Fast fashion: i vestiti che indossiamo tutte e che stanno uccidendo il pianeta

Da qualche anno, e sempre più spesso, si usa l’espressione “fast fashion - moda veloce” per descrivere i modelli di produzione adottati da quelle aziende di abbigliamento che producono rapidamente e vendono capi economici e alla moda, proponendone continuamente di nuovi: tra i marchi più famosi ci sono Zara, H&M e Primark. Scopriamo di più su questo fenomeno.

“Come può costare così poco?”. Quante volte ce lo siamo domandate, perdendoci senza meta tra uno scompartimento e l’altro degli sfavillanti mega store che popolano le nostre città? Il nostro modo di fare shopping è profondamente cambiato negli ultimi anni: mille variabili si intersecano tra loro, ma il focus viene rivolto tutto sulla cosiddetta fast fashion.

Con il termine si intende la produzione velocissima (fast, appunto) di capi economici ispirati a ciò che sfila sulle catwalk delle grandi maison della moda, e che dettano nuove tendenze non stagione dopo stagione, bensì settimana dopo settimana. La fast fashion nasce per soddisfare il desiderio dei consumatori di acquistare un capo che apparentemente è simile a un capo di alta moda, ma a una fascia di prezzo accessibile davvero a tutti. Questa tendenza ci ha permesso di costruire un armadio sempre più grande, con capi che indossiamo e sfoggiamo giusto il tempo di farci trascinare nella scia del trend del momento.

Qual è la grande novità? Semplice, questi capi costano talmente poco che possiamo acquistarli e buttarli o dimenticarli sul fondo dell’armadio senza troppi pentimenti. La strategia che svolge un ruolo chiave in questo meccanismo è quella di far durare poco le mode in modo da creare continuamente nuovi trend, e spingere le persone ad acquistare d’impulso. Scopriamo più nel dettaglio di cosa tratta il fenomeno del fast fashion e quali sono i punti chiave di questo modello che sta distruggendo non solo il pianeta, ma anche il nostro guardaroba.

Un po’ di storia: quando, come e dove nasce?

Il New York Times utilizzò l’espressione “fast fashion” per la prima volta alla fine del 1989, quando Zara aprì le porte del suo store nella Grande Mela: l’articolo descriveva un nuovo modello di fare business, dove bastavano 15 giorni perché un capo di abbigliamento (in questo caso di Zara) passasse dalla mente creativa di uno stilista all’effettiva vendita in negozio.

La “fast fashion” viene considerata un processo di democratizzazione della moda, un fenomeno economico che ha permesso a tutti di vestirsi bene seguendo le ultime tendenze. Tuttavia, i ritmi di produzione di queste aziende sono sostenibili solamente producendo in paesi dove il costo del lavoro e della manodopera è basso e, di conseguenza, dov’è facile che i lavoratori vengano sfruttati e sottopagati.

Fast fashion: come funziona?

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Come funziona il modello della fast fashion. Fonte: ourgoodbrands; pinterest.com

‘‘Rendere la moda delle passerelle accessibile a tutti’’ è il motto. Questo sistema, infatti, si propone di vendere al consumatore le ultime tendenze provenienti dallo sfavillante mondo della moda a prezzi facilmente accessibili, dove il focus è dare una risposta alle necessità e alle richieste del pubblico nel minor tempo possibile: produce (molto) rapidamente una serie di prodotti che soddisfano i gusti dei consumatori, e ciò è possibile grazie ad una scrupolosa e dettagliata comprensione dei bisogni che nascono nel pubblico.

Il sistema di Quick Response, ad esempio, è molto utilizzato da Zara, fashion retailer considerato tra i più efficienti e validi in questo circuito dell’alta velocità, che consegna nei propri negozi monomarca nuovi capi d’abbigliamento almeno una volta ogni due settimane. Tutto parte dalla base, dove ci si concentra sulla riduzione del tempo che intercorre tra la progettazione e la produzione di un capo: designers e menti creative all’interno dell’azienda ricercano incessantemente ed elaborano nuovi trend dando vita in seguito a nuovi capi, che vengono prontamente spediti nel reparto di produzione che si occupa di realizzarli nel minor tempo possibile, per poi poterli consegnarli successivamente in negozio.

Tutto questo per dire che i brand delle catene low-cost cercano di dare una risposta sempre più rapida ai consumatori, tanto quanto lo sono le tendenze, regalandogli una maggior scelta e disponibilità dei capi da acquistare.

Quali sono i brand coinvolti?

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I brand che hanno adottato la fast fashion, l’esposizione di Zara e lo store di H&M. Fonte: pinterest.com

Questo modello affonda le sue radici già nella seconda metà del 1900, sebbene sia un fenomeno molto recente e di cui ormai tutti conoscono il significato. Per citare alcuni nomi, H&M esiste dal 1947 quando, nella città di Västerås lo svedese Erling Persson aprì il negozio “Hennes” (in svedese “hennes” significa “le cose di lei”), che proponeva abiti economici e alla moda. La “M” del nome verrà aggiunta solo in un secondo momento, e deriva dal nome di un rivenditore di abiti da uomo che fu acquisito da Persson stesso nel 1968, Mauritz Widforss.

Zara invece fu fondata nel 1975 in Spagna dove vendeva copie economiche di capi di abbigliamento di marchi famosi e dagli anni Ottanta in poi applicò il modello di produzione della “moda istantanea”, con una squadra di stilisti che disegnava intere collezioni molto velocemente. La britannica Topshop e l’irlandese Primarkfurono aperte entrambe negli anni Sessanta. Topshop nel 1964, come parte di alcuni centri commerciali, mentre Primark fu fondata a Dublino nel 1969. Mango, Forever 21, River Island, Uniqlo e Berskha sono solo alcune tra le più famose e conosciute catene che hanno e continuano ad aprire nuovi negozi in Europa e in tutto il mondo, sostenendo il fenomeno della moda veloce e ad alta rotazione.

The True Cost: non il solito documentario

All’interno della sua vasta libreria, Netflix ha recentemente rilasciato una piccola perla intitolata “The True Cost”, che in 90 minuti cambierà per sempre il vostro modo di guardare il modello della fast fashion. Diretto da Andrew Morgan nel 2015, questo documentario si concentra sulla Fast Fashion Industry in tutti i suoi aspetti più macabri e oscuri: partendo dal tragico e straziante crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013 che uccise oltre un migliaio di lavoratori tessili, tra cui moltissime donne, The True Cost discute dei vari aspetti dell’industria dell’abbigliamento. Dalla produzione, alle condizioni dei lavoratori a basso reddito nei paesi in via di sviluppo, dall’inquinamento alle malattie e in alcuni casi anche la morte, l’industria del fashion viene spogliata da tutto il suo sfarzo e analizzata in ogni suo aspetto meno pubblicizzato.

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Un frame tratto dal documentario “The True Cost”. Fonte: purpose

Il film passa attraverso il Bangladesh, l’India e la Cambogia, paesi dove è concentrata maggiormente la produzione dei brand più famosi, e spiega il prezzo umano, ad esempio, di quella maglietta che trovate sugli scaffali di Zara per sette euro. Strettamente correlato è anche il tema dell’ambiente e il prezzo che l’industria ha su di esso: i tessili scartati non sempre sono facilmente smaltibili. Spesso contengono materiali sintetici o inorganici che danneggiano gravemente l’ecosistema, in quanto difficilmente degradabili.

Ma questa non è l’unica tipologia di rifiuti che sta causando danni all’ambiente: ci sono anche le sostanze e i metodi di produzione dei capi che rilasciano sempre sostanze nocive, pesticidi e coloranti negli ambienti acquatici delle comunità che cooperano con i grandi fashion retailers. Da questo si può dedurre come la moda sia uno dei tanti fattori che ha causato l’aumento dei danni ambientali nel corso degli anni.

Ma The True Cost non racconta solo questo: il documentario include anche molteplici esempi di come le persone e i consumatori possano fare la differenza, non mostrando semplicemente i modi distruttivi in cui opera questo settore, ma anche le opportunità di reinventarlo attraverso piccole scelte.

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Fast fashion contro moda etica: Camilla Mendini, “Carotilla”. Fonte: correiredelveneto; pagina Facebook

Se questo documentario ha aperto gli occhi a moltissimi spettatori, lo ha fatto anche con Camilla Mendini, più conosciuta con il nome di “Carotilla”. È una graphic designer, mamma e sul suo canale YouTube parla di design, di New York (dove si è trasferita e vive attualmente), ma attira l’attenzione grazie ai video dove affronta il tema della fast fashion e della moda etica, dove condivide tutto ciò che pensa e impara con la sua community (che cresce a dismisura), che apprezza tutte le sue critiche e i suoi consigli attorno al tema. Spiega quanto sia scorretta la politica delle catene low-cost che, invece di proporre alcune collezioni all’anno come generalmente detta la moda, ne sforna una dopo l’altra senza sosta. Ovviamente questo modo di vendere attira molti clienti, ma dietro a un costo così basso e accessibile a tutti i portafogli è nascosto lo sfruttamento e realtà ben oscurate dai brand.

Fashion Revolution Week: un traguardo importante

Carry Somers, co-fondatrice del movimento Fashion Revolution, afferma che:

Quando tutto nell’industria della moda è focalizzato sul profitto, i diritti umani, l’ambiente e i diritti dei lavoratori vengono persi. Questo deve finire, abbiamo deciso di mobilitare le persone in tutto il mondo per farsi delle domande. Scopri. Fai qualcosa. L’acquisto è l’ultimo click nel lungo viaggio che coinvolge migliaia di persone: la forza lavoro invisibile dietro ai vestiti che indossiamo. Non sappiamo più chi sono le persone che fanno i nostri vestiti, quindi è facile far finta di non vedere e come risultato milioni di persone stanno soffrendo, perfino morendo.

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Fast fashion: il movimento “Fashion Revolution Week”. Fonte: pinterest.com

In questo contesto, è fondamentale la segnalazione della sempre più seguita e sostenuta “Fashion Revolution Week”, la campagna di sensibilizzazione dedicata alla moda consapevole che solleva la questione più scottante del sistema moda: chi e come vengono prodotti i vestiti che acquistiamo? Una domanda non da poco. Si tiene ogni anno nel giorno del crollo del Rana Plaza, e vuole essere il primo passo per la presa di coscienza di ciò che significa acquistare un capo d’abbigliamento, verso un futuro più etico e sostenibile per l’industria della moda, nel rispetto delle persone e dell’ambiente.

Per aderire alla campagna e contribuire a generare un cambiamento positivo nell’industria della moda e nei suoi modelli di consumo basta indossare gli abiti al contrario, con l’etichetta bene in vista, fotografarsi e condividere le foto attraverso i social media con l’hashtag #WhoMadeMyClothes?, taggando i grandi marchi e condividendo le loro risposte.

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