Deumanizzazione: come si trasformano gli uomini in bestie (e la nostra colpa)
Inferiori, alienate, discriminate: sono le persone che subiscono la deumanizzazione, che fa perdere loro - ma soprattutto a chi la porta avanti - ogni connotazione umana.
Inferiori, alienate, discriminate: sono le persone che subiscono la deumanizzazione, che fa perdere loro - ma soprattutto a chi la porta avanti - ogni connotazione umana.
Tutto questo ha un nome: si chiama deumanizzazione.
C’è un libro della psicologa e accademia Chiara Volpato, docente del Dipartimento di psicologia dell’Università Milano-Bicocca, che analizza nel dettaglio il meccanismo della deumanizzazione, il quale, in psicologia sociale, indica proprio il fenomeno cognitivo per cui si nega l’umanità ad altri individui o a interi gruppi sociali solo per il fatto di esser diversi dal proprio (e di appartenere quindi al cosiddetto outgroup).
La deumanizzazione rappresenta ovviamente la più alta ed estrema forma di discriminazione, ed è stata alla base delle principali stragi di massa, genocidi e segregazioni storicamente vissute o tuttora esistenti.
Nella deumanizzazione la creazione di barriere fisiche, l’imprigionamento o l’ostracismo sociale delle sue vittime sono conseguenze dirette di un meccanismo di delegittimazione psicologica.
La deumanizzazione si avvale di strategie esplicite, che negano apertamente l’umanità dell’altro, e di strategie sottili, che erodono in modo inconsapevole l’altrui partecipazione all’umanità – spiega Volpato – Le sue forme sono variegate e molteplici, il loro successo dipende di volta in volta dal contesto sociale e dallo spirito del tempo.
Esistono quattro forme di deumanizzazione, tutte forme di pregiudizio davvero esplicito che tendono a collocare fuori dalla “comunità morale” cui apparteniamo persone o gruppi la cui moralità è considerata ridotta o assente.
A questo concetto è collegato anche quello di Giustificazione Cognitiva, analizzato da Bar-Tal nel 1999, per cui tendiamo a disattivare automaticamente i sentimenti di empatia e i valori morali ed etici della comunità nei confronti di chi riteniamo avere una bassa moralità.
Il fenomeno della deumanizzazione “giustifica” e normalizza la violenza e le atrocità verso altri gruppi, che ovviamente non avrebbero ragione di esistere. Le forme di deumanizzazione sono:
Lo suggerisce il nome stesso, si tratta di negare l’umanità altrui paragonandolo a un animale che rappresenti lo stereotipo dell’outgroup in questione. Ovviamente, le caratteristiche dell’animale scelto sono negative, come la rozzezza, la stupidità, o le sensazioni che suscita nelle altre persone. Un esempio classico è quello di Hitler che si riferiva agli ebrei come a “topi” o “scarafaggi”, generando così un sentimento di repulsione nei suoi ascoltatori.
Si nega l’umanità di una persona considerandola come un automa, un robot, e riguarda soprattutto soggetti molto in alto, come manager, businessmen o donne in carriera. Facendo risaltare quelle che, a tutti gli effetti, potrebbero essere anche connotazioni positive, come l’abnegazione lavorativa o l’uso di tecnicismi, si finisce per spogliare queste persone della loro valenza umana associandole ad anafettività, mancanza di empatia, incapacità di amare.
Ad esempio, gli asiatici, considerati esempi di disciplina e di grande dedizione al lavoro, risentono spesso di questa deumanizzazione.
Parliamo di una forma di deumanizzazione riferita soprattutto al Medioevo, a carico delle donne, connotate come megere dalla oscure capacità esoteriche, nel periodo della caccia alle streghe usata per soggiogarne la libertà e i diritti, ma esempi più recenti si ritrovano anche nella famosa frase “I comunisti mangiano i bambini”, per citarne una.
Un’evoluzione storica è invece la biologizzazione, in cui l’individuo viene associato a igiene, malattia, contaminazione, portatore di microbi, malattie e cancri.
Anche questa è una forma di deumanizzazione che spesso interessa le donne, e consiste proprio nel considerare l’individuo deumanizzato alla stregua di un oggetto. L’esempio più classico sono gli schiavi, privati di ogni connotazione umana per essere valutati solo in base alla loro capacità di lavorare, spesso anche in condizioni di estrema difficoltà.
Ci sono dunque oggettivazioni di tipo razziale, ad esempio, legate a etnie storicamente subordinate a quelle che detenevano la supremazia (ad esempio la nera rispetto alla bianca), ma anche di tipo sessuale, in cui la donna viene praticamente delegittimata di diritti e dignità per rappresentare unicamente l’oggetto del piacere maschile; quello della mercificazione del corpo femminile è uno degli argomenti su cui il femminismo chiede da sempre rivendicazioni.
Deumanizzare qualcuno significa ovviamente privarlo della propria identità, della sua storia personale, della cultura e dei suoi diritti. Ovviamente la deriva più estrema, ma anche più facile, della deumanizzazione è la violenza contro gli individui che vengono sottoposti a questo trattamento, e si può arrivare persino a pensare che la loro morte non sia un fatto per cui dispiacersi o colpevolizzarsi.
Partendo da questa prospettiva, i gruppi che di solito deumanizzano gli altri si sentono intoccabili, da questo punto di vista, ovvero immuni dal potere essere deumanizzati da altri a loro volta.
Esemplari in questa prospettiva sono gli atteggiamenti che le società occidentali mostrano nei confronti degli immigrati – afferma Chiara Volpato – Immigrati definiti come materiale inassimilabile e grezzo, rifiuti, relitti umani. Queste forme retoriche utilizzate già nel primo Novecento soprattutto verso gli immigrati negli Stati Uniti trovano echi puntuali nel discorso contemporaneo sugli immigrati e i gruppi marginali, quali zingari e prostitute.
Tuttavia, la storia recente (anzi, recentissima) ci ha insegnato che, a parti inverse, il ruolo di deumanizzato si accetti con difficoltà. Basti pensare alle accuse di razzismo mosse dai lavoratori frontalieri italiani nei confronti degli svizzeri, che vorrebbero arginarne l’impiego in favore dei madrepatria, o delle reazioni conseguenti alla chiusura delle frontiere per i cittadini italiani dopo lo scoppio della pandemia di Covid-19.
Insomma, essere dall’altra parte non fa piacere.
Buona parte della propaganda politica attuale si basa sulla deumanizzazione di quello che, di volta in volta, viene visto come il bersaglio o il “nemico” da combattere. A essere deumanizzati sono gli immigrati, ad esempio, quando i commenti alle tante tragedie dei barconi naufragati nel Mediterraneo suonano più o meno come “Cibo per i pesci” o “Se non fossero partiti non avrebbero fatto questa fine”.
Esprimersi in questa maniera di fronte a catastrofi che costano la vita spesso anche a bambini, o a donne incinte, significa privare queste persone di ogni valenza umana. Anche se inumani sembrano soprattutto coloro che si esprimono così…
Deumanizzanti sono anche i discorsi di chi cerca forzatamente di mettere a paragone due tragedie cercando di scatenare la rabbia e l’indignazione popolare al fine di ritenere l’una più importante dell’altra, perché riguardante un gruppo cui noi stessi apparteniamo. Un esempio è questo tweet di Matteo Salvini, che ha “sfruttato” l’alluvione abbattutasi su Palermo il 15 luglio 2020 per un atto di propaganda anti-immigrati.
A furia di pensare solo agli immigrati, il sindaco Orlando dimentica i cittadini di #Palermo: basta un temporale e la città finisce sott’acqua. pic.twitter.com/RqTCsZZhbh
— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) July 15, 2020
Vengono deumanizzati i membri della comunità LGBT da quella parte omofoba della società che li ritiene ancora “malati”, “contro natura” o li equipara al rango di cavie da laboratorio da curare affinché guariscano.
Della deumanizzazione risentono tutt’oggi i neri, già vittime dell’apartheid in Sudafrica, della segregazione americana degli anni ’50 e, prima ancora, di secoli di schiavismo; tanto che il movimento Black Lives Matter, sorto dopo l’ennesima morte di un uomo nero per mano della polizia USA, nasce proprio con l’intento chiaro di rivendicare i diritti di quella comunità ancora oggi considerata “inferiore”.
Di meccanizzazione risentono le donne che non intendono avere figli, o che non vogliono sposarsi; considerate anaffettive, donne a metà, incapaci di provare amore per il prossimo solo per una lontananza ideologica da quello che è il pensiero mainstream sulla maternità.
Andando a ritroso nel tempo, il più grande e tragico esempio di deumanizzazione è rappresentata dalla Shoah, il genocidio del popolo ebraico (ma non solo, anche di omosessuali, zingari, prostitute, disabili) compiuto dai nazisti.
Gli studiosi Haslam e Loughnan, in un saggio del 2014, hanno evidenziato le difficoltà nel contrastare la deumanizzazione, perché molte delle sue manifestazioni sono legate a stereotipi e conflitti tra gruppi sociali diversi radicati nel tempo, o rafforzate da bias difficili da eliminare. Presumibilmente, ogni individuo lontano per qualche motivo dall’ingroup di appartenenza potrebbe essere deumanizzato.
Ciononostante, si cerca quantomeno di arginare il problema umanizzando i target sociali attraverso il contatto tra intergruppi, o promuovendo un’identità comune o sovraordinata, attraverso l’enfatizzazione delle similitudini o dei punti in comune tra intergruppi.
Trovare i punti di contatto, le radici comuni, gli episodi storici in cui si è vissuta una situazione simile (ad esempio, gli italiani che si ricordano delle esperienze da migranti degli avi e riescono perciò ad avere una percezione diversa degli immigrati) può certamente rappresentare un ottimo punto di partenza per decostruire il processo di deumanizzazione e ricostruire quello di umanizzazione.
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
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