Controllo delle nascite: perché è un diritto non contrattabile delle donne
Perché il controllo delle nascite è un diritto sacrosanto e innegabile delle donne che qualcuno vuole ancora negare?
Perché il controllo delle nascite è un diritto sacrosanto e innegabile delle donne che qualcuno vuole ancora negare?
Spesso il concetto è male interpretato e viene vissuto esclusivamente come una crociata abortista, ma in realtà l’argomento ha una portata decisamente più ampia, e ragioni che interessano aspetti diversi della società, i quali hanno ovviamente a che fare anche con i diritti delle donne nel mondo.
Parliamo infatti di una necessità di tenere sotto controllo la crescita della popolazione, ma anche di lasciare la libertà alle donne di decidere quando e se avere uno o più figli. Diritto che, a tutti gli effetti, in alcuni Paesi del mondo è ancora negato. In Europa e nell’America settentrionale il controllo delle nascite è coinciso con la Rivoluzione Industriale del XVIII secolo, accompagnato da importanti progressi medico-scientifici e da un miglioramento generale delle condizioni igieniche che hanno permesso agli uomini di contrastare efficacemente malnutrizione, malattie e diffusione delle pandemie.
I passi in avanti hanno ovviamente portato a un aumento della longevità, che, unito all’alto tasso di natalità, hanno rappresentato l’impennata demografica che ha ben presto portato il pianeta a ospitare gli attuali 7 miliardi.
Se nel XIX secolo il controllo delle nascite è stato perseguito soprattutto ritardando e diminuendo il numero di matrimoni, dal XX secolo in poi si sono invece diffusi i metodi anticoncezionali che, oltre a impedire nuove nascite indesiderate, hanno anche permesso di proteggersi dalle malattie sessualmente trasmissibili.
È di più di un secolo fa, esattamente nel 1916, l’istituzione della prima clinica per il controllo delle nascite, ideata dall’infermiera Margaret Sanger, che rappresentò la prima, e più importante, occasione per le donne di decidere autonomamente se e quando diventare madri.
Come detto, oggi il controllo delle nascite si effettua principalmente grazie ai metodi contraccettivi, come preservativo, spirale, anello anticoncezionale e, in extrema ratio, attraverso l’interruzione volontaria di gravidanza. In generale, lo scopo della contraccezione è separare l’attività sessuale da quella procreativa, che era la sola a cui le donne erano preposte un tempo, e che sembra essere il solo scopo cui tutt’oggi sono destinate in diverse aree del mondo.
Non è un caso, ad esempio, se pensiamo ai motivi per cui l’infibulazione è ancora adesso una pratica estremamente diffusa, fra i cui motivi c’è proprio quello di non permettere alla donna di provare piacere durante il rapporto, dato che il solo motivo per cui quest’ultima fa sesso è appunto quello di arrivare a una gravidanza.
In ultima analisi, come detto, non possiamo non menzionare l’aborto come metodo di controllo delle nascite, anche se la questione dell’Ivg sembra essere costantemente al centro di un dibattito internazionale di carattere morale e, spesso, religioso.
È chiaro che non si voglia passare il messaggio che dell’aborto si possa “abusare” ogni qualvolta si incorra in una gravidanza non desiderata, mettendolo così al pari di altri metodi contraccettivi, ma lo è altrettanto che, come diritto della donna e libertà della stessa a scegliere per sé, debba essere garantito.
Anche perché, dopo una battaglia pluridecennale solo in Italia per arrivare all’emanazione dell’ormai celebre legge 194 del 1978, e con casi clamorosi come quello di Emma Bonino, autodenunciatasi per aver procurato aborti clandestini, appare chiara una cosa: legittimare l’Ivg significa prima di tutto proteggere le donne che decidono di farvi ricorso. Prima dell’approvazione della 194, infatti, gli aborti si praticavano comunque, solo che il tutto avveniva nella più totale clandestinità, usando mezzi di fortuna e apparecchiature rudimentali che finivano con il mettere a repentaglio la salute delle gestanti, fino a portarle alla morte, in moltissimi casi.
Ecco perché i tanti rigurgiti antiabortisti cui stiamo assistendo in diverse parti del mondo, dagli USA alla Polonia, fino all’Italia (è notizia recente che l’Umbria abbia ripristinato il ricovero obbligatorio di tre giorni per gli aborti farmacologici, ovvero attuabili grazie alla pillola RU486), non tengono conto di questo importantissimo aspetto: eliminare le leggi che garantiscono l’Ivg non significherebbe eliminare il ricorso a questo metodo, che però tornerebbe nell’illegalità e, quindi, nella clandestinità.
La verità è che il pianeta Terra, in questo momento, è sovrappopolato; la popolazione mondiale sorpassa infatti i 7,5 miliardi di persone, e secondo gli esperti nel 2050 si potrebbe raggiungere il picco dei 10 miliardi. Davvero troppi, se pensiamo che già oggi consumiamo più risorse di quante ce ne siano effettivamente disponibili, tanto che servirebbero 2,5 pianeti Terra per vivere in maniera sostenibile.
È ormai un dato di fatto che presto ci troveremo di fronte all’esaurimento delle fonti di energia non rinnovabili, mentre non siamo ancora riusciti a implementare metodi di produzione energetica sostenibili.
Qual è l’unica soluzione ipotizzabile, allora? Ridurre il numero di persone. Il che non significa, naturalmente, praticare genocidi su larga scala, ma semmai ripensare a un controllo delle nascite che coinvolga anche quelle aree del mondo dove, per ragioni culturali, sociali o economiche, ancora non hanno facile accesso ai metodi contraccettivi.
A occuparsi del problema, peraltro, esiste dal 1969 l’Unfpa, l’agenzia Onu per la salute sessuale e riproduttiva, fondata nel 1969, che intende dedicarsi a diversi aspetti, dal family planning, alla cura materna, passando per un tassello importantissimo quale l’educazione sessuale, il contrasto del fenomeno delle spose bambine, la violenza di genere o le mutilazioni genitali femminili.
Da anni si occupa del tema anche Melinda Gates e la sua fondazione.
Io mi chiesi proprio questo – ha detto Melinda in un Ted Talk del 2012 – il controllo delle nascite è così sbagliato? Sorge un problema legato alla morale sessuale: è vero che il rapporto deve essere finalizzato solo alla riproduzione, altrimenti si cade nella promiscuità? Per me non era così, ma io volevo studiare, laurearmi… Ricordo che, quando lasciai la casa dei miei genitori, che avevano fatto tanti sacrifici per farmi avere un’istruzione, dopo la laurea, per trasferirmi dall’altra parte del paese per lavorare in Microsoft [dove è stata una delle più giovani donne dirigenti, ndr] loro mi dissero, sui gradini di casa: ‘Melinda, hai studiato tanto e ora cercherai di costruire la tua carriera. Ma se volessi sposarti e avere dei figli subito, a noi andrebbe bene lo stesso’.
Insomma, mi hanno lasciato la libertà di scegliere ciò che più mi rendesse felice. Io volevo avere dei bambini, ma volevo averli quando fossi stata pronta. E ora, Bill e io ne abbiamo tre. Quando è nata la nostra primogenita, non eravamo certi di essere dei bravi genitori, così abbiamo aspettato prima di fare un altro figlio. Non è un caso che li abbiamo avuti tutti a distanza di tre anni l’uno dall’altro.
È chiaro quanto i due aspetti siano intrinsecamente collegati: le donne hanno il diritto di decidere se e quando avere un figlio, se averne più di uno, o se non averne affatto. Considerando anche l’impatto, inevitabile, che un figlio può comportare sia sul piano lavorativo, che sul carico mentale e domestico.
Finché non ci libereremo dal pensiero che una donna senza figli è una “donna a metà”, o che si deve essere disposte ad affrontare una gravidanza perché “il nostro partner vuole un figlio”, non potremo mai parlare veramente di diritti.
È infatti inutile negare che la gravidanza, e la maternità, pesino in gran parte ancora sulle spalle delle madri, che spesso si trovano a conciliare vita professionale e privata, o a dover abbandonare la prima perché impossibilitate a seguire entrambe. Talvolta “confortate” anche dall’idea che “tanto i soldi a casa li porta l’uomo”.
Allora è importante, prima di tutto, smantellare tutte le sovrastrutture e i costrutti patriarcali secondo cui le donne sono fatte per essere madri, per accudire la prole e per badare alla casa, e iniziare a considerare l’ipotesi che non tutte le persone di genere femminile si immaginino madri, ma non per questo vogliano rinunciare a una vita sessuale piena e appagante, o siano pronte ad avere un figlio “quando è la società a deciderlo”.
A tutt’oggi Africa, Asia, America Latina, Oceania restano le aree più critiche sotto il profilo del controllo nascite; colpa anche di quella “bomba demografica” scoppiata negli anni ’70 che, nel giro di poco più di dieci anni – dal 1960 al 1974 – ha portato a raggiungere i 4 miliardi di abitanti.
In effetti, nel solo continente africano, secondo i dati disponibili relativi al 2018, il problema del controllo delle nascite inesistente è ancora evidente in moltissime zone: in Tanzania, ad esempio, dove in media ogni donna ha più di cinque figli, e la popolazione cresce stabilmente del 3% da decenni; i tanzaniani, circa 60 milioni, sono sei volte più numerosi rispetto al 1961, anno dell’indipendenza.
Ma anche in Uganda, dove nel 1962, anno dell’indipendenza, la popolazione era di sette milioni e oggi supera abbondantemente i 43. Unitamente all’aspetto della sovrappopolazione c’è, naturalmente, anche quello dei rischi connessi alle gravidanze obbligate: secondo Melinda Gates, infatti, oltre 100 mila donne vorrebbero evitare la gravidanza ogni anno, e muoiono durante il parto, mentre 600 mila vedono morire il proprio bambino dopo la nascita.
Questo accade perché a ognuna di queste donne non viene data l’opportunità di gestire autonomamente la propria vita, anche sessuale, in quanto ancorate a un sistema sociale che ancora le discrimina o le inquadra solo nell’ottica di “utilità”.
A oggi difficile accesso ai metodi contraccettivi, in combinazione con un’accentuata cultura maschilista, sono fra i principali motivi non solo di crescita demografica spropositata nel continente africano, ma anche di complicazioni oggettive nel liberarsi da malattie endemiche, a trasmissione sessuale, come l’AIDS, ad esempio.
Sul versante opposto, invece, figurano gli esempi cinese e indiano, dove il controllo delle nascite è stato a lungo portato avanti in maniera estremamente repressiva e brutale, incontrando la disapprovazione internazionale in quanto lesivo dei diritti umani.
In Cina, ad esempio, dal 1979 e fino al 2013 è stata attuata la cosiddetta politica del figlio unico, il quale doveva in più essere maschio, proprio per preservare la popolazione da una crescita eccessiva. La prima fase della legge, introdotta a distanza di pochi anni dalla morte di Mao Tse-Tung dal suo successore Deng Xiaoping, nel 1979, vietava alle donne di avere più di un figlio: la politica consisteva nella pianificazione familiare, nel ritardo dei matrimoni e delle gravidanze posticipate, e nell’attesa di un periodo abbastanza lungo (quattro o cinque anni) tra un figlio e l’altro. Gli effetti furono un dimezzamento della popolazione nell’arco della vita media di una generazione di individui, anche se a partire dagli anni ’90 la politica del figlio unico fu attuata solo attraverso sanzioni pecuniarie.
Le quali restano in vigore ancora adesso, dal terzo figlio in poi, benché la Corte Suprema cinese abbia abolito la politica del figlio unico nel 2013. Normativa nazionale e locale scoraggiano comunque, a livello civile e penale, ad avere figli in numero superiore a due.
Ma nel Paese asiatico, come in India, è a lungo esistito anche l’aborto selettivo, attraverso il quale si eliminavano fisicamente le neonate, preservando unicamente i figli maschi. Secondo un articolo della BBC, nel 2010 in Cina ogni 100 bambine nascevano 119 bambini (130 in alcune aree rurali). Un dato molto simile a quello della regione del Punjab, in India, dove ogni 100 bambine nascono 131 bambini. In generale, secondo uno studio del 2019, su 23 milioni di aborti selettivi nel mondo, 11,9 milioni sono avvenuti in Cina e 10,6 milioni in India.
In India, secondo Asianews, sarebbero andate “perse” oltre 60 milioni di donne, proprio a causa degli aborti selettivi.
Tehmina Arora, avvocata e direttrice di ADF India – Alliance Defending Freedom – ha spiegato a Repubblica:
Nel nostro Paese almeno 50mila bambine sono abortite ogni mese per un’unica ragione: sono femmine e non maschi. La proporzione distorta tra popolazione maschile e femminile dimostra che per le ragazze, come nazione, abbiamo fallito.
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
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