Quando si perde una persona amata, il dolore e la sofferenza sono moltissime, anche se non esiste un modo univoco e unanimemente “giusto” per elaborare il lutto.

Questo mix di sentimenti dolorosi esistono, naturalmente, a prescindere dalla causa della morte, e il percorso che si deve affrontare, sia fisicamente che emotivamente, per affrontare il vuoto lasciato dalla scomparsa è complesso e durissimo, perché ci si trova privati di un punto di riferimento.

Tutte queste emozioni, però, inevitabilmente si amplificano a dismisura quando si deve superare il trauma di un suicidio, situazione in cui, oltre alla normale sofferenza causata dalla perdita, si aggiungono mille domande e interrogativi su un gesto che, ovviamente, è indice di un malessere profondo e molto radicato in chi lo compie, ma che non sempre non dà avvisagli della propria presenza fino al compimento del gesto estremo.

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Il fatto che, in qualche modo, si sia “scelta” la morte come rimedio ultimo per alleviare il proprio stato di disagio psicologico, naturalmente, impone agli amici e ai parenti del suicida una serie di domande che una morte per malattia o incidente non suscita, a cui, talvolta, si aggiunge persino il senso di frustrazione per essere stati “abbandonati e rifiutati”. Quello che scatta nella mente di chi resta è un ragionamento che suona più o meno come “Ha preferito morire piuttosto che stare con me”. Pensiero che, ovviamente, non rispecchia il reale stato delle cose, ma a cui non è raro giungere. Insomma, anche chi resta in realtà “muore” assieme a chi si toglie la vita, sommerso da sensi di colpa e da “perché” che difficilmente troveranno una risposta.

Gli interrogativi

Fonte: istock

Una morte per suicidio inevitabilmente porta a una ricerca più assillante, intensa e prolungata rispetto a un decesso avvenuto per altre cause, in cui ogni membro della famiglia può giungere a una spiegazione diversa; sostanzialmente, questo è il motivo principale per cui molte relazioni familiari si sgretolano, incapaci di sopportare il peso di un gesto a cui non si riesce a trovare un motivo univoco. La verità è che, nella stragrande maggioranza dei casi, non esiste una sola ragione dietro la scelta di un suicida, per quanto una possa spiccare in più sulle altre, eppure chi resta pensa continuamente, ossessivamente, a tutto quello che si sarebbe potuto fare per salvare la persona dal suicidio.

Immancabili sono le frasi tipo “Ma se me ne fossi accorta prima?”, oppure “E se lui quella volta avesse voluto farmelo capire? Perché non l’ho portato in quel posto dove da tanto mi diceva di voler andare?”. Insomma, si rischia di innescare una concatenazione di se e di ma praticamente infinita, da cui però non si riesce a venire a capo.

E non perché non ci sia la volontà da parte di chi si tormenta negli interrogativi, ma perché spesso, in una persona che pensa al suicidio, i cambiamenti di comportamento possono essere molto graduali e talmente sottili da ritenere impossibile anche solo pensare che possa meditare sul togliersi la vita. Se pensiamo a Robin Williams, istrionico e spiritoso sul set, è davvero difficile pensare che potesse essere lacerato da un male interiore talmente grave da spingerlo al suicidio. E la stessa cosa vale per milioni di persone che hanno tentato o sono, purtroppo, riusciti a percorrere questa strada.

I sensi di colpa

Il senso di colpa di familiari e amici nasce quasi simultaneamente all’apprendere del suicidio; anche se una prospettiva più obiettiva e distaccata rende immediatamente chiaro il fatto che raramente, se non mai, ci possono essere altri soggetti “responsabili” di un suicidio, diversi da chi l’ha compiuto.

Assumersi la totale responsabilità di un atto che, come detto, è difficilissimo prevedere potrebbe precipitarvi in uno stato di depressione capace di scatenare un circolo vizioso pericolosissimo; in questo caso confidarsi con una persona di fiducia che possa aiutarvi ad avere una visione più realistica della situazione è importante.

Al senso di colpa, però, talvolta può sostituirsi quello dell’abbandono o del rifiuto, dato che spesso le persone rimaste si sentono quasi “respinte”. Il rischio palpabile, ovviamente, è quello di isolarsi del tutto anche da chi potrebbe aiutarci.

I genitori di fronte alla morte di un figlio

Fonte: istock

La morte di un figlio è una esperienza devastante, ma il suicidio in particolare può essere vissuto dai genitori come un vero e proprio abbandono, oltre che un fallimento a livello personale. Ogni padre o madre si responsabilizza per non aver saputo cogliere i segnali, soprattutto se, dopo la morte, si trovano oggetti, pensieri o cose che avrebbero potuto essere interpretati come “segni premonitori” del problema. Potrebbe pesare, inoltre, lo stigma sociale dato dal pregiudizio degli altri, che potrebbero giudicarvi.

Un genitore, però, non si deve arrendere mai, soprattutto se ha altri figli che hanno, ovviamente, bisogno di mamma e papà; se pensate che gli altri ragazzi potrebbero correre gli stessi rischi, cercate di parlarne con il medico di famiglia o con uno psicoterapeuta, e incoraggiate i figli a esprimere le proprie emozioni sempre e comunque, discutendo con loro sulla miriade di possibilità rispetto al modo con cui approcciarsi ai problemi. Soprattutto, non li fate mai sentire come il “rimpiazzo” del fratello scomparso.

Se è un figlio unico a essersi tolto la vita, potreste avvertire la sensazione di non avere più speranze o progetti per la vostra vita, e lo sforzo da compiere per riuscire a sopravvivere e andare avanti è davvero immane; potete aiutarvi solo con il dovere imposto dal ricordo di vostro figlio, e dalla volontà di lui di proseguire con le vostre vite nella sua memoria.

Quello che dovete evitare è di incolpare il partner per la morte di un figlio, in particolar modo davanti agli altri figli, dato che madri e padri percepiscono e vivono la perdita in modi diversi, ma altrettanto intensi. Fate in modo che il dramma che si è insinuato nella vostra famiglia non trasformi il riversare all’esterno le emozioni – atto legittimo – in odio e livore verso il compagno o la compagna.

Più difficili, ovviamente, sono le cose se il figlio rimasto è ancora un bambino, ma ciò che dovete evitare è dire una bugia a vostro figlio, per evitare che si senta tradito una volta scoperta la verità, subendo così un doppio colpo: la perdita di un fratello da una parte, e la perdita di fiducia nei genitori dall’altra.
Dovete parlare con i vostri figli, essendo disposti a rispondere alle stesse domande mille volte, finché non avranno raggiunto un proprio grado di consapevolezza rispetto al lutto

Non serve neppure indorare la pillola con frasi come “è andato in un mondo migliore” perché la sola cosa di cui i bambini necessitano è la verità. Dal momento che i bambini tendono in generale a capire le cose nel loro senso letterale potrebbero ad esempio decidere di non voler andare a dormire per la paura di non svegliarsi più. È comunque importante che i bambini capiscano bene che la persona non tornerà più.

Se avete fede in una vita dopo la morte, ne potete parlare con i bambini, spiegando che è su questa terra che non vedranno più quella persona. È importante accettare che il loro modo di vivere la perdita possa essere diverso dal vostro, che potrebbero piangere, urlare oppure isolarsi, e non dovete forzarli a essere niente di differente da ciò che sentono di essere in quel frangente, solo limitatevi a incoraggiarli a uscire e a divertirsi, senza imposizioni.

Chi può aiutarvi?

Il sito www.gruppoeventi.it fornisce indirizzi e numeri validi di supporto alle persone che stanno affrontando il suicidio di un caro.

Fra gli indirizzi italiani c’è, ad esempio, www.soproxi.it, un progetto legato all’Università di Padova per il sostegno e l’informazione di familiari e amici di persone che si sono suicidate.

www.afipres.org  L’A.F.I.PRE.S. (Associazione Famiglie Italiane Prevenzione Suicidio) è una associazione di volontariato con sede a Palermo, che organizza gruppi di auto-mutuo aiuto per amici e familiari che hanno subito un lutto per suicidio e offre anche sostegno telefonico con un servizio denominato telefono giallo. 091 6887912; 091 6859776 e numero verde 800 80 99 99.

www.telefonoamico.it L’Associazione Nazionale Telefono Amico Italia offre un servizio gratuito di emergenza per le persone in crisi, e il numero è 199 284 284

Infine, c’è www.telefonogiovane.it  un servizio di ascolto telefonico gratuito per adolescenti e giovani che vivono un momento di crisi e difficoltà, con, a richiesta, la consulenza di uno psicologo, un sessuologo, un ginecologo, un sacerdote, una neuropsichiatra. Il numero verde è 800 560 990.

 

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