Pur essendo figlia di una madre iper apprensiva, di quelle che mi farebbero controllare anche per un raffreddore, tendo a essere piuttosto refrattaria ai dottori, e cerco di limitare al minimo indispensabile le visite. Che ci volete fare, sarà la legge del contrappasso…

Però quell’affare, quel “coso” in bella vista sulla parte posteriore della mia coscia sinistra, appena sotto la natica, proprio non lo potevo sopportare. Era brutto da vedere, e non faceva che crescere, tanto che ogni tot di mesi prendevo appuntamento dal mio dermatologo di fiducia per farlo controllare, monitorarlo e capire poi il da farsi.

Fino a quel momento non era mai stato ritenuto opportuno rimuoverlo, perché, non provocandomi dolore o fastidio, il dottore mi aveva pazientemente spiegato che toglierlo avrebbe rappresentato solo un fattore “estetico”, da compensare però con la cicatrice che inevitabilmente sarebbe rimasta.

Certo a essere onesta sapere di avere quella “pallina” – perché di questo si trattava – proprio lì, dove chiunque, quando fossi stata in costume da bagno, avrebbe potuto vederla, non era affatto piacevole, e non giovava certo alla mia già ben poca autostima. Ma fatto sta, avevo sempre ascoltato il medico, e convissuto con la sgradita coinquilina nella mia coscia.

Quella primavera, però, al momento della visita, il mio solito, fidato dermatologo non era disponibile, quindi non mi è restato altro da fare che prenotare una visita tramite ASL, dove ti viene assegnato un medico in maniera del tutto casuale.

La mattina fatidica, accompagnata da mia madre – ero una ragazzina di appena vent’anni, in fondo la sua presenza non era del tutto ingiustificata – sto seduta sulle scomode sedie di plastica, tutte in fila, una attaccata all’altra, nell’anonima sala d’aspetto di una ex scuola superiore trasformata in ASL, inganno il tempo leggendo i cartelloni sulla prevenzione appesi alle pareti di un opaco giallo ocra che fanno fin troppo ospedale, ascolto distrattamente le conversazioni in dialetto di un paio di anziani seduti a poca distanza da me (e mi chiedo “Ma perché l’ASL è sempre così piena di persone anziane?”).

Il dottore fa capolino dalla porta, mi chiama per cognome, io entro, mia madre aspetta fuori; a pelle non mi piace, e non perché io parta prevenuta e ormai sia tanto affezionata al mio dermatologo, ma perché quello ha proprio una faccia antipatica, indisponente, come se ti stesse facendo un favore a essere lì.

Nella penombra di una stanza ancora più asettica e anonima della sala d’attesa, con la luce che filtra appena dall’avvolgibile abbassata, il dottore, seduto alla scrivania, mi dice di levarmi i pantaloni e di stendermi sul lettino, a pancia in giù, per fare l’ecografia e vedere a che punto è la crescita del mio lipoma, perché questo è quello che ho alla coscia.

Imbarazzata come ogni volta che devo spogliarmi di fronte a un medico, che sia una ginecologa o un dermatologo poco importa, avvampo di vergogna e mi levo i jeans, saltellando sulle punte – come se camminare così mi facesse passare più inosservata – fino al lettino, dove obbedisco, e mi stendo.

Il dottore inizia la sua visita, sento il gel freddo sulla coscia, la sonda che si muove sulla pelle.

E mentre me ne sto lì, a pancia in giù con le mie culotte nere che spero mi coprano tutto ciò che devono, e lentamente, faticosamente mi sto rilassando, ecco che arriva la doccia fredda, gelata.

Signorina, con un lato B come il suo nessuno farà mai caso a questo lipoma.

Sguardo di chi non ha capito bene, abbozzo di sorriso, e poi testa affondata nel lettino. Riuscite a immaginare come mi sono sentita in quel momento? Ventenne, di fronte a un professionista di almeno trentacinque anni più grande di me, in mutande, travolta da un imbarazzo senza precedenti.

Forse pensava di farmi un complimento, anzi sicuramente era convinto che avrei gradito il suo apprezzamento alle mie chiappe chiaramente esposte davanti alla sua faccia.

Ma no, non è stato così. Non è stato affatto così.

Perché tutto ciò che ho provato, in quel momento, assieme al disagio enorme al solo pensiero che anche per un solo istante quell’uomo si fosse soffermato sul mio didietro necessariamente scoperto, piuttosto che sul mio lipoma di molti centimetri più sotto (cosa che doveva essere il suo solo interesse), è stata la frustrazione, e l’umiliazione, per non essere stata in grado di rispondere a tono. Per essermi sentita vulnerabile, indifesa, eppure di aver taciuto, per troppo rispetto di quel camice, di quella posizione pubblica, per il troppo divario, anagrafico, sociale, per quel dovuto rispetto al professionista che i miei genitori mi hanno insegnato e trasmesso.

Nell’epoca del Time’s Up e del “no Time’s up”, delle donne che denunciano, anche a distanza di anni, e delle donne che rimproverano chi denuncia tardi perché “doveva pensarci prima”, delle molestie subite, presunte, esagerate, degli apprezzamenti scambiati per abusi a sfondo sessuale, del tutti che giudicano tutti con la presunzione di avere in una mano la verità assoluta e nell’altra la bilancia della giustizia, questa storia, ragionevolmente sepolta ma mai davvero dimenticata, mi è tornata alla mente come uno sgradito ricordo.

E vorrei chiedere, a chi ha velocemente bollato Asia Argento come bugiarda, opportunista e puttana, se ritengano che anch’io rientri in quella schiera che all’epoca ha taciuto perché “mi andava bene così”, o perché, in fondo, quel commento sul mio sedere mi era piaciuto. Se io possa a ragione dire di aver subito, se non proprio una molestia, almeno un approccio decisamente sgradevole, irrispettoso, o se non abbia fatto altro che enfatizzare quello che, a tutti gli effetti, è un complimento.

Le persone spesso hanno la spiacevole convinzione che se vieni appellata come “grassa, brutta, cesso” o quant’altro allora hai il diritto di sentirti offesa, mentre se ti viene detto che hai un bel seno, un bel lato B o che gli uomini vorrebbero venire a letto con te dovresti esserne lusingata, e se hai la reazione opposta allora passi come la classica “fi** di legno”.

Insomma, sembra che le donne abbiano sempre una connotazione ben definita, in qualunque modo esse siano: poco di buono se tacciono di fronte ad apprezzamenti imbarazzanti, presuntuose che se la tirano se se ne risentono.

Beh, lasciate che vi dica una cosa: personalmente, la donna che sono oggi non permetterebbe più di sentirsi rivolgere una frase del genere, e non per questo mi sento una Wonder Woman arrogante, né una spocchiosa che crede di essere la figlia dell’oca bianca. Ma non mi sento di scagliarmi contro chi, per paura, imbarazzo, vergogna, non lo fa.

Non lo permetterei, oggi, in virtù del tanto rispetto che ho verso me stessa, verso ciò che ogni giorno provo faticosamente a dimostrare di essere, verso tutto ciò che faccio nel mio lavoro. E anche di quella ragazzina che ero e che si è trovata impreparata di fronte a un’intrusione a suo modo violenta, non consentita, sgradita, a un’attenzione non richiesta e per questo inaccettabile, ma non ha saputo reagire, e in qualche maniera si è incolpata pensando di aver potuto interpretare male, di aver travisato tutto.

La donna che sono oggi risponderebbe con garbo, ma non affonderebbe la faccia nel lettino dopo aver accennato un sorriso pieno di terrore. La ragazzina di ieri, se n’è uscita dall’ambulatorio a testa bassa e imbarazzata come se avesse commesso lei stessa un atto osceno… Ma ha cambiato dermatologo, e da allora ha sempre e solo aspettato il suo medico di fiducia. Almeno quello.

 

 

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!