“In guerra, violentare le donne dei nemici non solo è tollerato, ma autorizzato e suggerito in quanto lo stupro, oltre a permettere ai soldati di sfogare sadismi repressi, colpisce gli avversari nella ‘proprietà’ allo stesso modo che il saccheggio e la distruzione”. In Contro la nostra volontà, testo nodale del femminismo pubblicato nel 1975, la giornalista Susan Brownmiller riassumeva con queste parole un lavoro di ricerca durato anni.

Ripercorrendo la storia dell’umanità, la giornalista americana si era immersa in un viaggio dell’orrore lungo un sistema sociale fondato sul patriarcato, in cui lo stupro e la tortura sulle donne costituiscono ancora oggi una delle inevitabili costanti di faide, guerre civili e conflitti mondiali.

Partendo dall’antica legislazione babilonese e mosaica, originata da un patto tra uomini che volevano proteggere i loro averi, Brownmiller ricostruì un fil rouge di forzata sottomissione e sfruttamento della “parte debole”. Se il rapimento delle donne costituiva un danno economico, era dunque necessario dare un prezzo a questo “bottino”.

La cattura di donne mediante la forza rimase perfettamente accettabile fuori dall’ambito della tribù o della città come uno dei frutti più a portata di mano della guerra, ma era chiaro che nel contesto dell’ordine sociale uno stato di cose del genere avrebbe condotto al caos. Un pagamento in denaro al padre di famiglia era un sistema più civile e meno pericoloso, per procurarsi una moglie. Fu così codificato il prezzo della moglie: cinquanta pezzi d’argento. Per questa via indiretta il primo concetto di stupro criminale si insinuò tortuosamente nella definizione della legge per opera dell’uomo. Lo stupro criminale, secondo l’ottica patriarcale, era una violazione del nuovo modo di fare affari. Era, in poche parole, il furto della verginità, un’appropriazione indebita del giusto prezzo di mercato di sua figlia.

La propensione maschile alla predatorialità ha origine da un dato biologico. Tutto parte dalla possibilità fisica di sottomissione attraverso l’atto sessuale, un’arma brandita da sempre per intimidire e generare terrore nelle donne, soprattutto in tempi bellicosi.

Antichità

“Ratto di Europa”, Tiziano (1560-1562)

La storia della violenza e della tortura sulle donne può idealmente iniziare dalla leggenda. Sul mito di Europa, la fanciulla fenicia rapita da Zeus (trasformato in toro) mentre raccoglieva fiori e portata con la forza e l’inganno a Creta, si fonda l’intera storia del continente europeo.

Nelle interpretazioni che si sono susseguite nel tempo, in cui la violenza erotica è più o meno edulcorata, la giovane è diventata il simbolo delle scorribande elleniche in tutto il Mediterraneo, costellate dal rapimento di giovani donne. Un’abitudine piuttosto tollerata, descritta anche da Erodoto, che non risparmiò un commento velato di misoginia.

Se rapire donne deve considerarsi atto di uomini ingiusti, darsi la pena di vendicare simili rapimenti è cosa da sciocchi. I saggi non se ne danno cura; è chiaro che le donne, se non lo avessero voluto, non sarebbero state rapite.

Ciò ci riporta alla vicenda della bella Elena, additata come causa della fine di Troia, ma che proprio Erodoto sosteneva però essere stata rapita da Paride. Del resto, diversi autori classici come Omero e Tito Livio annoveravano lo stupro e il rapimento delle donne come una pratica comune della guerra di antichi greci e romani.

Persino nell’Antico Testamento vengono fatti diversi riferimenti alle violenze, come si evince da questo passaggio del Libro di Zaccaria:

Il Signore radunerà tutte le genti contro Gerusalemme per la battaglia; la città sarà presa, le case saccheggiate, le donne violate.

Medioevo

Dai vichinghi ai mongoli, passando per tutte le popolazioni europee, lo stupro e in generale le torture sulle donne continuarono a essere abitudini piuttosto accettate in tempo di guerra. In tutto il Mediterraneo c’erano inoltre tratte consolidate che trasportavano via mare migliaia di schiave (di ogni etnia) in tutti i principali porti.

In alcuni casi si tentò di porre un freno alle violenze: la figura del cavaliere, di stampo cristiano, mirava proprio alla diffusione di un ideale protettore dei più deboli, anche se nemici. Lo stupro, insieme a ogni atto che generasse terrore (come incendi, rapimenti e assalti notturni) era condannato anche dalle leggi militari medievali dell’Islam.

Influenti giuristi dell’epoca, come l’italiano Alberico Gentili e lo spagnolo Francisco de Vitoria, si inserirono nel dibattito sul diritto bellico e sulla necessità di risparmiare le donne dalla conquista, ma la realtà della battaglia era un’altra cosa.

Colonialismo

Con la scoperta dell’America nel 1492, una nuova epoca di violenza si aprì per le donne. Il colonialismo moderno spinse le potenze europee a estendersi in tutto il mondo: Portogallo, Inghilterra, Francia, Olanda e Spagna conquistarono territori e persone, lasciandosi dietro una lunga scia di terrore.

Solo per citare una delle storie più spaventose, la rivista Africa ha raccontato qualche tempo fa gli orrori compiuti dal sovrano belga Leopoldo II a partire dalla fine dell’Ottocento. Per sfruttare il caucciù nelle foreste del Congo, costrinse gli abitanti dei villaggi africani a lavorare al suo servizio. Chi si rifiutava, veniva punito con la mutilazione: alle donne venivano tagliate le mammelle. Contro i ribelli, invece, scatenava spedizioni punitive con il rapimento delle donne.

Gli italiani non furono da meno: come ricorda l’ANPI, il maresciallo Rodolfo Graziani si macchiò di alcuni tra i più atroci episodi di violenza commessi in Libia ed Etiopia nel periodo fascista. Durante la conquista della città libica di Cufra, nel 1931, i superstiti raccontarono di stupri e indicibili torture sulle donne: a chi era incinta venne aperto il ventre e ucciso il feto, mentre le giovani furono violentate e sodomizzate.

Una storia rimasta in silenzio per decenni, con la complicità di molti che consideravano il colonialismo italiano in Africa un episodio innocuo. Tra i primi a ricostruire le violenze ci fu Angelo Del Boca, il primo storico a denunciare i crimini di guerra delle truppe italiane durante le guerre coloniali fasciste.

 

Storia contemporanea

“Donne morte”, Carlo Levi (1942)

I due conflitti mondiali della prima metà del Novecento segnarono modi nuovi di vivere il furore bellico, ma la stessa ferocia contro le donne. Dalle deportate nei lager allo stupro sistematico dei soldati ai danni delle donne civili, l’elenco è interminabile.

Il caso delle comfort women è emblematico: migliaia di coreane, cinesi, filippine e di altri paesi del Sud-Est asiatico furono prelevate dalle loro case per essere messe a disposizione dei militari giapponesi che controllavano i loro territori.

Racconti di stupri e torture sulle donne ci arrivano anche da Okinawa, città giapponese sottomessa dall’esercito statunitense, e da tutti gli altri eserciti coinvolti, senza nessuna esclusione. Durante la resistenza italiana, alcuni gruppi fascisti si resero responsabili di violenze sessuali contro civili e partigiane.

Anche nel momento in cui il Novecento sembrava riemergere dalla spirale di odio e guerra, in qualche parte del mondo continuavano a verificarsi gesti ignobili. Nel Cile di Pinochet, ricorda il sito Contropiano, dopo il colpo di stato dell’11 settembre 1973 il regime sequestrò un numero imprecisato di donne: almeno 316 furono violentate, di cui 11 in gravidanza. Molte subirono torture sessuali, molestie e aggressioni che coinvolgevano anche i familiari.

Ci furono poi gli stupri di massa dell’Ex-Jugoslavia: durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina (1992-1995) un numero imprecisato di donne, compreso tra le 20.000 e le 50.000, subì violenza. Si trattava soprattutto di musulmane, che venivano violate usando anche bottiglie rotte, armi e manganelli.

Non possiamo dimenticare, in quegli stessi anni, le centinaia di vittime di etnia tutsi in Ruanda. E poi ci sono le torture sulle donne cinesi seguaci del Falun Gong, una disciplina spirituale fondata sulla meditazione. Dal 1999 il Partito Comunista Cinese le sottopone a stupri, aborti e violenze di ogni tipo, comprese le percosse con bastoni elettrici ai genitali.

Ancora oggi, ogni giorno si compiono atti intollerabili contro le donne. Basti pensare alle rohingya, “colpevoli” di appartenere a una minoranza che non vuole nessuno, violentate, picchiate e cacciate da Myanmar, per essere poi costrette a vivere in baracche sul confine.

Per concludere, citando ancora Susan Brownmiller, lo stupro continua a essere “un processo cosciente di intimidazione attraverso cui gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di soggezione”. Dobbiamo parlarne perché non ce ne siamo ancora liberati.

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