Due storie molto simili, due vite che raccontano di un vuoto emotivo difficile da colmare e di una difficoltà di comunicazione palese, due identici, tragici epiloghi.

Pamela e Desirèe, adolescenti o poco più, ribelli, come molti loro coetanei, più fragili, sicuramente, tanto da non limitarsi a rientrare a casa in ritardo o a raccontare piccole bugie innocenti, come la gran parte dei giovanissimi fa, ma da imboccare una strada pericolosa e, nel loro caso, purtroppo senza ritorno.

Due ragazze appena cresciute, non ancora donne, che sono cadute in una trappola meschina e attraente al tempo stesso, quella che adesca chi è vittima di un proprio disagio interiore e non riesce a vedere via di fuga, neppure a sedici o diciotto anni. Quella che ti promette un mondo parallelo, l’alienazione dalle criticità di tutti i giorni, ma che poi in cambio chiede un pegno durissimo.

Pamela e Desirèe hanno pagato con la vita la debolezza che le ha allontanate da quel sentiero lastricato di serenità e spensieratezza che ogni adolescente dovrebbe percorrere come percorso obbligato, si sono disperatamente aggrappate all’idea di crescere in fretta, troppo in fretta, di giocare a “fare le grandi”, ma il destino, o chi per esso, non ha riservato pietà o seconde chance a nessuna della due.

Uccisa e fatta a pezzi a gennaio l’una, stuprata ripetutamente e lasciata a morire nella desolazione di uno stabile puzzolente e abbandonato, forse sotto gli occhi di tanti testimoni omertosi, l’altra.

Tante cose, in questi giorni, si sono dette e scritte di Pamela e Desirèe: che erano due figlie di un Dio minore, abbandonate dalla famiglia e ripudiate dai parenti, che da “tossiche” quali erano solo in quanto tale avevano il diritto, e l’obbligo, di essere giudicate; spogliate della loro umanità, ridotte dal rango di “persone” a quello di “drogate”, private del diritto a redimersi, sentenziate con quel “se l’è cercata” che irrimediabilmente restringe la cerchia delle persone che meritano pietà ed empatia solo ad alcuni eletti, non a chi ha imboccato la strada sbagliata. Come a dire che, se per caso finisci nel girone infernale della tossicodipendenza e finisci ammazzata dopo essere stata violentata per ore, non si può dire a voce alta che te lo sia meritato, però lo si può pensare.

Troppo inchiostro è stato sprecato nel giudicare fingendosi però molto salomonici e al di sopra di qualsivoglia moralismo, troppe bocche si sono sentite in diritto, o in dovere, di opinare su vicende talmente delicate, intime e dolorose che nessun essere umano meritevole di tale aggettivo dovrebbe prendersi la briga di commentare con frasi diverse dal “Non doveva succedere. Non è giusto”.

Dietro le storie complicate di Pamela e di Desirèe ci sono mamme che, nei mesi, nei giorni, si sono sentite dare addosso, etichettare come madri assenti, incapaci, persino criminali, giudicate come fossero moderne Medea che hanno dato le figlie in pasto al mondo sbagliato. Quando in realtà, ammessi e non concessi errori, disattenzioni, sbadataggini e tutto quel che si vuole imputare a un genitore, restano solo ed esclusivamente due madri che stanno soffrendo e, con tutta probabilità, un po’ sono morte assieme alle figlie.

Per questo oggi Alessandra Verni, la mamma di Pamela Mastropietro, si è sentita in dovere di scrivere una lettera a Barbara, mamma di Desirèe, che è stata letta nel corso del programma di Rete 4 Quarta Repubblica; una lettera che, in realtà, forse è indirizzata proprio a tutti coloro che non si sono risparmiati con insinuazioni, congetture, storture psicologiche e morali, e che al contempo denuncia un lassismo istituzionale preoccupante.

Vi  riportiamo la lettera in maniera integrale.

Dopo la tragica vicenda della mia Pamela, uccisa e ridotta a pezzi in circostanze che definire demoniache sarebbe anche poco, mi aspettavo che qualcosa cambiasse e che non si dovesse più assistere a barbare uccisioni che si potevano evitare. Invece è accaduto di nuovo: questa volta ad una ragazzina di 16 anni, Desirée. Sono vicino alla sua mamma, ed al papà, come lo è Stefano, il padre di Pamela.

Sembra di rivivere, per certi versi, lo stesso incubo, compreso quello di vedere spostata l’attenzione dai carnefici alle vittime: dove stava la famiglia, perché si è ridotta così quella ragazza, e via dicendo. Quasi a voler dire che certe cose le si cercano e si meritano. Credo che nessuno, se non ci passi in prima persona, sia in grado di comprendere cosa voglia dire star dietro ad una persona fragile, con la paura di sbagliare e di risultare troppo duri, per il suo bene. E, comunque, credo che sia un fatto che debba rimanere nell’intimità di una famiglia. Quel che dovrebbe interessare è cosa non abbia funzionato a livello pubblico: perché certe persone, che tutto sembrano meno che bisognose di aiuto, siano state accolte da noi e poi, magari, ci siano rimaste, dopo aver subito anche delle condanne.

La colpevolizzazione della vittima, spiega Alessandra, è un’abitudine orrenda che sposta l’attenzione dal problema vero, dalla ricerca dei veri colpevoli, dalla loro responsabilità.

La mia Pamela voleva risollevarsi. Aveva voglia di vivere. E Desirée era ancora più giovane di lei. Due angeli, con le loro fragilità, ma con tutta una vita davanti a loro. Non facevano del male a nessuno e, per quanto riguarda Pamela, semmai lo faceva solo a sé stessa. Non vendevano morte, ed anzi Pamela è finita con l’essere vittima di chi, invece, non aveva scrupoli a farlo. Quanto ancora dovremo attendere prima che chi di dovere faccia qualcosa? E, soprattutto, quanto ancora si vorrà distogliere l’attenzione dai carnefici, andando a cercare il torbido nelle vittime? Magari fa più audience, come si suol dire, ma non dovrebbe funzionare così. Le vittime sono già state punite a sufficienza, e così i loro cari, che ad esse sopravvivono. Forse è ora di concentrarsi, una volta per tutte, sugli autori di questa barbarie.

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