Saper invecchiare ai tempi del coronavirus
Ricorderemo anche questo, un giorno. Quando tutto sarà finito, quando "ti trovo invecchiata!" sarà un complimento.
Ricorderemo anche questo, un giorno. Quando tutto sarà finito, quando "ti trovo invecchiata!" sarà un complimento.
Ricorderemo anche questo, un giorno. Annoieremo i bambini con il racconto di quella primavera che cambiò le nostre vite, il giorno prima prendevamo l’aperitivo con gli amici e il giorno dopo non potevamo nemmeno più andare al lavoro e tutto quello che credevamo scontato, improvvisamente non lo era più.
Racconteremo di quel senso di pericolo che avevamo visto solo nei film, lo smarrimento, la confusione isterica degli inizi e l’angoscia del mentre; di come ci si rassicurava l’un l’altro dicendo che un giorno sarebbe finita senza sapere quando. Racconteremo della paura che rendeva brutti, chi violava le restrizioni e chi rimaneva appostato per denunciarle, rendendo il lato nascosto di ognuno visibile agli altri con le sue zone buie e imperfezioni. Confesseremo quanto ci scoprimmo fragili, noi che ci eravamo tatuati la parola “resilienza” sul braccio per poi scoprirci incapaci di vivere nella nostra stessa casa.
Ricorderemo come sentivamo prepotente la necessità di fare cose che non avevamo fatto mai, tipo correre per strada o inforcare la bici, e lo stupore di vedere cantare in terrazza chi per anni aveva praticato l’arte della discrezione e della sobrietà.
Come nei racconti di guerra, diremo che la pandemia ci aveva cambiati portando alla luce cose di noi stessi che ignoravamo. Ad esempio, proprio quando eravamo chiamati a parlarci attraverso uno schermo avevamo sollevato lo sguardo verso il vicino per l’urgenza di scambiarci un saluto, seppur da lontano. Avevamo ricominciato a telefonarci e ad ascoltare le nostre voci, ché la lontananza aveva reso necessari contatti meno asettici di quelli offerti dalle messaggerie, e ad accogliere con sollievo il rumore delle auto per strada come prova della continuazione della vita là fuori.
Ci eravamo imbruttiti, dentro e fuori. Dopo i primi giorni di telelavoro ci eravamo arresi alla tuta ed erano state sufficienti poche settimane per scoprire il vero colore dei capelli di ognuno.
La pandemia aveva rovesciato le priorità e divenne chiaro che ne saremo usciti diversi da come ne eravamo entrati: più grassi, ad esempio, ché nei lunghi pomeriggi di inattività non si poteva far altro che infornare. I nostri guardaroba ci apparvero improvvisamente sovradimensionati e la sensazione di non avere niente da mettere ci abbandonò .
Diventammo esperti in meditazione e mindfulness, ché non tutti potevano permettersi uno psicologo, ma scoprimmo che la gentilezza che predicavamo dalle pagine dei social si infrangeva contro la necessità di insultare chi camminava per strada. Qualcuno propose di sostituire l’hashtag #IoRestoaCasa con un più modesto #NonToccoNessuno, perché divenne chiaro che anche i matrimoni più felici si sarebbero infranti di fronte alle lotte per portare a spasso cani esausti (ma anche perché molti davano al termine ‘casa’ un’interpretazione estensiva che consentiva ai vicini di invitarsi tra loro).
I genitori implorarono i ragazzi di non andare a scuola e rimanere incollati ai videogames, cioè l’esatto contrario di quanto avevano sempre ordinato loro di fare, e l’isolamento sociale passò da essere patologia a essere virtù.
Qualcuno abbracciò uno stile di vita introspettivo e minimale, qualcun scoprì se stesso e non si piacque, tutti rimpiansero la vita libera e frivola del tempo in cui non soltanto si poteva decidere di uscire a mangiare un gelato, ma si poteva anche farlo.
E poi c’era quel rito segreto, la conta dei morti e dei viti. Si scandagliavano età e patologie pregresse per capire se ci si sarebbe sottratti al campo d’azione del virus e rassicurarci che nulla di male sarebbe accaduto ai nostri figli. E in questo mondo al rovescio in cui si rimpiangevano colleghi antipatici e l’arrivo delle lunghe giornate era atteso con angoscia, le Perennial che avevano dedicato la loro vita a combattere l’invecchiamento desiderarono solo questo: poter invecchiare.
Invecchiare diventò un progetto di vita e uno scopo, “ti trovo invecchiata!” diventò un complimento.
Poi, come sempre accade quando ci si diverte, anche la pandemia finì. La Natura aveva fermato il virus che la soffocava – cioè l’Uomo – l’aria era stata ripulita e il pianeta ne era uscito rigenerato. Sopraffatti da una vita solo virtuale i ragazzi erano tornati a popolare i parchi cittadini, gli adulti ad andare al lavoro con entusiasmo, quelli che avevano l’abitudine di togliere i pelucchi dal maglione dell’interlocutore poterono ricominciare a farlo. Dopo aver vissuto nel sospetto reciproco, ci si permise il lusso di tornare a fidarci gli uni degli altri e da quella esperienza spaventosa venne fuori un’umanità migliore. E questo, ragazzi miei, non era affatto scontato.
Milanese per sbaglio e perugina per scelta, sto attraversando quella fase della vita in cui il sesso appagante ha molto a che vedere con la speranza.
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