Slut-shaming, quei desideri delle donne che sono ritenuti "sporchi" e inaccettabili
"Sei una zoc***a", "Ma come va in giro vestita?". Sembrano frasi "normali", non lo sono affatto. Si chiama slut-shaming,
"Sei una zoc***a", "Ma come va in giro vestita?". Sembrano frasi "normali", non lo sono affatto. Si chiama slut-shaming,
“Certo che con quel vestito sembra proprio una tr**a”. “Sarà andata a letto almeno con 50 uomini, che schifo“.
Quante volte ci sarà capitato di ascoltare, anche in maniera distratta, se non addirittura di dire frasi del genere? Ritenendole innocue, senza pensare alle terribili implicazioni che in realtà hanno, perché così ci ha assuefatte una società maschilista e a tratti misogina che elogia il machismo e condanna o, peggio, ignora e nasconde il piacere sessuale femminile.
La gran parte di noi, è inutile negarlo, è cresciuta col pensiero che alle “signorine” non fossero riservati certi comportamenti e atteggiamenti; che un uomo che vanta un numero di amanti elevato è un playboy e che, pure se ne parla in giro, non fa peccato, mentre una donna con una libido piuttosto forte non possa concedersi il lusso di cambiare partner e magari avere pure l’ardire di non vergognarsene, senza aspettarsi di essere appellata come una sgualdrina o “una facile”.
Che i vestiti sexy attirano per forza gli uomini come le api sul miele, che se vai in ufficio con la camicia scollata puoi pure immaginartelo che i colleghi ti fissino le tette e che se bevi un bicchiere di troppo significa che sei disposta ad andartene via col primo che passa.
Bene, forse ciò sorprenderà qualcuno, ma questo genere di atteggiamenti, eredità di quel background di bigotto puritanesimo e maschilismo che ci portiamo appresso da tempo immemore, in realtà ha un nome, ed è quello di slut-shaming.
Quello che in italiano sarebbe tradotto come “la vergogna della sgualdrina” è un termine nato dal movimento femminista di nuova generazione al fine di definire l’atto di far sentire una donna colpevole proprio per via dei suoi comportamenti o desideri sessuali, ad esempio, che, guarda caso, differiscono da quelle che sono le aspettative di genere tradizionali: quelli, per dirla in parole povere, che ci vorrebbero tutte caste e pure.
Il femminismo definisce lo slut-shaming come il processo con cui le donne vengono attaccate perché giudicate “colpevoli” di trasgredire a quei codici di condotta sessuale che la società ha previsto per loro. Per citare la giornalista americana Emily Bazelon
Chiamare una ragazza puttana l’avverte che c’è una linea: lei può essere sessuale, ma non troppo sessuale.
Insomma, siamo sempre lì, nella classica lotta di genere che, passando sul lato puramente sessuale, si risolve nella dicotomia “dongiovanni/sgualdrina”.
E, del resto, la stessa immagine della “santa o puttana” è stata lungamente usata (lo è tuttora) come il solito modo per descrivere le donne. Come a dire che possono essere inquadrate in due semplici, essenziali categorie: quelle con una profonda morale che la società rispetta, e quelle che invece rappresentano Satana incarnato, stigmatizzate dagli altri.
Peccato che nel mezzo ci stiano sfumature talmente numerose da non poter essere nemmeno elencate, o che spesso nella stessa donna convivano – e serenamente – le due anime (e molte di più).
È chiaro che lo slut-shaming venga usato indistintamente da uomini e donne, molto spesso, in quest’ultimo caso, per sublimare la gelosia sessuale “in una forma socialmente accettabile di critica sociale dell’espressione sessuale femminile”, come ha sostenuto la professoressa Jessica Ringrose.
Ma è ahimè ancor più grave quando, attraverso lo slut-shaming, si minimizzi lo stupro o, peggio, si attui il blame the victim, ovvero la colpevolizzazione di chi lo subisce a causa degli abiti che indossava, del fatto di aver bevuto un bicchiere di troppo o di aver in un primo momento acconsentito.
Il 24 gennaio 2011 l’agente Michael Sanguinetti, un ufficiale della polizia di Toronto, durante un incontro sulla sicurezza nell’Università di York di cui era relatore ha detto:
Le donne dovrebbero evitare di vestirsi come troie per non cadere vittime di violenze.
Sonya Barnett e Heather Jarvis, che organizzarono poi la manifestazione di protesta, decisero quindi di usare proprio il termine “slut”, anche allo scopo di riscattare il nome dai suoi aspetti negativi.
Le fondatrici, sul sito ufficiale che presentava la marcia, hanno scritto che le donne sono
stanche di essere oppresse nella colpevolizzazione dei comportamenti cosiddetti ‘da troia’ o di essere giudicate per la nostra sessualità, col risultato di sentirci perpetuamente a rischio. Essere in controllo della nostra vita sessuale non dovrebbe significare che ci stiamo rendendo disponibili alla violenza, a prescindere se si partecipi al sesso per piacere o per lavoro.
Il 3 aprile 2011, oltre 3.000 persone si sono riunite a Queen’s Park, procedendo fino alla Questura di Toronto. Nonostante il sito web del gruppo avesse esortato le donne a indossare i vestiti di ogni giorno molte donne hanno deciso di indossare abiti provocanti.
Come detto, di slut-shaming si parla ogni volta in cui le donne vengono giudicate per le supposte “violazioni” al codice di abbigliamento socialmente accettato, ovvero quando si vestono in maniera sexy o provocante, quando chiedono preservativi, spirali e altri metodi anticoncezionali, che agli occhi della gente significa solo “voglio andare a letto con molti uomini”, senza invece pensare al profondo e maturo senso di responsabilità che sta dietro al non volere andare incontro a gravidanze indesiderate o a malattie sessualmente trasmissibili. Fino a quando, come abbiamo detto, vengono colpevolizzate in seguito a stupri e molestie sessuali.
Facciamo slut-shaming, ad esempio, in questi casi:
Potremmo, purtroppo, andare avanti all’infinito. E forse le cose non cambierebbero (anzi, sicuramente).
Ricordatevi, però, che ogni donna ha diritto ad avere una vita sessuale appagante e che possa voler fare sesso solo per il piacere di farlo e non per cercare di restare incinta; che le può piacere una minigonna o un top scollato e che, indossandoli, non voglia far venire i bollori a nessuno; che possa voler passare una sera a fare baldoria senza per forza essere importunata; soprattutto, che mai, in nessun modo, si va a cercare una violenza sessuale.
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
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