Femminismo radicale? No! Il femminismo non può che essere intersezionale
Perché parlare di femminismo radicale oggi è sbagliato, o meglio perché bisogna ripensare il femminismo, in termini di intersezionalità.
Perché parlare di femminismo radicale oggi è sbagliato, o meglio perché bisogna ripensare il femminismo, in termini di intersezionalità.
Se le donne hanno conquistato, con fatica, molti dei diritti di cui godono oggi non è stato certo merito di un gesto di clemenza da parte del patriarcato, ma solo la conclusione di campagne e lotte spesso durate anni, basti pensare al suffragio femminile così come alle battaglie per la legalizzazione dell’aborto.
Anche fra le varie correnti femministe, o per meglio dire le sue versioni 1.0, 2.0 e 3.0, però, occorre fare alcune distinzioni; ad esempio, è uso frequente raggruppare l’intera idea di femminismo sotto quella che, in realtà, è solo una sua branca, ovvero il femminismo radicale. Che non è, a oggi, la soluzione percorribile né auspicabile, come vi spieghiamo.
In principio c’era il femminismo liberale, quello che è stato a posteriori definito “prima ondata”, e che si è sviluppato soprattutto a cavallo tra fine ‘800 e inizio ‘900, con la precisa idea di concorrere per la parità giuridica e politica tra i sessi.
Questo femminismo era improntato alla lotta alla cultura dello stupro e in favore della libera scelta individuale, oltre, naturalmente, al raggiungimento di eguali diritti per le donne.
Tra i suoi fautori Harriet Taylor e John Stuart Mill, che nella loro opera del 1851, L’emancipazione delle donne, furono i primi a rifiutare l’idea dell’inferiorità femminile.
È fra gli anni ’20 e ’60 del XX secolo che arriva la seconda ondata di femminismo, quello radicale, che si è sì battuto per alcune fondamentali conquiste femminili – il diritto all’aborto, ad esempio – ma soprattutto ha rigettato l’interpretazione socialista e liberale del femminismo, ritenendole insufficienti per la causa.
L’aggettivo radicale va interpretato, per una volta, nel senso di “alla radice” e non come estremismo. Il punto di partenza del femminismo della seconda ondata è semplice: il patriarcato esiste, ed è un sistema di oppressione secolare che mira a distinguere le persone in categorie ed etichette. Ecco allora che una donna, per essere considerata “completa” deve sposarsi e mettere al mondo prole.
Secondo questa concezione, per alcune frange del femminismo radicale, razzismo, capitalismo, imperialismo e ogni altra forma di oppressione non è altro che un’estensione dell’egemonia maschile.
Oltre a rifiutate la famiglia come istituzione ed il matrimonio, il femminismo radicale si batte anche per l’eliminazione del genere, essendo proprio quest’ultimo, e non il sesso biologico, il problema. C’è chi, come Shulamith Firestone in The Dialectic of Sex (La dialettica dei sessi), ad esempio, imputa la subordinazione femminile alla capacità delle donne di portare avanti la specie, aspetto di cui gli uomini si sarebbero approfittati per prendere e mantenere il comando, e auspica quindi una liberazione della donna dalla sua “sottomissione biologica”.
Da questo punto di partenza, Firestone prevede anche la possibilità di una società sessualmente poliforma, non più puntata alla riproduzione e, pertanto, non necessariamente monogama o eterosessuale.
Il femminismo radicale sostiene che si nasca senza un genere, e che anche quest’ultimo sia un’acquisizione patriarcale, un altro modo per dividere uomini e donne in classi, garantendo, di fatto, il predominio ai primi. Tutto ciò ha storicamente contribuito a creare anche quella serie di stereotipi di genere per cui l’uomo non deve piangere né mostrare l’emotività, e per cui a una donna volitiva venga sempre attribuito la definizione (maschile) di “con le palle”.
Per abbattere l’oppressione, quindi, occorre prima di tutto abbattere il genere e tutti i cliché che esso porta con sé. Ma non tutte le femministe radicali sono d’accordo con questo punto di vista.
La terza ondata del femminismo è quella cosiddetta intersezionale, ovvero che abbraccia, al proprio interno, tutte le donne vittime di oppressione in qualche modo, ivi comprese le lesbiche e le transgender. Ma questo ampliamento sembra non trovare approvazioni unanime negli ambienti femministi, tanto che, tra le frange del femminismo radicale, è nata una costola distaccata, quella delle TERF.
Acronimo di Trans-exclusionary Radical Feminist, il termine TERF indica quindi la femminista che rifiuta di includere le donne transgender nella lotta femminista e negli spazi stessi riservati alle donne, con riferimento esclusivo a chi compie la transizione MtF. Per un motivo estremamente semplice: non sono nate donne.
Fra le femministe radicali convinte di escludere le trans dalla lotta femminista figura, ad esempio, Janice Raymond, con il suo The Transsexual Empire, in cui immagina addirittura un futuro distopico con le donne “nate donne” sostituite da “donne transessuali”. Il punto di partenza piuttosto ovvio è che queste donne non lo siano a tutti gli effetti, anche nel caso in cui abbiano completato la propria transizione, e quindi non siano escluse dal sistema di privilegi di cui godono gli uomini, essendo nate tali.
Ma anche Germaine Greer non ha mai speso parole benevole nei confronti delle trans, definiti come “persone che pensano di essere donne, hanno nomi da donna, vestiti femminili e un sacco di ombretto sugli occhi, ma che ci appaiono una specie di terrificante parodia“.
Non tutte, ovviamente, la pensano così, c’è chi, come la femminista radicale americana Catherine MacKinnon, ha abbracciato anche la causa transgender nell’idea di femminismo, dichiarando:
La società maschile dominata dagli uomini ha definito da sempre le donne come un gruppo biologico discreto. Se questo avesse potuto portare alla liberazione, saremmo già libere da un pezzo… Per me le donne sono un gruppo politico. Non ho mai avuto l’occasione di dirlo in questi anni, finché non c’è stata una gran discussione su se le donne trans siano donne… Onestamente non m’importa come qualcuno diventa una donna o un uomo. È solo parte della loro specificità e unicità, come quella di ciascun altro. Chiunque si identifichi come donna, voglia diventare donna, sarà in mezzo ad altre donne, per quanto mi riguarda, è una donna […] Per essere donna una persona deve vivere come donna. Le donne trans lo stanno facendo e a mio parere possono offrire allo stesso modo una preziosa prospettiva al riguardo.
[…] Ho conosciuto donne trans che si oppongono fermamente a ogni forma di violenza maschile contro le donne… E stanno lottando per far sì che finisca. Le donne trans che conosco sanno molto bene che la supremazia maschile è un sistema politico d’oppressione e loro stesse si oppongono ad esso.
Il femminismo radicale continua ad avere una visione estremizzata del corpo delle donne e, soprattutto, del suo “uso”: per queste femministe la donna che mostra il proprio corpo non si rispetta e si degrada di fronte all’oppressione maschilista, di cui interiorizza gli stereotipi.
Partendo da questo presupposto son0 ovviamente contrarie alla legalizzazione della prostituzione, e reclamano la sua totale abolizione; pur essendo spesso definite dalle femministe liberali e queer come SWERF, ovvero Sex Worker Exclusionary Radical Feminists, in realtà l’oggetto della loro critica, ovviamente, non è la prostituta ma il suo sfruttamento da parte di terzi, altro costrutto patriarcale in cui è l’uomo a decidere della vita della donna.
Allo stesso modo il femminismo radicale è critico nei confronti del porno, considerato lesivo e oppressivo verso il genere femminile e, soprattutto, pensato quasi esclusivamente per gli uomini (con poche eccezioni, in effetti, pensiamo a Erika Lust).
In realtà le femministe radicali non ritengono possibile che esista un porno femminista, che si iscriverebbe comunque in un contesto patriarcale senza riuscire a far percepire la differenza rispetto al porno tradizionale.
Alcune femministe sono talmente critiche nei confronti della libertà espressiva del corpo femminile, anche in un’ottica sessuale, da praticare vero e proprio slut shaming verso coloro che non rientrino nei canoni del femminismo radicale, il tutto partendo da un assunto tanto semplice quanto limitante: la sessualità deve funzionare solo nei modi che loro dicono, in tutti gli altri casi parliamo di stupro, anche laddove ci sia la piena consensualità della donna. Il focus del loro discorso è: “Sei donna, non possono piacerti certe cose, quindi sei per forza vittima del patriarcato”.
I punti deboli del femminismo radicale contemporaneo sono stati analizzati anche dalla saggista britannica Laurie Penny nel suo Meat Market, in cui si critica soprattutto la fase capitalista che ha portato le donne a essere consumate e consumatrici al tempo stesso, con una sovraesposizione sessuale che serve a “vendere”.
Per Penny, che pure risente dell’influenza di Firestone, dell'”eunuco femmina” di Greer ma anche del dualismo “Vergine di ferro vs puttane/sgualdrine/conigliette” proposto da Naomi Wolf, è la necessità di superare certe prospettive radicali, che escludono appunto sex worker o transgender, per raggiungere finalmente una completezza teorica e politica di genere che guardi anche ai soggetti finora trascurati dalla lotta, ovvero prostitute e transessuali appunto, oltre alle lavoratrici sottopagate e precarie.
L’unico femminismo davvero concepibile, insomma, è proprio quello intersezionale, che include ogni categoria di donna senza distinzioni né pregiudizi. A ben pensarci, in fondo, il femminismo è nato proprio per questo.
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
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