Tutta la crudeltà del mondo nel diario di Hélène Berr
La storia di Hélène Berr, che raccontò la sua vita da ebrea nella Parigi occupata dai nazisti, prima di essere catturata e morire nel campo di concentramento di Bergen-Belsen
La storia di Hélène Berr, che raccontò la sua vita da ebrea nella Parigi occupata dai nazisti, prima di essere catturata e morire nel campo di concentramento di Bergen-Belsen
“Niente diventa reale se prima non si è sperimentato, neppure un proverbio è un proverbio se la vita non te ne ha dato un esempio”. Così, il 1° novembre 1944, Hélène Berr scriveva nel suo diario, citando il poeta inglese John Keats. Solo pochi anni prima non avrebbe potuto immaginare il dolore che stava per sperimentare sulla sua stessa pelle, dopo aver osservato impotente mentre la situazione precipitava nella sua Parigi. Come Anna Frank, anche lei ha raccontato l’orrore da vicino, finendo fagocitata da quel male che nessuno ha saputo fermare.
Il diario di Hélène Berr si apre il 7 aprile del 1942. Figlia unica, è una brillante studentessa di lingua e letteratura inglese alla Sorbona, ha ventuno anni e suona il violino. Scrive ciò che le succede ogni giorno e i suoi pensieri intimi. Presto nel suo mondo si insinuano però appunti angoscianti: il “mostro” che ha invaso la sua vita e la sua mente è l’occupazione nazista, con tutto ciò che ne consegue, come ricorda un articolo apparso tempo fa su Le Monde.
In place de la Concorde, ho incontrato tanti tedeschi con alcune donne, e nonostante tutto il mio scrupolo di imparzialità, nonostante il mio ideale (che è reale e profondo), mi si è scatenata dentro un’ondata non di odio, perché ignoro l’odio, ma di rivolta, di disgusto, di disprezzo. Quegli uomini, senza neppure capirlo, hanno sottratto la gioia di vivere all’intera Europa.
Con una scrittura cristallina, Hélène appunta i fatti “riguardanti le misure contro gli ebrei”, come l’obbligo di mostrare la stella gialla o di viaggiare nella metro solo in seconda classe e nell’ultimo vagone. Non può più andare cinema e nemmeno frequentare musei, biblioteche, giardini pubblici, ristoranti e sale da tè. Persino le cure mediche sono vietate: agli ebrei non è concesso accedere agli ospedali, sia pubblici che privati. Scrivere quello che accade non è facile, ma c’è un motivo se sceglie di farlo.
Devo compiere un dovere scrivendo, perché gli altri devono sapere. A ogni ora del giorno si ripete la dolorosa esperienza che consiste nell’accorgersi che gli altri non sanno, non immaginano nemmeno la sofferenza di altri uomini e il male che alcuni infliggono ad altri. Allora continuo a fare il penoso sforzo di raccontare.
Deve scrivere, perché non c’è altro che lei possa fare.
Perché è un dovere, il solo che posso adempiere. Ci sono uomini che sanno e che chiudono gli occhi, quelli non riuscirò mai a convincerli perché sono insensibili ed egoisti e io non ho autorevolezza. Ma gli altri, quelli che non sanno, e che forse hanno cuore per capire, sono quelli su cui devo agire. Infatti, come guarire l’umanità se non svelandole per prima cosa tutta la sua corruzione, come purificare il mondo se non facendogli capire la portata del male che commette?
Nonostante l’arresto del padre, il 23 giugno 1942, e la successiva liberazione, i Berr restano a Parigi. Ci sono istanti che sembrano riportare la serenità di un tempo, come la giornata passata in campagna con Jean Morawiecki, il ragazzo di cui Hélène è innamorata. Nelle foto di quel giorno sembrano felici e sorridenti, ma lui sta per lasciare la capitale francese e unirsi alle truppe di liberazione di De Gaulle.
Poi, nel giro di pochi mesi tutti i loro amici e conoscenti vengono deportati. Parigi è sempre più triste e lugubre, tanto che la ragazza arriva a chiedersi se i genitori non siano “folli e ciechi a voler restare”. Tuttavia, continua ad avere una visione lucida degli eventi.
Le sofferenze non si vendicheranno con la guerra. Il sangue chiama sangue, gli uomini si ostinano nella loro malvagità e cecità. Se si riuscisse a far capire ai cattivi il male che fanno, se si riuscisse a dar loro quella visione imparziale e completa che dovrebbe essere il vanto dell’essere umano!
L’ultima nota di Hélène Berr è del 15 febbraio 1944 e si conclude con “Orrore! Orrore! Orrore!”, una citazione del Macbeth di Shakespeare. Per lei non ci sarà più tempo per raccontare l’inferno: il 27 marzo 1944, il giorno del suo ventitreesimo compleanno, viene deportata con i genitori ad Auschwitz, dopo aver affidato il diario alla cuoca di casa.
Hélène muore di tifo a Bergen-Belsen nell’aprile del 1945, pochi giorni prima della liberazione del campo. Non si salvano nemmeno i suoi genitori. Jean, il ragazzo di cui era innamorata, riesce miracolosamente a sopravvivere alla persecuzione nazista e riceve gli scritti personali della ragazza, conservati dalla cuoca dei Berr. Deciderà di pubblicarli solo diversi decenni dopo, grazie all’insistenza di una parente della famiglia.
Ci saranno molti che a 22 anni saranno stati consapevoli di poter bruscamente perdere tutte le potenzialità che sentivano in loro (e non provo nessuna timidezza a dire che in me ne sento di immense, dato che le considero come un dono ricevuto e non come un possesso), di poter vedersi togliere tutto e non ribellarsi?Ho paura di non esserci più quando Jean ritornerà… Ma non è paura, perché non ho paura di quello che potrebbe succedermi… Ma temo che il mio bel sogno non potrà completarsi, realizzarsi. Non temo per me, ma per quella cosa bella che avrebbe potuto essere.
Web content writer e traduttrice. Parlo poco, scrivo tanto e cito spesso Yeats.
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