Non tutti conoscono la sua storia, ma ci sono molti motivi per rimediare subito: Vittoria Giunti è stata una grandissima donna, che ha dedicato tutta la sua vita per regalarci un’Italia migliore. Matematica, staffetta partigiana, prima donna a guidare un comune in Sicilia e terza sindaca nella storia d’Italia, si batté per il voto alle donne e contro le mafie.

Gaetano Alessi, giornalista di Articolo 21, la intervistò prima della sua morte, nel 2006. Nacque un libro, intitolato Le eredità di Vittoria Giunti, che sarebbe bello poter ritrovare presto in libreria.

Nata a Firenze il 14 dicembre del 1917, figlia di un ingegnere, crebbe in un clima illuminato, fondato sulla tradizione ottocentesca di libertà e rispetto della persona. Lei stessa raccontò ad Alessi come l’ambiente familiare avesse influito sulla sua crescita personale.

Nella casa di campagna del nonno c’era una biblioteca e in questa biblioteca c’era una vetrina in cui era esposta una medaglia d’argento che il mio bisnonno aveva ottenuto come garibaldino. Risale molto indietro nel tempo, in un Ottocento risorgimentale, quell’ideale, quell’atmosfera di libertà che si respirava nella mia famiglia. Atmosfera ottocentesca risorgimentale e liberale nel senso più vero della parola. Una cultura rispettosa di tutte le opinioni, nel senso critico, non nel significato negativo che danno a questa parola, ma nel senso di giudizio e di rispetto delle altrui opinioni.

Dopo il trasferimento della famiglia a Roma, frequentò prima il Liceo Tasso, poi studiò matematica e fisica all’Università di Roma. Ottenuta la laurea, fu scelta come assistente all’Università di Firenze, ma la guerra si mise di mezzo: lei e tanti altri, giovani e meno giovani, si opposero alle ingerenze del regime fascista.

Eravamo spinti da ragioni ed esigenze di carattere morale, culturale, perché era veramente indegno il modo in cui si soffocavano i diritti della democrazia. La demagogia sfacciata, gli strumenti più volgari per ottenere il consenso della gente, si opponevano decisamente al nostro modo di essere. E ancora l’assoluta impossibilità di approvvigionamento dei testi, degli strumenti del sapere, la censura, la proibizione non solo dei libri politici e di carattere economico, ma l’occultamento dei romanzi dell’intera letteratura americana ed europea, l’impossibilità di ascoltare la musica dei giovani di allora come il blues e il jazz.

Entrare nella Resistenza fu una scelta obbligata e necessaria: era impossibile restare a guardare mentre il paese precipitava nell’orrore della dittatura. Proprio durante il suo periodo come staffetta partigiana, conobbe Salvatore Di Benedetto, che divenne il compagno di tutta una vita. Fu proprio lei l’unica a riconoscerlo, dopo che una bomba gli aveva devastato il viso: non si lasciarono mai più.

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Durante il periodo della Costituente, Vittoria Giunti prese parte a diverse commissioni nazionali, lottando anche per il voto alle donne. Decise di trasferirsi con il compagno in Sicilia, in provincia di Agrigento, dove iniziò una nuova vita e un’altra battaglia, stavolta contro la miseria, la differenza tra i sessi e l’ingerenza della criminalità organizzata.

“Le donne non hanno bisogno di molte parole, mettono lo scialle, escono e mobilitano interi quartieri”, disse, parlando del suo impegno per il territorio siciliano. Divisa tra l’attività come docente, si avvicinò sempre più alla politica e nel 1956 fu eletta sindaca nel piccolo comune di Santa Elisabetta, nella lista del PCI.

Sempre presente sul territorio, si occupò soprattutto dei giovani, incentivandoli a battersi per la loro terra. E furono proprio i suoi ragazzi a scortarla quando, il primo maggio del 2005, scese in piazza per protestare contro i mafiosi. Aveva 88 anni ed era in dialisi: sarebbe morta un anno dopo. “Vedete, resisto io in queste condizioni, dovete resistere anche voi”, disse ai suoi ragazzi.

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