Tutti noi abbiamo sentito almeno una volta parlare di “virilità” in riferimento alla caratteristica maschile per eccellenza. Ma, volendo fare un excursus storico e culturale della parola, anche dal punto di vista semantico, a cosa facciamo riferimento esattamente?

Generalmente, quando parliamo di virilità ci riferiamo a tutta quella serie di caratteri sessuali primitivi e secondari che caratterizzano il maschio, ma nel linguaggio comune il termine si definisce più come tutta quella serie di qualità maschili, quali la forza fisica, il vigore, che nell’immaginario collettivo caratterizzano l’uomo e lo rendono tale.

Così come a lungo la fertilità è stata caratteristica primaria per le donne (con buona pace per chi figli ne avrebbe magari pure voluti, ma non ha potuto averne), ragion per cui ancora oggi molti tendono a considerare le donne senza figli come “incomplete” o “a metà”, la virilità ha fatto lo stesso per l’uomo, e tutto ciò che vi era in antitesi è stato a lungo racchiuso nella più classica generalizzazione di omosessuale.

Storicamente, secondo Jean-Jacques Courtine, professore alla Sorbona, la virilità è basata su alcuni valori: forza fisica, coraggio, eroismo guerriero, mascolinità egemonica e infine potere sessuale. Cui talvolta si aggiunge la barba, vista come elemento fisico virile per eccellenza.

Naturalmente, il concetto di virilità affonda le proprie radici in tempi antichi, quelli che hanno dato vita a società prevalentemente patriarcali e maschiliste.

La dimostrazione della virilità nel passato

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Fonte: web

Con il termine Vis, i esprimevano il concetto di forza, intesa come vigore fisico, ma anche come forza d’animo, ciò che separava l’Uomo (il vir) dal semplice essere umano di genere maschile (l’homo). Se è vero che tutti i vires sono anche homines non è vero il contrario: per diventare vir era infatti necessario meritarlo, mostrando carattere e attitudini per conquistarlo.

Del resto, la stessa radice linguistica Vis, ben prima di andare a indicare la virtù con Virtus, aveva in origine il significato di valore, inteso soprattutto come militare: il vir è infatti colui che detiene una forza fisica e d’animo superiore (la vis), che trova una manifestazione tangibile nel valore militare (la virtus).

Questo concetto non era però valido unicamente per i romani: anche i greci distinguevano tra il semplice essere umano di genere maschile (ànthropos) e l’Uomo (anèr) , il quale si distingueva dagli altri uomini (anthròpoi) per il suo valore (andreìa), espresso soprattutto sul campo di battaglia.

Strettamente legato al concetto di virilità antico è però anche il simbolismo fallico: fin dall’antichità si trovano moltissime tracce di adorazione del fallo-pene, a partire dagli obelischi egizi fino alle costruzioni falliche di Persia e Fenicia. La medesima forma è poi ricordata dai Dolmen britannici, dai cippi greci o sardi, mentre pitture come quella della Villa dei Misteri a Pompei ci danno un’idea dei riti.

Se nell’Egitto il dio Min è spesso raffigurato come itifallico, cioè con pene eretto, per i Babilonesi il dio Enki aveva creato i due fiumi Tigri e l’Eufrate con la forza del suo pene; nella biblica Canaan i re mangiavano il pene del predecessore per assimilarne il potere, mentre nella cultura greco-romana, il fallo era considerato l’origine della vita, poiché generatore del seme. Tanto che i greci celebravano le falloforie, ovvero delle processioni in cui degli enormi falli venivano trasportati durante riti per incrementare i raccolti agricoli, nonché il dio della fertilità Priapo, dal cui nome deriva anche il termine medico priapismo, il disturbo che consiste proprio in un’erezione incontrollabile.

Nella cultura romana, invece, il dio Mutunus Tutunus – assimilabile a Priapo – presiedeva al sesso coniugale, mentre un fallo sacro rientrava tra gli oggetti di vitale importanza per la sicurezza dello Stato romano e veniva conservato gelosamente dalle vestali.

Perché le statue greche e romane hanno il pene piccolo?

Proprio perché la cultura fallica era spesso associata alla virilità, intesa anche come forza bruta in alcune sue accezioni, alcuni personaggi della cultura classica vengono rappresentati con il pene piccolo: soprattutto, come spiega Focus, eroi, dèi, atleti presentavano questa caratteristica. Perché?

Le dimensioni ridotte del pene non indicavano minor virilità, ma semplicemente il fatto che si trattasse di personaggi onorevoli capaci di mantenere la razionalità e di conservare la propria parte “animale”. Non è un caso se invece i satiri (esseri mitici, mezzi uomini e mezzi capra, dediti alla lussuria selvaggia) e altre tipologie di uomini non “ideali”, venivano raffigurati con un grande pene eretto.

Virilità, omossessualità e bisessualità nell’antichità

Spesso pensiamo al mondo antico come a un modello promiscuo, dal punto di vista sessuale, tanto che è opinione condivisa e diffusa che fra greci e romani non solo l’omosessualità, ma anche pratiche come incesto e pedofilia fossero prassi accettate e normali.

In realtà, è bene chiarire che nel mondo classico parole come “etero”, “omo” o “bi”, in riferimento alle preferenze sessuali, erano sconosciute. Da pagani l’unica divisione possibile in fatto di sesso era tra attività e passività. Chi era virile, ovviamente, era anche attivo, e i sottomessi erano non solo donne, ma anche uomini. O meglio, pais, un ragazzo destinato a diventare uomo ma non ancora tale, assimilabile alle donne perché debole e sessualmente incerto. Al compimento dei 20 anni il pais da eromenos, ovvero “amato”, doveva diventare erastes, “amante”, quindi il partner attivo non solo di una donna ma, a sua volta, di un pais.

Sbaglia quindi chi si riferisce alla vita sessuale di greci e romani come alla più libera possibile: questo aspetto era in realtà regolato da norme precise, la cui violazione era sanzionata giuridicamente e socialmente. Allo stesso identico modo è inadeguato parlare di bisessualità dei greci o dei romani, visto che i rapporti promiscui c’erano sì, ma appunto regolati secondo tali condizioni. Inoltre – ma sarebbe persino superfluo ricordarlo – tali norme esistevano solo per gli uomini, mentre alle donne era consentito avere rapporti solo con uomini, e in particolare solo con i propri mariti.

È chiaro che, in una simile prospettiva, chi da eromenos non passava a essere erastes era considerato “diverso”; nel corso dei secoli, tutti gli atteggiamenti che sono stati interpretati come una “minaccia” alla virilità, o al rapporto tra mascolinità e potere, sono stati considerati come omosessuali.

Nell’Ottocento, ad esempio, come spiega lo storiografo George Mosse, omosessuali ed ebrei erano accostati perché considerati entrambi estranei alla composizione organica della virilità, tanto che in questo periodo, sulla base della strutturazione della maschilità normale, non si svilupparono solo misoginia e omofobia, ma anche razzismo verso gli ebrei, definiti come non virili.

Il significato della virilità oggi

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Così come è cambiato il prototipo femminile ideale, altrettanto ha fatto quello maschile, passando da quello della fine del XIX secolo che ammirava gli uomini sovrappeso, poiché esserlo, allora, significava essere ricchi, fino a quello, più vicino agli standard attuali, dagli anni ’30 in poi, per cui più che il grasso a contare erano i muscoli.

Con la contestazione studentesca il maschio desiderabile è invece dotato di lunghi capelli, barba (di nuovo), un fisico esile e l’attitudine da rockstar. In questo periodo si passa dalla Britmania, nata in seno al successo di band inglesi come Beatles o Rolling Stones, fino allo sviluppo di un concetto ben più elaborato, quello di androginia, incarnato da star come David Bowie.

Negli anni ’60 a incarnare il modello di uomo virile era anche chi beveva e fumava molto, mentre un ventennio più tardi sono di nuovo i muscoli a farla da padrone, con attori come Sylvester Stallone o Arnold Schwarzenegger a incarnare il prototipo del macho perfetto. Via via fino ai giorni nostri, dove le linee maschili si sono fatte di nuovo più snelle, ma la barba (vedasi hipster) rimane sempre un punto di forza della virilità.

Oggi, secondo alcuni “affezionati” della concezione classica, il concetto di virilità potrebbe essere messo in discussione dal ruolo sempre più importante assunto dalle donne; il fatto, forse, è che invece sarebbe necessario rivedere la stessa definizione di virile, imparando, ad esempio, a scrollarsi di dosso quelle idee stereotipate di “uomo che non deve chiedere mai”, per far spazio a un’intelligenza emotiva maggiore, o a una comunicazione migliore.

Dovremmo insomma educare i nostri ragazzi a non aver paura di mostrare le proprie emozioni, anche attraverso il pianto, smettendo, ad esempio, di usare espressioni come “è una cosa da femminucce”. Allo stesso tempo, dovremmo imparare che puntare solo sulla forza fisica e sullo spirito di competizione per avere successo non rende gli uomini “più virili”, comunicare e mostrare spirito di collaborazione, invece, sì. Ma sono spauracchi da cui è complicato liberarsi, soprattutto per alcuni.

La barba come elemento virile

Da qualche anno a questa parte la barba è tornata ad avere un ruolo preponderante nel look degli uomini, basti pensare allo stile hipster o al look in stile vichingo tornato tanto in voga. Ma, oltre a una questione di pura moda, c’è un’altra spiegazione per cui la barba ha un’attrattiva tanto forte, sugli uomini prima ancora che sulle donne?

Portarla, infatti, non è sinonimo di pigrizia o di allergia al rasoio ma, escludendo chi appunto decide di farla crescere solo per un trend, in generale è considerata un simbolo di virilità con cui distinguersi prima di tutto in mezzo agli altri uomini: è quanto sostiene lo studio portato avanti dalla psicologa della Northumbria University di Newcastle Tamsin Saxton, che ha indagato sulla relazione esistente tra selezione sessuale, peli facciali e timbro della voce. La conclusione cui Saxton e i suoi ricercatori sono giunti è proprio che la barba non sia strumento di seduzione, ma di imposizione sugli altri maschi.

Virilità, violenza e depressione

Naturalmente talvolta la virilità viene estremizzata sfociando in tutti quei pattern di narcisismo e deviazione che sono alla base degli atti di violenza nei confronti delle donne; i quali non sono semplicemente riconducibili alla devianza di pochi maniaci. Il problema spesso è proprio alla base, nelle radici culturali e sociali, nei nostri background e nei retaggi sbagliati che continuiamo a portarci dietro. Né si può dire che la violenza brulichi dove c’è maggiore arretratezza culturale, dato che episodi di abusi e maltrattamenti riguardano tutte le latitudini e gli strati sociali.

A influire in maniera netta sul perpetuarsi di certi atteggiamenti di dominanza maschile, che conducono a gesti violenti laddove questa dominanza non venga rispettata (secondo il pensiero maschile) è senza dubbio il patriarcato, ed è per questo motivo che sarebbe importante liberarsi del paternalismo con cui si cerca di fornire tutele alle donne (insegnando loro a difendersi o, addirittura, invitandole a rivedere il proprio modo di vestire e atteggiamento per “evitare guai”) pensando piuttosto che la radice del problema stia nel modo di pensare di (alcuni) uomini, che nel possesso o nella supremazia, anche fisica, sulla donna vedono il culmine massimo della propria virilità.

Ma l’altra faccia della medaglia di una virilità ostentata ed esasperata riguarda le ritorsioni che quest’ultima ha sugli uomini stessi, su quelli che ovviamente non rientrano negli standard previsti e ritenuti “socialmente accettabili”. Un  magnifico esempio riguarda un film capolavoro del 1997, In & Out, in cui un professore liceale, Howard (interpretato da Kevin Kline) cercava di rifuggire l’idea di essere omosessuale seguendo i consigli di un’audiocassetta che suonavano più o meno così: “Sei vestito in modo adeguatamente virile? […] Gli uomini non ballano. Lavorano, bevono, hanno la schiena a pezzi, ma non ballano. Trattieniti. Fai qualsiasi cosa ma non ballare. Sii uomo. Prendi a calci. Prendi a cazzotti. Morsica l’orecchio a qualcuno“.

Nonostante siano passati 22 dall’uscita del film, c’è da dire che le cose non stanno poi tanto diversamente: ancora oggi un uomo che mostra la propria emotività vive uno stigma che lo porta a essere considerato “diverso”, ovvero “sbagliato”. Con tutta quella serie di conseguenze pericolosissime, anche a livello psicologico, per chi non riesce a trovare il proprio posto nel mondo, costantemente intrappolato in quella intersezione per cui pensa che sia sbagliato sfogare le proprie emozioni ma, allo stesso tempo, non sente nemmeno di corrispondere a quell’ideale virile che la maggioranza ritiene corretto.

Del resto già lo psichiatra austriaco Alfred Adler, allievo di Freud, si era trovato in disaccordo con il maestro sul concetto di “protesta virile”, cioè la tendenza che porta ad affermare gli atteggiamenti maschili del carattere rifiutando il ruolo femminile. Nel saggio Ermafroditismo psichico del 1910 Adler sostiene che la rivendicazione maschile inizi molto precocemente, quando i ragazzi nascondono le caratteristiche femminili, al netto di enormi sforzi fisici e mentali, per paura di non essere tenuti di conto.

Per fortuna esistono forme di ribellione a questa mentalità, come lo spot, realizzato da Gillette, che rinnega la mascolinità tossica in favore di un nuovo modello di virilità. Sono piccoli passi avanti, ma chissà che non aiutino a ricostruire un concetto che dovrebbe abbandonare quelle forme stereotipate cui è abituato.

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