Mosè è donna e si chiama Harriet Tubman
La storia dell'attivista afroamericana che nell'Ottocento si batté contro la schiavitù e a favore del suffragio femminile
La storia dell'attivista afroamericana che nell'Ottocento si batté contro la schiavitù e a favore del suffragio femminile
Sono stati spesi fiumi di inchiostro per raccontare la vita incredibile di Harriet Tubman, ma non sembrano comunque sufficienti per rendere giustizia a una donna così coraggiosa e importante nella storia della lotta alla schiavitù negli Stati Uniti.
Nonostante la sua figura sia avvolta dalla leggenda, l’approfondimento sulle vicende che l’hanno vista protagonista è relativamente recente. La biografa Catherine Clinton ha scritto nel 2004 un libro importante per comprendere chi sia stata veramente Harriet Tubman.
In Harriet Tubman: The Road to Freedom, da cui è stato tratto un film candidato agli Oscar 2020, molto è stato fatto per andare oltre all’aura del mito e raccontare chi sia sta veramente. Clinton ha raccontato al New York Times di essersi più volte trovata di fronte a persone “che non sapevano se lei fosse vissuta sul serio o se fosse un personaggio del folklore”.
Chi era dunque Harriet Tubman? Nata in Maryland con il nome di Araminta Ross, presumibilmente nel marzo del 1822, visse tutta la violenza possibile di uno dei periodi più cupi per gli Stati Uniti. Nipote di una donna strappata dalla sua vita in Africa e portata via mare in America, decise di agire dopo aver visto le sue tre sorelle vendute.
Come racconta lo Smithsonian Magazine, le sorelle Linah, Soph e Mariah Ritty furono separate dal resto della famiglia, che prestava impiego nella grande casa dei Brodess, e mandate nel Sud per lavorare nelle piantagioni di cotone. Non si seppe più niente di loro.
Harriet non subì la stessa sorte semplicemente perché aveva avuto un grave incidente che le causava emicranie, crisi epilettiche e visioni, rendendola di fatto difficile da vendere come schiava. Nel 1844 si sposò con un uomo libero, John Tubman, ma la situazione precipitò pochi anni dopo.
Dopo aver saputo che i Brodess stavano pensando comunque di venderla, nel 1849 tentò prima la fuga con i fratelli, ma dovette tornare indietro quasi subito, poi scappò da sola verso il confine della Pennsylvania.
C’erano due cose a cui avevo diritto: la libertà o la morte; se non potevo avere l’una, avrei avuto l’altra.
Finalmente libera, per i successivi dieci anni continuò a tornare avanti e indietro dal Maryland per salvare famiglia e amici. Sapeva che l’unico modo possibile per farcela era farli sparire in Canada: dopo una dozzina di viaggi, spesso molto pericolosi, riuscì a portare in salvo circa settanta persone.
Ero una straniera, in terra straniera. Mio padre, mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle erano in Maryland. Ma io ero libera, e anche loro dovevano esserlo.
Dopo l’approvazione della Fugitive Slave Law, con cui il Congresso aumentava le multe per chi non riportava indietro gli schiavi fuggiti ai padroni, tutto divenne ancora più complicato. Harriet Tubman arrivò persino a portare con sé una pistola, per timore di doversi difendere. Ma non era sola, nella sua battaglia: diversi abolizionisti furono al suo fianco, soprannominandola Mosè.
Con lo scoppio della Guerra di Secessione nel 1861, Harriet si adoperò per aiutare i soldati del Nord, certa che la vittoria dell’Unione contro i confederati avrebbe portato anche all’abolizione della schiavitù. E così fu: il Proclama di Emancipazione del presidente Abramo Lincoln, emesso nel 1863, portò alla liberazione degli schiavi negli stati del Sud.
Nonostante il suo grande impegno, alla fine della guerra non le vennero riconosciuti i meriti e i risarcimenti dovuti. Povera e senza una pensione statale, Harriet Tubman passò il resto della sua vita ad Auburn, in Alabama, lavorando per aiutare i familiari e gli ex schiavi.
Lì trovò anche l’amore per un uomo molto più giovane, con cui nel 1874 adottò una bambina. Prima di morire, nel 1913, si batté a lungo per il voto alle donne. Chiamata a parlare in diverse città americane, divenne una vera icona del neonato movimento per i diritti femminili.
Web content writer e traduttrice. Parlo poco, scrivo tanto e cito spesso Yeats.
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