“La mamma cucina, il papà lavora”: la “non-educazione” dei libri delle elementari

In realtà, forse siamo noi adulti (alcuni, almeno) a essere così preoccupati all'idea di poter "rovesciare" il mondo e il gioco di ruoli per come lo abbiamo vissuto e per come ce lo hanno sempre trasmesso, da preferire crescere figli che saranno altrettanto assuefatti all'idea di questa distinzione netta ma assolutamente discriminante. Il vero "atto di coraggio", allora, sta proprio nel regalare ai nostri figli l'opportunità di essere migliori di noi, e di aiutarli a liberarsi da preconcetti e paradigmi che a tutti gli effetti sono errati e ingiusti.

Il compito è semplice: fra i tre verbi, associare quello che chiaramente non può essere associato al soggetto.

Il problema non sta quindi nel capire che la mamma ovviamente non può “tramontare”, ma semmai negli altri due verbi che invece le vengono attribuiti: “cucina” e “stira”.

I verbi che vengono associati al papà invece? Naturalmente “lavora” e “legge”, perché sia mai che di fianco alla parola “papà” possa spuntare un “cucina” o “pulisce”.

La domanda, allora, è sempre la stessa: come si può pretendere di educare nuove generazioni di future donne consapevoli delle proprie potenzialità e di uomini rispettosi che non vedano nella donna solo la massaia di casa, se poi persino nei libri di seconda elementare (perché questa foto è tratta proprio da un testo didattico per bambini di sette anni) si continuano a perpetuare i soliti, triti e noiosi stereotipi da famiglia patriarcale? Sì, la domanda per alcuni sarà pure diventata anche una monotona reiterazione o l’ennesima inutile battaglia da esagitate femministe (basta leggere i commenti al post di Abolizione del suffragio universale, la pagina Facebook che ha postato la foto, per rendersene conto), ma in realtà nasce, ed evidentemente ha bisogno di essere ciclicamente ripetuta, perché spinta dal timore che, nonostante tante belle parole e altrettante campagne di sensibilizzazione, nel concreto non ci si voglia neppure impegnare più di tanto per cambiare le cose.

Viene da pensare che il sessismo, e quella divisione dei ruoli che storicamente questo porta con sé, sia talmente connaturato, insito nella nostra cultura e nei nostri schemi mentali da essere vissuto come qualcosa di spontaneo, naturale e immutabile, e perciò come proponibile anche alle generazioni future. Perché, in fondo, male non fa.

Insomma, non si vede nessuna implicazione sbagliata o distorta nel far passare a un bambino di seconda elementare il messaggio che il compito naturale di una madre sia cucinare e stirare, di un padre lavorare e leggere, e proprio coloro che si domandano, anche un po’ annoiati, perché questo desiderio di “rompere le scatole e di attaccarsi alle parole a tutti i costi”, sono il sintomo più inequivocabile e triste del fatto che, per liberarsi da cliché e schematizzazioni fin troppo semplicistiche basate sul dualismo uomo/donna, la strada da percorrere sia ancora lunga e tortuosa.

È chiaro che educare e crescere bambini consapevoli e davvero capaci di spezzare il legame con quei retaggi antiquati che noi ci trasciniamo dietro da tempo immemore significhi anche, e soprattutto, portarli finalmente a contatto con una realtà dove certi “dogmi” sociali non siano più considerati tali, e dove non sia giudicato scandaloso, né tantomeno fuorviante per la loro crescita serena, parlare di “padri che stirano” o di “madri che lavorano”. E se il compito della scuola, oltre che fornire le basi didattiche ai bambini, è anche quello di occuparsi della loro cultura, non si comprende perché di questa cultura non possa far parte anche una visione che non sia così stereotipata e ristretta rispetto alle figure di uomo e donna. Visione che, dopo tutto, non sarebbe certo lontana dalla verità, dato che oggi, fortunatamente, ci sono mamme che lavorano e papà che aiutano a casa.

In realtà, forse siamo noi adulti (alcuni, almeno) a essere così preoccupati all’idea di poter “rovesciare” il mondo e il gioco di ruoli per come lo abbiamo vissuto e per come ce lo hanno sempre trasmesso, da preferire di non uscire da questa “comfort zone”, pure se non rispecchia più la realtà, per crescere figli che saranno altrettanto assuefatti all’idea di questa distinzione netta ma assolutamente discriminante. Il vero “atto di coraggio”, invece, sta proprio nel regalare ai nostri figli l’opportunità di essere migliori di noi, e di aiutarli a liberarsi da preconcetti e paradigmi che a tutti gli effetti sono errati e ingiusti. Ma, se già in seconda elementare si toglie a un bambino la possibilità di immaginare che un cavallo possa cantare o uno scoiattolo volare, forse dovremmo porci la domanda se la strada che stiamo imboccando sia davvero quella giusta.

 

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