Può sembrare assurdo, ma a volte ci vuole meno coraggio a denunciare la camorra che un marito, o un padre, violento.

Perché se quando ti metti contro la gente che ti chiede il pizzo, che ti brucia i negozi o le case se non paghi, stai comunque combattendo contro degli sconosciuti, che ti prendono di mira “per mestiere”, perché il crimine è il loro mondo e tu sei uno dei tanti che vessano per diletto; ma se quello che denunci  è l’uomo che hai sposato, con cui hai fatto dei figli, o, nel caso del figlio, colui che ti ha messo al mondo, allora la faccenda assume tutt’altra connotazione, in cui al dolore per quello che hai subito o visto si può aggiungere il disagio, l’imbarazzo, il senso di vergogna per quello che, tu sai, una volta detto sarà di dominio pubblico, esposto alla mercé di chiunque si sentirà legittimato a giudicare te o la tua storia familiare, scandendo i tuoi passaggi fra le strade cittadine con quei commenti, quelle paroline mormorate a mezza voce, “Eppure sembravano una famiglia normale”.

Ma non esiste vergogna, non esiste colpa, nel confessare di essere la moglie, o il figlio, di un uomo violento; e se è vero che le colpe dei padri non devono mai ricadere sui figli, chi, da figlio, trova il coraggio per ribellarsi all’umiliazione che nasce dal vedere una madre continuamente maltrattata, picchiata, abusata, merita solo stima e rispetto, mai di finire sulla gogna come se fosse un prolungamento del genitore a cui far pagare le sue colpe.

Eppure, anche per Luigi Leonardi è stato così: ha denunciato la camorra che gli chiedeva il pizzo accettando l’idea di vivere sotto scorta forse per il resto della sua vita, prima di riuscire a trovare il coraggio di confessare di essere il figlio di un uomo violento.

Lo ha fatto solo nel 2017, con un post Facebook che è il manifesto di quello che si cela dietro moltissime famiglie di cui la violenza è lo sgradito collante: un’apparenza magnifica, impeccabile, atta a nascondere anni di massacri, di dolore, di strazio, come si fa con la polvere sotto i tappeti.

[…] Il primo episodio, lo ricordo benissimo.
Avevamo la famiglia di lui a cena, la famiglia Leonardi, cognome che ho odiato con tutto me stesso. Una tribù patriarcale tanto quanto basta per considerare normale ogni forma di violenza, fisica compresa.
La serata era finita, non ricordo cosa abbia innescato la discussione se tale si possa definire, fatto sta che poche parole urlate da lui, risposte accennate e sottomesse da lei ed in un attimo, una pentola sporca della cena, la prima cosa che si è trovato tra le mani e via, in piena nuca mentre lei cercava di scappare.
Un rumore cupo l’acciaio in testa.
Un tonfo in terra il corpo di lei.
Il rumore della pentola riposta nel lavandino della cucina, la porta della sua camera da letto che si chiudeva su quella che è stata per me parte della fine dell infanzia.
L’ho alzata da terra priva di sensi con tanta fatica, avevo sette anni, e lo ricordo ancora, ricordo tutto.

Abbiamo voluto raggiungerlo telefonicamente perché la sua storia vale la pena di essere ascoltata, e il suo coraggio premiato. Stavolta non quello dell’uomo che ha denunciato la camorra, ma quello del figlio che ha scelto, per le donne ma anche – e forse in particolar modo – per gli altri uomini, di togliere il velo di omertà e vergogna e regalare a tutti il suo dolore da bambino che ha dovuto crescere troppo in fretta.

Già, perché quando gli chiediamo cosa significa crescere in una famiglia dove il padre è violento, Luigi ci risponde dopo averci pensato appena un po’.

Significa non crescere. Significa sopravvivere. E non si sopravvive nell’infanzia, non nell’adolescenza, un bambino dovrebbe concentrarsi sul gioco, non a capire gli umori del padre da come lui infila la chiave nella toppa, non stare attento ai tonfi che arrivano dalla stanza della madre o mettersi le dita in gola per vomitare e diventare bulimico. Crescere, non sopravvivere.

Certo, gli dico sinceramente, è raro che un uomo parli così di un vissuto tanto doloroso e tragico; è come se ci si aspettasse sempre che il primo passo per parlare di violenza sulle donne lo debbano fare proprio le donne. Ma perché?

Ragioniamo al contrario – mi risponde lui – io riesco a parlarne avendo fatto un lavoro enorme su me stesso, perché il problema è che l’uomo ha generalmente come riferimento il padre, il mio riferimento era lui, e ho dovuto fare un enorme lavoro di accettazione del dolore, ho dovuto ammettere a me stesso che mio padre faceva soffrire mia madre, distruggere il punto di riferimento, lavorare sul mio modo di essere uomo e crescere facendomi da padre. Io ho smesso di considerare mio padre come tale, ma al tempo stesso vivevo una sorta di strumentalizzazione di tutta la storia da parte di mia madre, perché dire ‘Lo faccio per voi, perché vi dà da mangiare’, mi metteva addosso un senso di colpa incredibile. Sentivo che in parte dipendeva da me se lei prendeva le botte. Molti uomini non compiono questa operazione perché dovrebbero smontarsi e poi rimontare, ammettendo che la figura paterna è diversa da quella che sognavano e idealizzavano.
Mi rendo conto che non tutte le persone sono disposte a fare i conti col dolore, preferiscono mettersi un paraocchi piuttosto che ammettere un’evidenza“.

Il discorso, inevitabilmente, si sposta su un altro aspetto: quell’atteggiamento materno, quell’accettare il dolore in silenzio, vivendo la violenza subita come l’estremo sacrificio per far godere ai figli di una vita serena e agiata, ma anche per non permettere alla gente di parlare, di fare supposizioni, di chiacchierare. Certo la storia di Luigi è lontana nel tempo da noi, ma non così tanto da non considerare più questi temi come attuali.

Mia madre a volte mi dice ‘In fondo, tuo padre è un brav’uomo’. E io mi chiedevo ‘Ma se quello è un brav’uomo, gli uomini cattivi quali sono?’

C’è anche un velo di vergogna in questo paese, tutte le cose devono esser di facciata.
Ti faccio un esempio: siamo usciti di casa con mia madre che aveva il livido coperto dal trucco, gli altri le chiedevano che si era fatta, lei rispondeva “Ho urtato uno spigolo’, poi guardava mio padre come a dire stai tranquillo, la facciata è coperta.
Io ho sempre percepito tutto questo come un ‘baratto’: tu ti fai picchiare, io ti mantengo“.

Ma non è un discorso che svilisce le donne?

Perché, il sacrificio estremo significa amore verso un figlio? Il problema è che la contropartita per stare con lui era quella, lui era l’uomo che dava da mangiare a noi. Non restava con lui per farsi comprare la pelliccia o i vestiti, ma perché noi avessimo da mangiare. Certamente però ricordo anche l’umiliazione che mia madre subiva quando chiedeva a mio padre i soldi per comprarsi qualcosa. Mi ricordo il ghigno con cui mio padre lasciava i soldi sul comodino, come a dire ‘dipendi da me’, era irrispettosa al massimo. Anche i loro rapporti intimi non erano consenzienti, fa parte del pacchetto. È il totale annientamento della donna“.

Eppure la soluzione, dice Luigi, non è così a portata di mano come potrebbe sembrare.

Bisognerebbe eliminare l’oggetto del baratto, questi benedetti soldi, l’indipendenza della donna deve essere anzitutto economica, io a mia madre dicevo sempre di andare a lavorare, a lavare le scale, a vendere i fazzoletti, era più dignitoso che mettersi la busta di piselli in faccia perché aveva l’occhio nero. E lei mi diceva ‘io come faccio?’ Che si traduceva in ‘Se comincio a lavorare, la violenza si esaspera’. La soluzione passa per se stessi, per l’equilibrio che ognuno deve raggiungere anche quando sceglie di stare con una persona, che deve rispondere alle tue esigenze, che non si tramutino in una dipendenza patologica“.

Testimonial di Scuola Zoo, Luigi è convinto che l’educazione soprattutto giovanile sia fondamentale per creare le basi per debellare una piaga che la società si porta dietro da troppi anni. Ma è al tempo stesso consapevole che non sia semplice, perché per approcciarsi correttamente al problema e farsi testimoni di un cambiamento occorrono basi soggettive, valori ben saldi, una spiccata sensibilità e, cosa non meno importante, anche una famiglia che sia di supporto e fornisca esempi validi. Perché di fronte a un padre violento, spiega Luigi, le scelte che un figlio può prendere sono due: diventare come lui, o distaccarsene completamente. Ma questo dipende solo, ed esclusivamente, dal carattere che si ha.

Con gli anni Luigi ha fatto pace con suo padre, anche se ha smesso di considerarlo un genitore tempo addietro; a breve, ci ha detto, lo incontrerà per “mettere qualche tassello”.

La vecchiaia in realtà è un grande galantuomo, dà le risposte, mio padre è un uomo anziano, arreso, che mi fa anche tenerezza, e continuare a portare avanti la battaglia di odio è come sparare sulla Croce rossa, questo non vuol dire che oggi giustifichi tutto ciò che ha fatto. Piuttosto, mi suggerisce un messaggio per gli uomini: che idea volete dare di voi? A un certo punto dovrete trovare la forza per guardarvi indietro, gli uomini violenti non costruiscono consensi, non danno al futuro una bella storia da raccontare. Ho perdonato mio padre solo perché non farlo avrebbe significato dare ancora un riconoscimento a ciò che ha fatto”.

Ho dovuto cercare dei ‘padri alternativi’, li cercavo in tv, sono stato il padre di me stesso, perché da quando ho sette anni sono l’unico che si è insegnato qualcosa. Ho cacciato di casa mio padre quando sono riuscito ad avere la forza economica per dire a mia madre ‘Ora a te ci penso io’, e questo ha significato perdermi come figlio. Non ho avuto infanzia e adolescenza, ho dovuto assumere tutti gli atteggiamenti che ci si aspetta da un padre.

I figli sopravvissuti non hanno colpe, ma spesso pagano le scelte non fatte. Mia madre mi diceva spesso ‘Chissà se stasera tocca a me o a te, e non era giusto, lei doveva tutelarmi, non mettermi sul suo stesso piano’.

A gennaio Luigi uscirà con un libro, edito da Marsilio, in cui, oltre alla lotta alla camorra, racconterà anche di questo suo pezzo di storia familiare tanto doloroso. Lo farà per dare un messaggio, lo stesso che dà alla fine dell’intervista:

Voi donne, domandatevi se state facendo crescere o sopravvivere vostro figlio. Io ho avuto le spalle larghe, mi sono affidato a un percorso psichiatrico, volete lo stesso per i vostri figli?
Sai quante volte ho sognato di uccidere mio padre, e ho sempre immaginato il suo funerale come il giorno della liberazione. Ma, da madre, non posso permettere che questo sia il finale. Non posso.

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