Quell’abbraccio straziante tra padri e la nostra beata ignoranza

Aggiornamento 7 novembre 2019 – Ci sono parole nere di rabbia, di insulti, di infame superficialità, che fanno rumore.

Sono le parole di chi può permettersi di essere ignorante e malvagio, solo perché non conosce gli abissi del dolore di un’altra persona. Solo perché guarda da fuori, da dove tutto sembra chiaro, facile da dividere tra bene e male o da giudicare.

Poi ci sono il silenzio o le parole, annichilite dalla disperazione, di chi nell’abisso ci è dentro.
C’è l’abbraccio tra il padre di una ragazza morta a 18 anni, Giulia Zandarin, e il padre del ragazzo di lei, Alberto Antonello, del quale arrivano le prime notizie del risveglio dal coma e che era alla guida di quell’auto.

È quello che è successo ieri, ai funerali di Giulia. Svoltisi in un silenzio commosso e rispettoso. Niente applausi, solo sobrietà e poi quell’abbraccio straziante tra il padre di Giulia e il padre di Alberto, Franco Antonello che, con il figlia autistico Andrea, anch’egli presente con la mamma, ha ispirato il romanzo “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas, e l’ultimo film di Gabriele Salvatores, presentato alla Mostra di Venezia, “Tutto il mio folle amore”..

Un abbraccio angosciante e fraterno.
Questo resta, dopo giorni in cui molti di noi, ignoranti, hanno abbaiato insulti e parole d’odio come cani rabbiosi, invocando persino la morte di Alberto.

Passa poi la rabbia feroce passa, bastano pochi minuti, al massimo qualche ora, in genere è più che sufficiente il tempo di un post o di un commento sui social prima di tornare a mettere like alla foto di un gattino o a un meme divertente.
Restano parole come sassi, ma chi le ha scritte se n’è già dimenticato. Che poi è il motivo per cui si dice “beata ignoranza”, perché dà a chi la possiede quella caratteristica che si dice appartenga a certi pesci, di dimenticare in pochi secondi quanto fatto poco prima.

Così l’ignorante, beato, non ricorda nulla.
Si stupirebbe se qualcuno suonasse a casa sua, chiedendogli conto delle sue parole.
Diventerebbe immediatamente il vigliacco che è se la lettera di un avvocato lo richiamasse alle responsabilità di ciò che ha scritto.
Se questo non succede… beato ignorante: lui ha già premuto il tasto reset alla sua indignazione a tempo.

Quello che non passa è il dolore di queste famiglie. Non passa l’assenza di Giulia. Non passa il senso di colpa, ancora a venire, di un ragazzo che l’amava e guidava quell’auto. Non passa la disperazione nera di due padri, che gli ignoranti vorrebbero vedere scendere nell’arena a sbranarsi come leoni, a giurarsi odio eterno. Invece si abbracciano.

Abbracciano l’uno il dolore dell’altro. Con il rispetto e la fratellanza di chi sa che, in questo caso, essere da una parte o dall’altra non significa essere stati padri o persone migliori.

E se gli ignoranti non fossero beati dalla loro stessa ignoranza, di fronte a questo abbraccio, proverebbero un’infinita vergogna per la loro bassezza.

Articolo originale – 5 novembre 2019

Alberto Antonello è ancora in coma farmacologico. Le ultime notizie parlano di un breve risveglio in cui il ragazzo, 19 anni, ha chiesto della fidanzata, prima di essere nuovamente sedato dai sanitari.

Lei, Giulia Zandarin, 18 anni, nell’incidente stradale dello scorso fine settimana ha perso la vita. Ma questo Alberto ancora non lo sa.

Dietro la cronaca dei fatti ci sono due famiglie, distrutte.
Una, quella di Alberto, già “abituata” alla ribalta, ma per altri motivi.
I protagonisti della storia, ripresa da tutti i giornali e le tv, finora erano stati il fratello Andrea, malato di autismo, e il padre, Franco Antonello, che per seguirlo aveva lasciato il lavoro, ispirando il romanzo “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas, e l’ultimo film di Gabriele Salvatores, presentato alla Mostra di Venezia, “Tutto il mio folle amore”.

Di quest’ultima ondata di visibilità mediatica la famiglia Antonello avrebbe fatto volentieri a meno. Così come un padre al capezzale di un figlio in coma farebbe volentieri a meno di dover difendere il proprio ragazzo dagli insulti e dalle sentenze emesse da un’opinione pubblica, che non è una massa astratta di persone, ma nomi e cognomi di persone in carne ed ossa, che con i loro profili social vengono sul tuo e su quello di tuo figlio, ad augurargli la morte, a insultarlo e a invocare su di lui le peggio cose a giusta espiazione della morte della sua ragazza.

Ad Alberto è stata trovata una canna, ad Alberto era stata ritirata la patente e data l’autorizzazione, prevista dalla legge, di tornare a casa guidando, Alberto e la sua fidanzata però prima sono comunque andati in discoteca.
Bastano tre righe a sintetizzare la vita di un ragazzo di 19 anni e a permettere a chiunque di insultarlo sentendosi dalla parte del giusto?

Davvero bastano tre righe? Perché fino a pochi giorni fa Alberto era il ragazzo solare che amava la sua ragazza, il fratello premuroso di Andrea, il figlio che ha fatto più di una volta un passo indietro per supportare la sua famiglia e, forse a tratti, ha un po’ invidiato quel legame speciale di papà con Andrea, ma ha capito.

Strano, o forse dovremmo dire mostruoso, svegliarsi un giorno belle persone e andare a dormire criminali, senza essere neppure passati per un aula di tribunale; con la gente che prima avrebbe speso abbracci e cuoricini virtuali a sputarci addosso, senza sapere nulla di noi, a parte quelle tre righe.

Siamo padri e madri di figli che hanno fatto o faranno qualcosa di sbagliato o irresponsabile.
Siamo figli e figlie che fanno o hanno fatto almeno una volta qualcosa che lo era altrettanto.

Per qualcuno è stata una canna, per altri molto di più; per alcuni è stato un bicchiere in più o tanti prima di mettersi alla guida. Nell’andare al lavoro stamattina alcuni di noi hanno accelerato ben oltre il consentito perché erano in ritardo; qualcuno quella curva, l’auto davanti a noi che ha frenato o il pedone che attraversava l’ha visto proprio all’ultimo minuto, ma non è successo nulla. Per fortuna. 

Per fortuna.
La verità è che ognuno di noi commette o ha commesso grossi errori o piccole disattenzioni, che avrebbero potuto andare in modo molto diverso.

La verità è che ognuno di noi potrebbe svegliarsi “brava persona” e andare a dormire ricoperto di insulti , dopo aver generato il dolore più grande del mondo per colpa di una superficialità o di un errore che non ci definirebbe, se non fosse accaduto nulla, come non è successo a molti di noi quando avrebbe potuto.

E se succede? Se succede, proprio perché non siamo mostri, ma essere umani, pagheremo fino alla fine dei nostri giorni anche se ad attenderci, al risveglio dal coma, ci fossero solo mani tese o l’onestà di chi, senza sollevarti dalla responsabilità, ti dice che sarebbe potuto succedere a ognuno di noi almeno una volta nella vita.

C’è una riflessione di Selvaggia Lucarelli che, chi ha figli, dovrebbe leggere. Mi limito qui a estrapolarne una frase:

Bisogna solo sperare di essere più fortunati di altri. E quella fortuna non è quasi mai un figlio che non fa nulla di tutto questo, ma un figlio a cui andrà bene, nonostante errori, imprudenze, leggerezze.

Chiediamoci: insultare Alberto a cosa serve?
Aiuta la giustizia, allevia il dolore di qualcuno, ci rende persone migliori?
No, ci rende persone peggiori e ci definisce per le persone ipocrite che siamo, convinte di essere più meritevoli degli altri e incapaci di riconoscere che anche noi siamo o siamo stati, almeno una volta, ciò che stiamo insultando.

Se invece degli insulti scegliessimo di far arrivare il nostro abbraccio alla famiglia di Alberto e a quella di Giulia, consapevoli che le responsabilità verranno discusse nelle sedi opportune da chi avrà modo di avere una visione non parziale dei fatti, allora sì, saremmo persone migliori e anche esseri umani.

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