Economia dell'attenzione, quanto vale oggi la tua attenzione sui social?

L'economia dell'attenzione è un modello economico che si è sviluppato sempre più nell'era di internet e con l'ascesa dei social network, che interpreta l'attenzione e il comportamento degli utenti del web come una forma di guadagno e dal punto di vista della logica del profitto.

Quando navighiamo in rete, visitiamo siti web, guardiamo video o trascorriamo tempo sui social network stiamo regalando la nostra attenzione. Ma di fatto, sebbene non risulti per nulla chiaro a una prima analisi, la posta in gioco è ben più alta.

Il nostro comportamento non produce solo un gesto che ha ripercussioni sul nostro tempo, le nostre scelte e le nostre abitudini: siamo noi stessi all’interno di un sistema ben più complesso, in cui interpretiamo nostro malgrado più il ruolo delle pedine che di coloro che muovono i fili.

Questo sistema, sviluppatosi con la nascita del mondo tecnologico e di internet, ha visto un’espansione repentina e incontrollata con l’avvento dell’era dei social network. Ecco di che si tratta e quali sono le dinamiche che lo regolano e i rischi che lo abitano.

Cos’è l’economia dell’attenzione?

L’economia dell’attenzione è un sistema economico che riconosce nell’attenzione degli utenti una forma di valuta a tutti gli effetti considerata alla stregua del denaro, proprio perché in grado di generare profitto.

È un concetto che si è consolidato sempre di più con l’era tecnologica e poi, più ancora, con la nascita dei social network e i modelli da questi inaugurati, che si servono del tempo e l’attenzione che noi dedichiamo loro per generare soldi e profitto. Cioè, detto in modo chiaro: non ci chiedono direttamente soldi, ci chiedono attenzione, che si trasforma in profitto.

Questo meccanismo ha inevitabilmente prodotto un circolo vizioso: se da una parte i media producono sempre più informazioni per catturare sempre più attenzione da parte degli utenti, dall’altra gli utenti vedono la loro attenzione sempre più consumata e inquinata. Insomma, a perderci sono entrambe le parti, ma in un sistema malato come quello attuale, sembra che non ce ne siamo ancora resi conto.

Non siamo però di fronte a una scoperta recente: l’economia dell’attenzione nasce ben prima che si iniziasse a mettere mi piace alle foto altrui o si scegliesse di seguire una pagina piuttosto che un’altra.

Le origini della teoria dell’economia dell’attenzione

È stato l’economista Herbert Simon, allora professore alla Carnegie-Mellon University di Pittsburgh, a parlare per la prima volta di economia dell’attenzione nel 1969, durante una conferenza alla Johns Hopkins University, in cui espone il suo saggio dal titolo La progettazione di organizzazioni in un mondo ricco di informazione.

Simon punta l’attenzione sulla strettissima relazione che intercorre tra una società dell’informazione che produce un’abbondanza di dati e la capacità dei fruitori di questi dati di analizzarli e leggerli in modo completo e consapevole. Un pensiero che è bene esplicitato da una sua frase-chiave:

In una società ricca d’informazione deve dunque mancare qualcosa: questo qualcosa è l’attenzione.

Accanto a questo, Simon, vincitore del Premio Nobel per l’economia nel 1978, con più di cinquant’anni di anticipo ha anche messo in guardia dai rischi che una gestione non consapevole della tecnologia e dell’informazione avrebbe potuto comportare:

È arrivato il momento di occuparci delle conseguenze che la tecnologia può avere nelle nostre vite. L’evoluzione tecnologica procede a grandi passi, ma non accade lo stesso alla nostra capacità di analizzarne le conseguenze. Dovremmo forse testare le nuove tecnologie, prima di renderle disponibili a tutti. Forse in questo modo faremmo meno danni.

L’attenzione di cui parla Simon non è però solo quella del pubblico, in difficoltà di fronte a una sempre maggiore abbondanza di stimoli informativi: l’economista e psicologo statunitense ha capito ben presto che ad essere compromessa sarebbe stata anche l’attenzione di chi quegli stimoli doveva crearli, ossia, della stessa informazione, con inevitabili ripercussioni sulla qualità e legittimità dei contenuti fruiti.

Questa teoria profetica trova rispolvero intorno alla metà degli anni ’80 con Michael Goldhaber, ex fisico teorico, che la applica alla realtà dell’epoca in cui si assisteva in modo evidente a una sempre maggiore produzione di notizie, informazioni e forme di intrattenimento, a cui l’attenzione umana, dalle risorse limitate, non riusciva a stare dietro.

Goldhaber dedicherà anche un saggio approfondito sul tema, pubblicato nel 1997 sulla sulla rivista Wired, e ci regalerà una frase piuttosto esplicativa che rende chiaro lo scenario che da lì a poco si sarebbe sempre più delineato:

Le nostre capacità di prestare attenzione sono limitate. Non così le nostre capacità di riceverla.

Eccoci spiegato perché la macchina dell’informazione può espandersi sempre di più, come sta facendo tuttora.

Economia dell’attenzione e social network

Già nel 1973 queste considerazioni venivano applicate alle logiche della televisione. Ce lo mostra un cortometraggio degli artisti Carlota Fay Schoolman e Richard Serra, dal nome Television Delivers People, che ben esprime il concetto sopraesposto arrivando a dire palesemente che “il pubblico è il prodotto della pubblicità in televisione” e che “la TV consegna il pubblico agli inserzionisti“.

L’attenzione degli spettatori veniva acquisita dalla televisione e venduta agli inserzionisti che se ne servivano per vendere e fare profitto. In questo meccanismo, il pubblico da attore finisce per interpretare un ruolo passivo: subire informazioni e non sceglierle e agirle scientemente.

Questa situazione è diventata sempre più palese, e fuori controllo, con l’avvento di internet e, poi, più ancora, del mondo dei social network. In questi luoghi non ci sono limiti: la fonte è inesauribile e in continua espansione, ma a questa non corrisponde un ampliamento della capacità dell’attenzione degli utenti. Anzi, proprio il contrario.

La stessa struttura dei social network è pensata proprio per attirare sempre più attenzione degli utenti: si pensi allo scroll all’infinito di Facebook e Instagram, al sistema invasivo di notifiche e avvisi, ai video che si susseguono su YouTube.

E questo meccanismo crea dipendenza: si hanno sempre più stimoli, se ne vogliono sempre di più, e si viene colpiti in modo piuttosto inconscio dalla Fear of Missing Out, la paura cioè di restare fuori dalla macchina delle news sempre aggiornatissima, di non essere al passo, di non fare parte dei trend. Metaforicamente, è un po’ come non essere invitati a una festa.

Come dichiara Ashlyn Gentry, managing director di Human Ventures, una impresa che finanzia startup, già l’atto di controllare lo smartphone produce un guadagno per le aziende, e in media facciamo questo gesto circa 150 volte al giorno. I sistemi di avvisi e notifiche hanno proprio lo scopo di farci tornare a quel circuito e agiscono sul nostro cervello rilasciando una scarica di dopamina che centra l’obiettivo e ci riporta sempre lì. Insomma, più giochi e più vuoi giocare. Un po’ come il meccanismo alla base del gioco di azzardo.

Come per la televisione, anche per i social network l’utente è il prodotto e non il cliente, perché, anche qui, i clienti sono gli inserzionisti pubblicitari. Ma c’è una differenza sostanziale rispetto alla situazione denunciata all’inizio degli anni Settanta nel cortometraggio Television Delivers People e consiste nell’uso e la vendita dei dati personali degli utenti. Del resto, non possiamo non citare lo scandalo della raccolta da parte di Cambridge Analytica dei dati degli utenti di Facebook per il targeting politico.

Nel contesto attuale di dominio dei social network, non è solo la nostra attenzione a divenire una forma di valuta, ma lo sono anche e soprattutto i nostri dati e le informazioni personali. Un processo che è reso ancor più possibile dalla capacità di tracciare e memorizzare ogni mossa degli utenti. Capite bene che i costi che paghiamo sono in realtà altissimi, anche se il nostro conto in banca apparentemente non cala di un euro. Una situazione ben diversa da quella denunciata da Serra e Schoolman, in rapporto al mezzo televisivo e alle sue logiche.

Se, infatti, all’epoca, la critica che i due studiosi facevano alla televisione era quella di “vendere” il pubblico agli inserzionisti per appiattire il pensiero critico e perpetuare lo status quo consumistico, oggi con il nuovo modello sdoganato dall’era dei social network, la vendita del pubblico agli inserzionisti finisce per moltiplicare i punti di vista divisivi, enfatizzare le differenze e promuovere i contrasti.

Senza dubbio per non farsi vivere in modo passivo è necessario richiamare a una maggiore responsabilità entrambe le parti, ma soprattutto gli utenti-prodotti. Essere consapevoli del fatto che Facebook, i social network in generale e tutti gli altri altri servizi online “gratuiti” comportano di fatto dei costi reali – anche se non economici – può spingerci ad approcciarci a loro con maggiore parsimonia, intelligenza e spirito critico.

Accanto a questo, è bene considerare un altro aspetto fondamentale: la nostra attenzione non è infinita, se la dedichiamo a delle fonti, ne escludiamo inevitabilmente altre. Scegliere con più accuratezza dove indirizzarla è un atto dovuto a noi stessi, oltre che un gesto responsabile ed etico.

I rischi dell’economia dell’attenzione

Abbiamo già affrontato parecchi pericoli a cui l’economia dell’attenzione ci espone, ma vediamoli meglio nel dettaglio.

Una recente intervista a Michael Goldhaber – l’ex fisico teorico di cui abbiamo parlato in apertura – realizzata dal giornalista del New York Times Charlie Warzel, chiarisce in modo esaustivo i molti rischi che questo modello economico sdoganato dall’era digitale e social può provocare, a partire dall’idea che la capacità di attirare attenzione diventa facilmente possibilità di esercitare potere. Eccolo spiegato dalle sue parole:

Quando si ha attenzione, si ha potere, e alcune persone cercheranno e riusciranno ad ottenere enormi quantità di attenzione, e non la useranno in modo uguale o positivo.

Ossia, in questo meccanismo – come del resto la storia recente ci ha già confermato – si rischia che vengano premiati coloro che sono più in grado di giocare a questo gioco e vincere l’attenzione degli altri, ma che non necessariamente la utilizzano a fin di bene e in modi corretti.

L’ascesa di Donald Trump ne è un esempio chiaro e lampante, come sostiene lo stesso Goldhaber, secondo cui l’utilizzo esasperato e incontrollato di tweet e della macchina social e il bombardamento di notizie dalla TV via cavo che hanno favorito la sua elezione, rappresenterebbero un prodotto perfetto di un’economia dell’attenzione.

E la strategia di Trump è risultata vincente ai fini della sua elezione perché ha prestato attenzione a realtà e categorie a cui le aziende e in generale l’economia riserva meno attenzione, ad esempio persone non laureate e culturalmente meno istruite e persone che vivono nelle zone rurali. Non è un caso che i suoi sostenitori, in occasione della recente insurrezione al Campidoglio, si siano espressi con metodi e fatti portavoce di teorie che altro non erano che “l’espressione di un mondo in cui ognuno sta disperatamente cercando il proprio pubblico”, e quindi, ancora una volta attenzione.

Diventa chiaro come questo sistema arrivi ad alimentare l’odio e le divisioni. Un processo enfatizzato ancora di più da un mondo in cui notizie verificate e contenuti di qualità sono posti sullo stesso piano di fake news e materiali scadenti e fuorvianti.

Di fatto, a oggi, il mondo dei social e dell’informazione ci propone un magma di notizie in continua espansione, che però vede vincere i seguenti disvalori: la scarsità di qualità e la poca attenzione alla veridicità. Questo perché, ancora oggi, i parametri su cui si costruiscono strategie e si vendono gli spazi agli inserzionisti sono il numero di lettori. Vince ancora la quantità sulla qualità.

Il risultato è però un pubblico famelico che perde subito la sua attenzione, non approfondisce né si informa davvero. Sono i dati a dircelo: il tempo medio di lettura sul web si riduce a 40 secondi – contro i 40 minuti della lettura su carta. E questo genera un circolo vizioso che svaluta sempre di più l’informazione: con questi dati, gli spazi pubblicitari si svalutano, si continuano così a produrre tanti contenuti a svantaggio della qualità, contenuti che continueranno a essere letti poco e per poco tempo e che porteranno gli inserzionisti a spendere sempre meno .

Una possibile soluzione in questo senso può essere quella di privilegiare contenuti di qualità, anche se in una fase iniziale può sembrare un investimento a perdere, e soffermarsi maggiormente sul parametro, troppo sottovalutato, del tempo di lettura di un contenuto, non tanto, o solo, sulla quantità di visite che questo riceve. Un modo che può portare gli investitori pubblicitari ad investire maggiormente, individuando un target di qualità, cioè di utenti più attenti e consapevoli.

A questa posizione era già arrivato anche Simon, il teorico dell’economia dell’attenzione, con un esperimento semplice: aveva chiesto ad alcuni dei suoi amici di calcolare il “costo della lettura”, ossia capire quanto costava loro leggere i giornali che abitualmente acquistavano. Questi, sebbene avessero effettivamente rilevato un costo non irrilevante, avevano continuato a sottoscrivere questi abbonamenti. Dei lettori soddisfatti avevano continuato a pagare un’informazione considerata di qualità.

La stessa cosa era stata riscontrata nel 2008, in piena crisi, soprattutto in Gran Bretagna e Usa, dove, i giornali che hanno risposto alla crisi di vendita e di pubblicità aumentando il prezzo dei loro giornali, ma mantenendo alto lo standard di qualità, sono riusciti a reggere meglio di quelli che hanno preferito tagliare i costi e che hanno visto inevitabilmente un abbassamento del livello dei loro contenuti.

Anche in questo caso, dunque, i lettori premiavano la qualità: erano cioè disposti a pagare di più per ottenere contenuti di qualità, ma se il risultato era una qualità scadente, abbandonano del tutto l’impresa.

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