"Mi sono autolesionata tutto il corpo ma i vostri sguardi fanno ancora più male"

Nadia Busato risponde a una ragazza di 21 anni che ha inviato sul numero di WhatsApp di Roba da Donne la sua storia, in cui racconta delle discriminazioni e i giudizi che ogni giorno deve affrontare a causa del suo disturbo borderline e della diffidenza delle persone.

Sono una ragazza di 21 anni affetta da un disturbo psichiatrico: il disturbo di personalità borderline. Tra le varie sintomatologie c’è l’autolesionismo, aspetto che in me si è sviluppato fortemente. L’unica parte del corpo che non ho deturpato, è il volto. Sono interamente ricoperta di cicatrici procurate da ferite da taglio, ustioni, fratture; lesioni per cui ho subito interventi e passato giorni in ospedale. Quando cammino per strada vedo le persone dire “oh, guarda quella” e mi indicano.

Tutti mi guardano, tutti commentano: “è una emo, per loro va di moda”, “ma non si vergogna a farsi vedere?”, “io la conosco, ha problemi di testa” e potrei continuare all’infinito. Ah, la migliore è quando un bimbo indicandomi chiede alla mamma perché sia così e lei di tutto punto lo prende per mano e lo allontana. Come se lo potessi contagiare in qualche modo.

E sai qual è la cosa che mi devasta? È che sono i grandi ad essere più cattivi dei piccoli e degli adolescenti, la loro voce ha quel tono di disgusto che mi fa venire male allo stomaco. Si, i medici mi dicono che le persone usano lo stigma perché non conoscono e parlano per ignoranza. Ma io, ogni volta che so che devo uscire di casa piango come una bambina e spero sempre di non aprire più gli occhi per smettere di avere tutte queste cattiverie. Soffro già abbastanza.

Mi sono accorta presto che insegno ai miei figli anche cose che criticamente non condivido. Lo faccio perché spesso non me ne rendo conto; e perché, altrettanto spesso, non ho un’alternativa. Me ne sono accorta la prima volta che, passando per strada, mia figlia (che aveva tre anni) ha indicato col dito una persona che chiedeva l’elemosina chiedendomi se quello era un povero. Per istinto, l’ho rimproverata perché non sta bene additare le persone. Ma poco dopo, accortami che evitavo di risponderle, ho cercato le parole adatte per spiegarle qualcosa di molto complicato e doloroso.

Da quel momento – sono passati sei anni – che cos’è la povertà è diventato un argomento di cui io e i miei figli parliamo. Nel tempo, mentre loro crescevano, è stato possibile ampliare il discorso, affrontare diversi aspetti dell’esclusione sociale, delle fragilità e anche delle forme che la società garantisce per sostenere chi si trova in indigenza, persistente o momentanea. E la povertà è solo uno dei tanti temi che mi sforzo di affrontare, ogni volta che i miei figli vogliono saperne di più di qualcosa di difficile.

Quello che voglio dirti è questo: tutte le persone giudicano sommariamente le realtà problematiche in cui si imbattono per la prima volta; fa parte di noi, perché il nostro cervello cerca di ricondurre l’insolito a pregiudizi che già possediamo. Liquidare una situazione a noi sconosciuta come a-normale, ci aiuta a confermare dentro di noi la certezza di appartenere a qualcosa di giusto, di normale, appunto. Escludere ciò che ci mette in crisi è rassicurante.

La buona notizia è che esistono anche persone che, per necessità o per volontà, si mettono in discussione e si sforzano di conoscere e di capire. Questo processo non è affatto facile: richiede tempo, capacità di comprendere situazioni complesse, nonché la disponibilità ad avvicinarsi a ciò che ci è sconosciuto con animo aperto e sinceramente curioso ed empatico. Accettare ciò che ci sembra inizialmente incomprensibile è possibile; e qualche volta ci rende persone migliori.

Non puoi cambiare la natura della maggioranza degli sconosciuti; però potresti fare qualcosa di concreto per dare la possibilità a qualcuno che lo desidera di capire meglio la tua storia: raccontarla. I disturbi della personalità sono insidiosi, complessi, difficili da comprendere. Ancora più difficile è spiegare che pillole e medici non le curano; semplicemente, si è così ed è necessario conviverci.

L’unico antidoto alla solitudine, che oggi senti così profonda quando cammini tra estranei, è l’incontro. Hai mai pensato di contattare qualche associazione a te vicina che si occupa di incontrare gli adolescenti, ad esempio nelle scuole? Far sentire meno sol* un* adolescente con il tuo stesso disturbo non accorcerà le tue distanze con gli sconosciuti che incontri ogni giorno per strada, ma aiuterà altri giovani (che un giorno saranno adulti e, magari, anche genitori) ad avvicinarsi con più rispetto ed empatia a situazioni di vita complesse come la tua.

Solitudine e rischio di emarginazione: come affrontarlo

All’ombra di una diagnostica sempre più precisa e dettagliata cominciano ad affollarsi un numero crescente di disturbi con cui è necessario imparare a convivere. Ogni adolescente, in qualche modo, si sente diverso; ma una diagnosi medica sancisce questa diversità con un’etichetta che condiziona e marchia la persona. Inoltre, alcuni disturbi, come quelli da personalità borderline, comportano uno sforzo altissimo di gestione e di accettazione, come ci racconta anche la storia di oggi.

In queste situazioni, soprattutto negli anni dell’adolescenza, sentimenti come l’incomprensione e la solitudine si fanno particolarmente acuti e rischiano di portare a a un profondo e costante senso di solitudine e, talvolta, all’emarginazione. I segnali non vanno trascurati fin dall’inizio ed è bene chiedere il supporto di un professionista. Scuole e consultori offrono servizi di primo ascolto e di supporto psicologico anche a famiglie con poca possibilità di spesa.

Qualche volta, un grande aiuto può arrivare da un impegno in prima persona, magari partecipando a progetti di volontariato sociale promossi da realtà che si occupano proprio di avvicinare gli adolescenti raccontando storie di fragilità, difficoltà personale e di riemersione dall’isolamento. Mettersi in gioco può fare la differenza tra sentirsi diversi e sentirsi soli, soprattutto in adolescenza.

Messaggio importante per chi è vittima di bullismo o sexting

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La rubrica di Roba da Donne “Non te lo posso dire – Alziamo la voce VS il bullismo”, è curata da Nadia Busato, scrittrice e giornalista, che risponderà, in una sorta di posta del cuore, a chi il cuore lo ha ferito dalla crudeltà altrui, a chi ha perso la speranza, a chi non sa come uscirne o con chi parlarne e vorrà raccontarci la sua storia di bullismo e soprusi.
Accanto a noi, in questo percorso, gli amici di Centro Nazionale contro il Bullismo – Bulli Stop, il dottor Massimo Giuliani e la dottoressa Carmen Sansonetti (Area Nord Italia – Lombardia Settore Scuole ed Eventi Sportivi), che ci hanno aiutato a mettere a punto il kit di primo soccorso che trovate qui di seguito.
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