L’immagine di un turbante viene associata spesso alle donne africane o afroamericane. I cinefili, per esempio, lo associano alla figura di Mother Sister, personaggio emblematico del micromondo di Brooklyn che Spike Lee ha raccontato in Fa’ la cosa giusta. In Paesi come lo Zambia, ci sono dei drappi particolari che sono multiuso: le donne li utilizzano per portare la spesa, come gonne da attorcigliare in vita o come turbanti. Ma come nasce l’abitudine di indossare questo accessorio particolare? Non si tratta di un vezzo, ma di qualcosa di identitario, come spiega Timeline in un articolo di cui diamo una traduzione non professionale di alcune parti significative.

Il turbante ha subito diverse trasformazioni attraverso la storia americana. È il diretto discendente dell’accessorio che adornava la testa delle donne nell’Antico Egitto e nell’Africa sub-sahariana, ed è diventato rappresentativo della stirpe afroamericana. È inoltre il simbolo distintivo per un tipo di bellezza che spesso si pone in antitesi con la femminilità bianca.

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Inizialmente però il turbante non era inteso per essere espressione della resistenza o della bellezza nera, ma come un epiteto offensivo nato dal razzismo e dalla supremazia bianca. Successivamente, la gente di colore se n’è appropriata invece come simbolo di identità. Nel suo articolo, Il turbante delle donne afroamericane: dipanando i simboli, la storica Helen Bradley Griebel spiega che entrambi, il simbolismo e le funzioni del turbante, sono diventati quasi paradossi nel loro significato.

Prima della rivoluzione americana, le colone europee avevano infatti approvato leggi per distinguere le schiave africane dalla popolazione bianca. Lo scopo di questa legislazione era affermare la superiorità degli europei e il sistema economico che sfruttava il lavoro delle donne nere (ma anche degli uomini). Sotto il dominio britannico, il Sud Carolina emanò il Negro Act del 1735, che fornì una regola sul tipo di abbigliamento che la gente di colore era autorizzata a indossare, mettendo fuori legge tutto ciò che fosse considerato stravagante. Il governatore Esteban Rodriguez Miró della Louisiana – che era ancora una colonia spagnola – passò un editto che richiedeva che le donne nere indossassero un fazzoletto per tenere i capelli legati. In più le donne nere non potevano indossare gioielli o piume.

Negli stati del Sud, prima della rivoluzione, le schiave nere erano quindi obbligate a indossare fazzoletti o turbanti come parte della loro uniforme. L’accessorio proteggeva i capelli da pidocchi e sudore, mentre lavoravano sotto il sole cocente, ed era anche usato per designare il loro status inferiore. Avere delle norme su come si vestiva la popolazione nera autorizzava la popolazione bianca a sentirsi di esercitare un controllo contro la disobbedienza o il contrasto alla legge. Ben presto il turbante divenne associato alle mamy – cioè le governanti donne che si occupavano della casa e dell’educazione della prole nelle dimore del Sud. Ma gli sforzi per legare il dress code della afroamericane al loro status inferiore sotto la supremazia bianca creò un ambiente in cui le schiave adottarono modi innovativi per esprimere se stesse sotto la tirannia dei padroni.

A un certo punto della storia afroamericana, le mode sono andate e venute, e a volte si sono ispirate al potere bianco – come quella di stirarsi i capelli, che non lasciò indenne neppure un giovane Malcolm X come si racconta nel suo biopic. Ma a un certo punto tutto andò in declino e alla fine degli anni ’60 il turbante diventò un must culturale nella moda afroamericana, con delle punte significative negli anni ’80, quando dilagò la cultura dell’hip hop. Fu allora che un semplice accessorio diventò una potente espressione dell’identità di un popolo.

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