Coronavirus, i drammi di chi continua a lavorare: "Siamo soli e spaventati"
Farmacisti, cassieri, commessi: abbiamo raccolto le vostre storie, le storie di chi deve continuare a lavorare nonostante l'emergenza Coronavirus.
Farmacisti, cassieri, commessi: abbiamo raccolto le vostre storie, le storie di chi deve continuare a lavorare nonostante l'emergenza Coronavirus.
Da quando è cominciata l’emergenza dovuta al Coronavirus, e le misure di contenimento adatte a prevenire la diffusione del virus COVID-19 ci siamo occupati spesso dei medici e degli infermieri che lavorano alacremente per garantire l’assistenza ai malati e occuparsi della salute di tutti noi; ma gli ospedali, ovviamente, non sono le sole strutture rimaste aperte dopo il decreto dell’11 marzo e i successivi: ci sono altri lavoratori che ogni giorno portano avanti il proprio mestiere, fornendo servizi agli altri, consapevoli di sottoporsi ai rischi del contagio.
Parliamo di farmacisti, commessi, corrieri, volontari, assistenti di persone anziane o con disabilità, e tante altre categorie di cui poco si sta parlando. Per questo, vi abbiamo chiesto, attraverso i nostri canali social, di raccontarci le vostre storie, la vostra quotidianità ai tempi del Coronavirus, così che tutti capiscano quanto grande e importante sia il sacrificio di chi continua con il proprio lavoro, mettendo a repentaglio la propria salute.
Qualcuno si è voluto esporre, altri hanno preferito restare anonimi, e queste sono alcune delle testimonianze che ci sono arrivate.
“Mia madre è direttrice di farmacia, a San Vincenzo, in Toscana. Sono molto preoccupata dato che quando c’è stata la ‘grande fuga’ da Milano, in tanti sono venuti alla casa al mare qui in Toscana. San Vincenzo è una meta turistica molto rinomata. Spiagge bellissime, mare cristallino. Mia madre lavora tutti i giorni, e tutti i giorni torna stanca. Ogni volta che tossisce o che dice che ha freddo mi sento morire. Siamo solo io e lei. Vivo ogni giorno nell’angoscia più totale che qualcuno, facendo il suo giro in farmacia per comprare una stronzata glielo attacchi inconsapevolmente.
Io passo i miei giorni a pulire e sanificare casa e oggetti che ha usato, perché se lo prende lei, potrei prenderlo anche io, e non voglio costringere un dottore, in ospedale, a scegliere tra la mia vita e la sua.
Ogni giorno combatto per non abbandonarmi alla paura e alla disperazione.
La situazione in Toscana è brutta, i numeri sono in crescita.
Non me la sento di accusare quelle persone che sono scappate dalle regioni del Nord per salvarsi. La sopravvivenza è insita in noi, e loro volevano salvarsi. Morire soffocati non è un futuro allettante.
Ma l’errore da queste persone commesso è stato quello di uscire, tranquillamente, sotto il sole della Toscana. Avrebbero dovuto stare a casa, in quarantena autoimposta.
Ora paghiamo le conseguenze di quel gesto.
Noi toscani ci mettiamo del nostro, continuando a condurre la nostra vita normalmente. Al supermercato per la piccola spesa, tutti i giorni, per comprare la frutta e la verdura. Sul mare, al sole, perché Dio ce ne scampi se arriviamo a maggio bianchi latte.
In farmacia ci vogliamo andare? ‘Sì, è aperta per fortuna, ho un leggero male al collo, puoi comprarmi i Thermacare? Magari chiedi se sono arrivate le mascherine’.
Vedo continuamente gente che con qualsiasi scusa esce di casa per la passeggiata mattutina, e poi pomeridiana e serale. Cosa c’è di sbagliato in noi? Perché è così difficile da capire che dobbiamo stare a casa?”
“Per quanto riguarda la situazione che stiamo vivendo come famiglia, beh diciamo che sto bene solo quando la sera sento la chiave girare nella serratura e so che è mio marito che torna finalmente a casa.
È capitato che dovessero fare turni di 12/13 ore per istituire secondi pronto soccorso, spostare interi reparti e metterli in funzione altrove, mentre altro personale tecnico si dà ‘latitante’ svolgendo smart working da casa e lasciando l’incombenza del lavoro a loro che non possono rifiutarsi di fare lavori on site.
Purtroppo scarseggiano anche protezioni come mascherine che, mancando anche per medici e infermieri, non sempre sono garantite per i loro tecnici.”
“Faccio l’autista di mezzi pubblici a Bologna, ma sembra che di noi non si accorga nessuno.
La mia categoria, insieme alle altre che svolgono mansioni necessarie a garantire servizi essenziali, è molto esposta al pericolo di contagio in questo momento. Non voglio certo paragonare un tranviere a un medico, per carità, ma anche noi facciamo la nostra parte e contribuiamo a non far paralizzare tutto… E non ci tiriamo indietro, mai, nonostante la nostra azienda nelle prime settimane non ci abbia neanche fornito i mezzi per proteggerci, e nelle pause non sappiamo dove andare per non accalcarci. Solo domani avremo le prime mascherine, e ho detto tutto!
Eppure non ho mai sentito una volta, in tutte queste settimane, che qualcuno si sia ricordato di citare nei ringraziementi gli autoferrotranvieri. ”
“Il mio ragazzo lavora in un’azienda agroalimentare. Per me anche il suo è un piccolo sacrificio.
Ha 22 anni e lavora come operaio in una fabbrica che produce cracker, biscotti e cose simili… Abitiamo nello stesso comune ma a 2 km di distanza; per quanto abbiano le mascherine monouso ogni giorno e si cambino prima di entrare e uscire dall’impianto, io ho sempre un po’ di timore… Per me rischia un pochino comunque, anche se non è in corsia, sia per il fatto che il virus è molto subdolo sia per il discorso degli asintomatici. Per me anche i lavoratori come lui si stanno sacrificando. E dobbiamo ringraziarli, tanto. Infatti non vedo l’ora di poterlo rivedere“.
“Mio papà è impiegato in un supermercato. Tanta stanchezza, troppo stress.
Mi chiamo Sofia, sono siciliana e con la mia famiglia viviamo in un piccola cittadina, mio padre impiegato in un supermercato da tantissimi anni non aveva mai visto nulla del genere. Da quando è scoppiata questa pandemia ha da subito visto cambiamenti repentini nel comportamento dei clienti.
Molto più nervosi, e anche un po’ egoisti, fanno spese esagerate come se fossimo in guerra. Però non ci sono solo soggetti negativi, menomale, alcuni clienti, mi piace chiamarli i fedelissimi, si sono premurati nel fornire mascherine per tutti i dipendenti, alcune sono state cucite a mano. È vero che non proteggono dal virus, ma rimane un gesto di immensa gratitudine.
Mia madre, invece, impiegata in un ufficio, anche se non è stata a contatto con il pubblico si è comunque dovuta recare a lavoro fino a ieri. E poi ci sono io, che vivo in Inghilterra, ma a causa dell’esodo numero 1 e numero 2 mi ritrovo bloccata in Sicilia, con 3 voli annullati e senza stipendio“.
“Lavoro in un supermercato nella provincia di Vicenza.
Non è facile per noi addetti affrontare questa situazione. Cerchiamo di sdrammatizzare, farci forza. Ma ci sono molti momenti di paura. È solo una settimana che usiamo mascherina e guanti.
Purtroppo molti clienti entrano senza protezione, a volte sembrano non capire la gravità del momento. Fortunatamente gli ingressi ora sono graduati, ovvero entrano solo un po’ alla volta. Il timore di noi che lavoriamo, io mamma, è contrarre questa bestia e contagiare le mie figlie. I miei genitori anziani. Non me lo perdonerei. Loro sono a casa al riparo, l’unica che può trasmettere sono io“.
“Lavoro in un call center. Alta densità di persone in open space. Nessuna tutela.
Posso dirvi che la situazione è la medesima in tutto il Paese: i call center rientrano tra le attività essenziali e di continuità per il decreto governativo, quindi si lavora. E ci sta.
Ma si lavora senza protezioni, in un ambiente open space, fianco a fianco con colleghi che arrivano da ogni dove e tornano poi alle proprie case, un’altalena di rischio che davvero non ci possiamo permettere come italiani.
La gente che sta in casa questi giorni spesso si rivolge ai call center per le cose più disparate, vecchie di mesi… Perché ora hanno tempo. Non si rendono conto che per ‘riempire il loro tempi morti’ si mette in gioco la salute di tantissime persone all’altro capo del telefono“.
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
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