"Sola al mio matrimonio": cosa può spingere una madre ad abbandonare una figlia?
Consapevolezza di sé e distacco dalle proprie radici: ecco gli ingredienti indispensabili affinché una donna ottenga la propria emancipazione.
Consapevolezza di sé e distacco dalle proprie radici: ecco gli ingredienti indispensabili affinché una donna ottenga la propria emancipazione.
Indipendenza e realizzazione personale sono da tempo fari e mete della formazione di una donna. Sono lontane le epoche in cui a dare senso e scopo alla vita femminile era il matrimonio, oggi sono in poche le ragazze che non sognano una carriera e l’affermazione di sé stesse come individuo prima ancora che come metà di una coppia, senza per questo voler rinunciare a una famiglia, all’amore, ad avere dei figli.
Eppure se nella ricca Europa dell’uguaglianza predicata per legge e santificata dal consumo, un percorso di affrancamento individuale è ormai fatto acquisito, esistono realtà al confine in cui per una giovane donna la speranza di un futuro migliore per sé e i propri figli passa ancora per le nozze con un uomo abbiente.
È così nella Romania rurale, dove la comunità rom rappresenta il terzo gruppo etnico del Paese: una minoranza che vive ai margini, all’interno della quale le donne sono discriminate due volte, come donne e come rom.
È qui che nasce e vive Pamela, protagonista di Sola al mio matrimonio, opera prima della documentarista Marta Bergman. Ragazza madre, orfana e poco scolarizzata, sogna per sé e per sua figlia qualcosa di più grande, di migliore. Pur di ottenere ciò che vuole è disposta a lasciare il suo Paese e la sua bambina.
A volte, però, quello che spinge lontano non è la disperazione, ma la determinazione: non accontentarsi, volere una vita dignitosa e combattere per ottenerla è la grande forza di questa eroina moderna, depositaria di un sapere femminile che si tramanda attraverso gesti antichi e canzoni del folklore, ma è allo stesso tempo affamata di conquistare strumenti indispensabili per raggiungere la propria libertà come persona.
L’emancipazione femminile, insegna Pamela, passa dalla consapevolezza di sé ed è solo attraverso un percorso sofferto di distacco dalle radici che si raggiunge; spesso – potere dell’eterno femminino – è alle proprie radici che riconduce.
Dopo i ritardi dovuti all’emergenza Covid19, Sola al mio matrimonio di Marta Bergman esce nelle sale italiane il 1 ottobre 2020, distribuito da Cineclub Internazionale Distribuzione.
Presentato nella sezione ACID al Festival di Cannes, il film è stato acclamato a numerosi festival internazionali, tra cui il Rome Independent Film Festival, dove ha ricevuto la Menzione Speciale della Giuria e il premio alla protagonista Alina Șerban come miglior attrice.
Al centro della vicenda il percorso di una giovane donna determinata a cambiare il corso della sua vita: Pamela appartiene a una comunità rom della Romania, dove vive in un piccolo villaggio con la nonna e la figlia.
Nella speranza di poter cambiare il suo destino e quello della sua bambina, decide di partire alla volta del Belgio. Con sé porta soltanto un bagaglio, un abito di fiori gialli e tre parole di francese; ma il senso profondo del suo viaggio è quello di conquistare la sua indipendenza.
Emoziona il viaggio che Pamela intraprende dalla campagna intorno a Bucarest prima fino al Belgio e poi fino alla propria emancipazione.
Sola al mio matrimonio è un racconto di formazione al femminile che non dimentica mai il maschile e che lascia anche ai due co-protagonisti la possibilità di un riscatto dalle loro fragilità e incompletezze: Marian, il giovane amico di sempre, sarà capace di diventare uomo e assumersi responsabilità più grandi di quanto potesse immaginare; Bruno, il promesso sposo anaffettivo e succube della figura materna, riuscirà ad aprire un varco ai suoi sentimenti. A tutti è riservato un percorso difficile e accidentato, come sempre è accidentato il cammino di chi vive ai margini della società e delle convenzioni.
“Volevo un personaggio che lo spettatore amasse per la sua audacia, la sua gioia di vivere e il suo desiderio di imparare“, ha raccontato la regista. E non si può non amare questa Pamela con le sensuali e dolci fattezze di Alina Șerban, attrice e attivista da sempre in prima linea per i diritti della comunità rom in Romania, che Marta Bergman insegue con la sua macchina da presa, bracca quasi, nel tentativo vano di fermarla in un’inquadratura sempre troppo stretta per riuscire a catturarne l’esuberanza.
Cornice, ma fondante, l’omaggio che Marta Bergman fa alla società gitana, complessa, indecifrabile, ricca di persone piene di talento e umorismo. Quello che ne risulta è un’opera d’esordio di grande respiro capace di coinvolgere con una sincerità genuina e tutt’altro che ingenua.
Antropologa sedotta dal giornalismo e dal cinema ha da tempo fatto sua una frase di Proust: “Sentivo che le cose stavano per mettersi male e ripresi precipitosamente a parlare di vestiti”.
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