“Dovevo essere veloce. Avevo ventuno fratelli: se non mi sbrigavo non trovavo mai niente da mangiare”. Con queste semplici parole, riportate nella sua autobiografia, Wilma Glodean Rudolph scherzava sul motivo che l’aveva fatta diventare una delle atlete più celebrate al mondo. Alta, aggraziata e dotata di una certa regalità, fu la prima velocista americana a vincere tre medaglie d’oro in una competizione olimpionica, come ricordato da un articolo scritto dal New York Times poco dopo la sua prematura scomparsa.

In quell’estate del 1960, durante le Olimpiadi di Roma, passò dall’essere una completa sconosciuta a una vera eroina degli Stati Uniti. A colpire l’opinione pubblica era soprattutto la sua vicenda personale: Wilma Glodean Rudolph aveva avuto una formazione assolutamente amatoriale, giungendo alla competizione mondiale da totale sconosciuta. Skeeter (moscerino), come la chiamava il suo allenatore di basket delle superiori per via della sua rapidità, ebbe un’infanzia tutt’altro che semplice, segnata dalla malattia.

Nata prematura il 23 giugno 1940 in un paesino del Tennessee, Wilma Glodean Rudolph era la ventesima dei ventidue figli di Ed Rudolph, un fattorino, e della sua seconda moglie Blanche, domestica. A soli quattro anni fu colpita dalla poliomielite e rischiò di morire. Si salvò, ma la sua gamba sinistra rimase paralizzata. Facendo incredibili sforzi, sia fisici che economici, una volta alla settimana sua madre la portava a Nashville per completare un percorso di cura all’interno di un ospedale per neri, l’unico a cui potessero accedere.

A sei anni Wilma Glodean Rudolph cominciò a saltellare sulla gamba destra, mentre a otto usò un tutore, che sostituì più avanti con una scarpa ortopedica. A undici anni sua madre la trovò mentre giocava a piedi nudi a basket, come se niente fosse. Da quel momento iniziò la sua vita da sportiva.

“Mio padre mi spingeva a essere competitiva”, scrisse nella sua biografia Wilma, nel 1978. “Con così tanti figli, quando fai qualcosa con uno di loro ce n’è sempre un altro subito dopo. Pensava che lo sport mi aiutasse a superare i miei problemi”. Fu così che a tredici anni entrò nella squadra di basket delle superiori, facendosi notare dagli addetti del settore e soprattutto da un allenatore di atletica, che le propose di passare alla corsa.

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Nel 1956, a soli 16 anni, debuttò alle Olimpiadi di Melbourne come velocista, vincendo una medaglia di bronzo nei 400 metri staffetta. Tornata a casa, ottenne una borsa di studio e si diplomò, continuando ad allenarsi per le Olimpiadi di Roma del 1960. Il giorno prima di correre i 100 metri, inciampò in una buca e si procurò una distorsione alla caviglia, rischiando di saltare le gare. Ciò non le impedì di vincere la finale dei 100 metri, dei 200 metri e dei 400 metri staffetta, entrando nella storia.

I giornali impazzirono per lei, ma Wilma Glodean Rudolph preferì concentrarsi sugli studi. Dopo la laurea si ritirò dalle competizioni e dal 1962 iniziò a lavorare come insegnante e allenatrice in Tennessee. Si sposò e divorziò due volte, diventando madre di quattro figli. Per sua diretta ammissione, aveva rinunciato alla carriera da velocista perché voleva che tutti la ricordassero nel suo momento migliore. Fondò anche la Wilma Rudolph Foundation, che si occupava dell’istruzione dei giovani. È scomparsa nel 1994, a soli 54 anni, per un tumore al cervello.

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