettura, della musica e serie tv addicted, aspiro a diventare scrittrice di romanzi. Nel frattempo coltivo la mia passione scrivendo articoli su ciò che più mi piace: benessere, enogastronomia, cultura e attualità.
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