L'8 Marzo NON è la Festa della Donna. Non vogliamo auguri, vogliamo altro!
L'8 marzo è la Giornata internazionale delle donne.
L'8 marzo è la Giornata internazionale delle donne.
Una mimosa non ci salverà. Di sicuro non ci serviranno auguri o scatole di cioccolatini.
In ogni caso, non c’è nessuna Festa della Donna da festeggiare: l’8 Marzo è la Giornata internazionale delle donne.
Il tema dell’IWD 2023, International Women’s Day appunto, è DigitALL: Innovazione e tecnologia per la parità di genere e, per mettere le cose in chiaro, vale la pena partire dai numeri forniti dall’UN Women sull’argomento:
Eppure, dalla nascita dell’informatica all’era attuale, il contributo delle donne è stato ed è incalcolabile. Perché allora questo gap? Almeno tre le ragioni individuate da UN Women:
C’è però, per fortuna, anche l’altro lato della medaglia:
La tecnologia digitale sta aprendo nuove porte all’emancipazione globale di donne, ragazze e altri gruppi emarginati. Dall’apprendimento digitale sensibile al genere all’assistenza sanitaria sessuale e riproduttiva facilitata dalla tecnologia, l’era digitale rappresenta un’opportunità senza precedenti per eliminare tutte le forme di disparità e disuguaglianza.
Eppure, nel frattempo, altri numeri ci dicono che c’è ancora poco da festeggiare e molto per cui lottare.
I progressi globali in materia di diritti delle donne conquistati nel corso dei decenni stanno “svanendo davanti ai nostri occhi”, ha avvertito António Guterres, segretario generale dell’Onu, in un discorso all’Assemblea generale in vista della Giornata internazionale della donna, precisando che:
L’uguaglianza di genere è sempre più distante.
Continuando sui binari attuali, secondo UN Women ci vorranno 300 anni.
Guterres ha quindi sottolineato come “donne e ragazze sono state cancellate dalla vita pubblica” (riferendosi all’Afghanistan) e come “in molti luoghi, i diritti sessuali e riproduttivi delle donne vengono revocati”, così come in alcuni Paesi “le ragazze che vanno a scuola rischino rapimenti e aggressioni”.
“Il patriarcato sta contrattaccando. Ma lo facciamo anche noi”, ha concluso Guterres.
Ucraina, Palestina, Congo, Etiopia, Syria: ovunque sia la guerra è (anche) guerra alle donne.
Oksana Pokalchuk, direttrice di Amnesty International Ucraina, lo spiegò chiaramente già l’anno scorso in un’intervista a The Independent: “La violenza domestica e la violenza sessuale aumentano durante le guerre”.
Laddove Steve Crawshaw di Freedom from Torture ricordò che “mel contesto della guerra, le donne sono spesso prese di mira come una forma di brutale disumanizzazione, con lo stupro, compreso lo stupro di gruppo, abitualmente utilizzato come arma di guerra”.
Lo stupro come arma di guerra è una lunga tradizione patriarcale, che non ha a che fare con il sesso ma con il potere e la sottomissione. Amnesty International ha denunciato l’utilizzo dello stupro su donne e bambini come arma di guerra in Etiopia, in Congo, in Darfur; ma è una strategia di repressione comune a tutte le zone in conflitto. Le donne e le persone iraniane scese in piazza al grido di Donna Vita e Libertà, per esempio, stanno denunciano l’uso sistematico (anche) della violenza sessuale come strumento di tortura, repressione e punizione.
In una risoluzione adottata nel 2008 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha affermato che “lo stupro e altre forme di violenza sessuale possono costituire crimini di guerra, crimini contro l’umanità o un atto costitutivo rispetto al genocidio”. Sul tema dal 1993 erano in atto più o meno timidi tentativi da parte della Commissione per i diritti umani (poi Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite), fino allo storico cado del 1998 in cui in Ruanda una sentenza disse che “lo stupro e la violenza sessuale costituiscono genocidio”. Prima di allora stupro, torture e abusi in guerra erano considerati effetti collaterali.
Il rischio che la guerra in Ucraina – che ha già registrato un crollo nell’interesse dell’opinione pubblica e dei mediaa – spenga ulteriormente i riflettori sulla situazione femminile afghana dopo la conquista dei talebani nell’estate 2021 è più che concreto, e a questo proposito, Pangea Onlus avverte:
Si stima che il 60% della popolazione afghana necessita di assistenza umanitaria.
Più di 3 milioni di bambini sono a rischio malnutrizione.
Le donne, come sempre, pagano le spese più alte: diritti negati, cura dei figli malnutriti, impossibilità di lavorare e di muoversi liberamente.
Si è già molto assopita anche l’attenzione attorno alle proteste iraniane scatenate dalla morte di Mahsa Amini – una donna di 22 anni arrestata dalla polizia morale a Teheran il 13 settembre 2022 per presunta violazione delle rigide regole iraniane che impongono alle donne di coprirsi i capelli con una sciarpa -, nelle quali sono morte più di 500 persone.
Del resto, su altre zone di conflitto le luci non si sono mai davvero accese, ma ovunque vi siano guerre le Nazioni Unite riferiscono divari di genere in tema di sicurezza, salute riproduttiva, alimentazione, povertà e aumento della violenza di genere.
Fino a oggi, si stimava che circa 132 milioni di ragazze non andassero a scuola (primaria e secondaria) per motivi legati, tra le altre cose, a:
La pandemia Covid-19 ha aggravato la situazione e, in assenza di dati certi, l’UNESCO prevede un tasso di rischio di non ritorno a scuola per altri 5,2 milioni di ragazze della scuola primaria o secondaria.
La perdita di reddito familiare, del resto, mette ulteriormente a rischio bambine e ragazze, rispetto a matrimoni precoci come strumento per generare soldi attraverso la dote.
Secondo l’Unicef la pandemia ha interrotto o limitato fortemente gli sforzi per porre fine alla mercificazione delle spose bambine e le stime UNFPA parlano di un potenziale atroce di ulteriori 13 milioni di matrimoni di ragazze minori
che si svolgeranno tra il 2020 e il 2030, evitabili in situazione pre-pandemica.
A questo proposito, vale la pena ricordare il dato Save The Children 2018: ogni 7 secondi una bambina viene data in sposa.
Quante nel tempo in cui stai leggendo questo articolo? Quante in più ora?
Attualmente vivono nel mondo 200 milioni di donne che hanno subito mutilazione genitale totale o parziale. Si stima che 68 milioni di ragazze saranno mutilate tra il 2015 e il 2030, a meno che non venga intrapresa un’azione concertata e accelerata. A causa delle interruzioni del programma relative al COVID-19, l’ UNFPA ha stimato che nel prossimo decennio si verificheranno 2 milioni di casi in più che altrimenti avrebbero potuto essere evitati (United to End Female Genital Mutilation, novembre 2021).
Aggravato dalla pandemia, va da sé, anche il quadro della povertà mestruale, basata sul trio tossico:
La period poverty, oltre a impattare sulla salute mentale delle ragazze, determina in alcuni Paesi, anche occidentali, una o più d’una di queste condizioni:
Sempre l’UNFPA ha anche calcolato che quest’anno decine di milioni di donne non saranno in grado di accedere ai contraccettivi moderni, questo in un contesto in cui il diritto all’aborto è stato messo fortemente in discussione, complice anche la pandemia, sia in Italia, sia nel mondo.
In tema di diritti riproduttivi, del resto, il 24 giugno 2022 è diventata la data storica: quella in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ribaltato Roe v Wade, uno storico atto legislativo che proteggeva il diritto all’aborto per le donne americane.
A partire dal 2020, la pandemia ha aggravato le disuguaglianze di genere ovunque, nonché ha scatenato la cosiddetta “pandemia ombra” della violenza contro donne e ragazze scoppiata durante il COVID-19.
In Italia, solo nella primissima fase della pandemia, tra l’1 marzo e il 16 aprile 2010, sono state 5.031 le telefonate ritenute valide al 1522.
Ovvero il 73% in più sullo stesso periodo del 2019. (Istat, 2020)
La pandemia, lo sappiamo, ha in molti casi chiuso in casa le donne con i loro aguzzini, con il risultato che si è reso evidente a fine 2020, nei numeri del VII Rapporto Eures sul “Femminicidio in Italia”:
Nel confronto tra i dieci mesi del 2019 e il medesimo periodo del 2020, il numero dei femminicidi familiari con vittime conviventi sale da 49 a 54 (+10,2%), mentre contestualmente scende da 36 a 26 quello delle vittime non conviventi (-27,8%).
Il rapporto di convivenza, che già nel 2019 si presentava per il 57,6% delle vittime, raggiunge il 67,5% nei primi dieci mesi del 2020. Nel trimestre del primo lockdown si attesta addirittura all’80,8%: tra marzo e giugno, “21 delle 26 donne uccise convivevano con il proprio assassino“, spiega il rapporto. La pandemia e la spinta all’isolamento sono connessi anche al fortissimo incremento dei femminicidi-suicidi del 90,3% (da 31 a 59 casi).
Il 2021, purtroppo, non è andato meglio e, nella sintesi dell’VIII Rapporto Eures sul femminicidio in Italia – Il triennio 2019-2021 nel quadro di lungo periodo si legge:
Femminicidio: 109 le donne uccise in Italia nei primi 11 mesi del 2021 (+5,8% sul 2020). Quasi 3.500 negli ultimi 20 anni – Secondo i risultati della banca dati dell’Eu
(confrontati con le statistiche del Ministero dell’Interno) sono 109 le vittime di omicidio di sesso femminile censite in Italia nei primi 11 mesi del 2021 (al 24/11/2021), con t
crescita del 5,8% rispetto alle 103 vittime censite nello stesso periodo dell’anno precedente (+6,9% sul 2019).In termini relativi le vittime femminili segnano nel 2021 il valore più alto mai censito in Italia, attestandosi sul 41,9% delle vittime totali (41,3% nel 2020 e 34,7% nel 2019}
fronte di un valore medio pari al 30,2% nell’intero periodo 2000-2021.
Insomma, i lockdown più ‘morbidi’ non sono bastati a salvare le donne e, in questo quadro, resta vera l’affermazione del Consiglio d’Europa degli scorsi anni:
la violenza è la prima causa di morte (in Europa) per le donne tra i 14 e i 44 anni
Tocca anche ricordare che i dati sommersi della violenza di genere parlano in termini di grandezza ben diversi.
Secondo Women in Work di PwC, che misura l’emancipazione economica femminile in 33 paesi dell’OCSE, la situazione lavorativa femminile, a seguito della pandemia, tornerà ai livelli del 2017.
Una regressione inaccettabile e pericolosissima, che secondo il report McKinsey difficilmente sarà sanabile prima del 2024:
Le donne rappresentano il 39% dell’occupazione globale,
ma il 54% della perdita di posti di lavoro complessiva.
Il lavoro delle donne è stato colpito in modo significativo dalla pandemia di Covid-19 e il tasso di disoccupazione è aumentato in tutta l’OCSE nel 2020, con le donne che hanno perso il lavoro a un ritmo più rapido rispetto agli uomini. Il Covid-19 sta anche amplificando il carico ineguale dell’assistenza non retribuita e del lavoro domestico svolto dalle donne.
Del resto, proprio la pandemia sta aumentando in modo significativo il peso dell’assistenza non retribuita, che è sproporzionatamente portata dalle donne.
In pratica, le donne sono le prime a essere considerate “sacrificabili”, nonché quelle costrette ad auto-licenziarsi per far fronte alla gestione dei figli, diventata inconciliabile con le chiusure delle scuole e l’adozione della DAD.
Per quanto riguarda l’Italia, i dati ISTAT 2019 e 2020 erano preoccupanti, visto che le donne lavoratrici erano passate dai 9,842 milioni di dicembre del 2019 ai 9,530 milioni del dicembre 2020 (312mila unità perse); e di contro la situazione maschile registrava un passaggio da 13,441 milioni a 13,309 milioni (132mila unità perse).
Ma stando al Gender Policies Report 2021, elaborato dall’Inapp, anche la ripresa occupazionale del 2021 è stata all’insegna di forti differenze di genere. Un dato, in particolare, mostra palese la discriminazione:
Il 49,6% dei contratti delle donne sottoscritti nel 2021 è part-time contro il 26,6% di quelli degli uomini.
Come avverte PwC : “Più a lungo durerà questo onere di assistenza maggiore per le donnepiù è probabile che le donne lascino definitivamente il mercato del lavoro, non solo invertendo i progressi verso la parità di genere, ma anche rallentando la crescita economica.
Accenture, nello studio Getting to Equal 2017, affermava
Nel mondo, per ogni 140 dollari guadagnati da un uomo, una donna ne guadagna mediamente 100.
Il dato in realtà già al tempo era peggiore, perché esiste quello che Accenture chiama divario contributivo nascosto.
Se infatti si calcola che, in media, solo il 50% delle donne riesce a ottenere un mestiere retribuito, contro il 76% degli uomini, allora si può dire (anzi, si poteva dire!) che ogni 100 dollari guadagnati da una donna, un uomo ne porta a casa 258. E in Italia? Per 100 euro di una donna, un uomo ne riceve 131. Ma se si calcola il divario retributivo nascosto, allora siamo a 100 euro contro 192.
Nel frattempo la pandemia globale, ça va sans dire, ha fatto precipitare le cose e lievitare il gender pay gap che, nel primo semestre 2020, secondo ODM Consulting pesava sulle tasche delle donne in termini tra i 2500 e i 10.000 euro in meno all’anno a seconda dell’inquadramento.
Per venire alla stretta attualità, il Global Gender Gap 2021 del World Economic Forum ha rilevato che il divario retributivo si è esteso, ampliando anche il tempo stimato necessario per raggiungere colmare lo stesso gender pay gap: da 99,5 anni nel 2020 a 135,6 anni nel 2021.
I soldi, non fanno la felicità, dice qualcuno.
Verissimo, purché tu ne abbia abbastanza per essere autosufficiente.
La dipendenza economica è la gabbia che spesso impedisce alle donne di affrancarsi da un partner violento.
Il drammatico rapporto delle donne con i soldi (il 50% non sa quanto costa un conto corrente e il 14% non ne ha uno, Global Thinking Foundation), lontano dall’essere un cliché frivolo e divertente, è frutto di una società a stampo patriarcale che fino a qualche decennio fa escludeva le donne da diritti patrimoniali, lavoro, proprietà e che ancora ne limita l’accesso.
La libertà di una donna e, più in generale, di ogni persona passa, SEMPRE, dall’indipendenza economica.
Parlare di donne e soldi significa, prima di tutto, prendere coscienza dello strettissimo legame, che c’è tra dipendenza economica e violenza di genere.
UN Women scrive:
La piena ed equa partecipazione delle donne a tutti gli aspetti della società è un diritto umano fondamentale. Tuttavia, in tutto il mondo, dalla politica all’intrattenimento al posto di lavoro, le donne e le ragazze sono in gran parte sottorappresentate.
Diamo i numeri, per stare nell’ambito dei dati e non limitarci alle percezioni:
La rappresentanza politica delle donne a livello globale è raddoppiata negli ultimi 25 anni. Ma questi sono i numeri (dati al 1° settembre 2021, Un Women):
Secondo il più ampio studio sulla rappresentazione, la partecipazione e la rappresentanza delle donne nei media di 20 anni e 114 paesi, solo il 24% delle persone ascoltate, lette o viste nei notiziari di giornali, televisione e radio sono donne. Esiste anche un soffitto di vetro per le giornaliste donne nelle intestazioni dei giornali e nei notiziari, con il 37% delle storie riportate da donne a partire dal 2015, che non mostrano alcun cambiamento nel corso di un decennio. Nonostante la promessa democratizzante dei media digitali, la scarsa rappresentanza delle donne nei media tradizionali si riflette anche nelle notizie digitali, con le donne che costituiscono solo il 26% delle persone nelle notizie su Internet e nei tweet sui media. Solo il 4% delle notizie tradizionali e delle notizie digitali sfidano chiaramente gli stereotipi di genere. Tra gli altri fattori, gli stereotipi e la significativa sottorappresentazione delle donne nei media svolgono un ruolo significativo nel plasmare atteggiamenti dannosi di mancanza di rispetto e violenza nei confronti delle donne.
Fonte: The Global Media Monitoring Project (dati al 2015); Rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite E / CN.6 / 2020/3Nel 2021, uno studio del Reuters Institute ha analizzato la situazione 2020 e 2021 di 240 testate giornalistiche online e offline in 12 mercati diversi in quattro continenti per comprendere il divario di genere nella posizione giornalistica. Il risultato? La netta maggioranza di ruoli apicali sono ricoperti da uomini. Rispetto agli uomini, inoltre c’è una percentuale inferiore di donne in ruoli apicali rispetto alle donne che esercitano la professione. Ma la cosa che forse è più importante notare è che il 2021 non mostra una chiara tendenza generale verso una maggiore uguaglianza di genere.
Su 609 Premi Nobel assegnato a 975 persone dal 1901 al 2021, 58 sono andati a donne.
Nel frattempo il tema donne nelle STEM è finalmente entrato nel dibattito, ma le conquiste da fare sono ancora tantissime:
Secondo un’indagine condotta in 11 Paesi, il 31% dei personaggi parlanti sono donne e solo il 23% dei prodotti cinematografici presentano una protagonista femminile. Le registe donne sono circa il 21%
Source: The Official Academy Awards® Database (Data as of 2020)
Perché non c’è nulla da festeggiare, ma ancora tanto, tantissimo per cui lottare.
I diritti non sono mai del tutto conquistati, per nessuno. Ma quando si parla di donne questa affermazione vale un po’ di più.
Mancano diritti mai raggiunti, in nessun Paese del mondo (pensiamo al lavoro, alla rappresentanza nei luoghi che contano e al riconoscimento); e ogni giorno perdiamo o rischiamo di perdere diritti che pensavamo acquisiti.
Quante donne ancora dovranno vivere le loro vite senza poter godere a pieno dei loro diritti?
Di lavoratrici, madri, compagne e, più semplicemente, donne.
Quante donne dovranno morire prima che avvenga quel cambio culturale, per cui l’assassinio di una donna sia, esattamente come accade quando a essere ucciso è un uomo, un caso isolato e non la norma?
Quando accadrà che i rappresentanti del mondo della cultura, dello spettacolo, della politica e del giornalismo smetteranno di contribuire a una rappresentazione sessista della realtà, nascondendosi dietro il diritto di parola e/o satira e i concetti della cancel culture e del politically correct, per nascondere la mancanza di una volontà di cambiamento e, peggio, di mantenere un privilegio?
Quando l’opinione pubblica smetterà di fare benaltrismo e prenderà consapevolezza del fatto che femminicidio, mutilazioni, matrimoni precoci, differenza salariale, povertà femminile, gender bias sono la punta dell’iceberg di una società patriarcale che si puntella su microagressioni quotidiane, che vanno dal fischio per strada alla pratica stantìa della galanteria, fino al giudizio e al controllo sui corpi delle donne e alla santificazione del concetto di donna-madre e donna-moglie?
L’augurio, per questa non festa della donna, è che non si lotti e non si parli di diritti delle donne sono l’8 Marzo – Giornata Internazionale delle donne – e il 25 Novembre – Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Perché questa è una guerra, che va avanti da oltre due millenni e ha cancellato – se proprio vogliamo parlare di cancel culture – metà della popolazione mondiale.
A tutte le sorelle e ai fratelli in ascolto:
che sia un 8 Marzo di lotta a oltranza, 365 giorni all’anno,
per tutti gli anni a nostra disposizione.
Giornalista professionista e responsabile editoriale di Roba da Donne, scrive di questione di genere. Per Einaudi ha scritto il saggio "Libere. Di scegliere se e come avere figli" (2024). È autrice di "Rompere le uova", newsletter ...
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