La lingua esprime la complessità della vita in tutte le sue sfaccettature e la scrittura ne cementifica i significati. Sta emergendo con forza sempre maggiore la necessità da parte di tutte le categorie di essere rappresentate  e riconosciute, ciascuna nella sua diversità. La scrittura inclusiva mira proprio a questo obiettivo abbracciando tutte le sfumature dell’essere umano e contrastando pregiudizi e luoghi comuni.

Questo articolo non pretende di essere un compendio, una guida definitiva ed esaustiva sull’argomento perché la lingua cambia come cambiano i tempi e la società, ma è sicuramente un primo approccio alla scrittura inclusiva e al potenziale che essa racchiude.

Scrittura inclusiva: le origini del dibattito

Prima di entrare nel vivo della questione bisogna comprendere cosa sia il linguaggio inclusivo che viene definito dal dizionario inglese come

un linguaggio che evita l’uso di certe espressioni o parole che potrebbero escludere particolari gruppi di persone.

La scrittura inclusiva punta a mettere nero su bianco una serie di accorgimenti per evitare discriminazioni e in Francia ne sanno qualcosa. Fino al XVII secolo vigeva la cosiddetta “concordanza per prossimità” che prevedeva che l’aggettivo prendesse il genere del sostantivo più vicino al quale si riferiva.

Questa regola, riscontrabile in alcuni casi latini e in altre lingue romanze, venne soppiantata da una nuova, basata sulla superiorità del genere maschile:

Tre sostantivi di cui il primo è maschile e gli altri due femminili che genere richiedono? Poiché il genere maschile è il più nobile, esso prevale da solo contro due o più femminili, anche se questi ultimi si trovano più vicini al loro aggettivo (Liberté de la langue française dans sa pureté, Scipion Dupleix, Paris, 1651).

Nel 2015 oltre 300 insegnanti hanno sottoscritto una petizione il cui manifesto è stato pubblicato su Slate FR con l’intento di tornare alla concordanza di prossimità promuovendo nelle scuole una scrittura inclusiva perché

la ripetizione di questa formula [la superiorità del maschile] ai bambini, proprio nei luoghi che forniscono la conoscenza e simboleggiano l’emancipazione attraverso la conoscenza, induce rappresentazioni mentali che portano donne e uomini ad accettare la dominazione di un sesso sull’altro, così come tutte le forme di minorità sociale e politica delle donne.

Deborah Cameron, professoressa di Lingua e Comunicazione alla Oxford University ha approfondito il tema del sessismo nella scrittura in un suo articolo, ripercorrendo le tappe di un’evoluzione della scrittura a partire da un classico della letteratura femminista della seconda ondata: Words and Women di Casey Miller e Kate Swift.

Il libro, pubblicato nel 1977, viene descritto in copertina come “un lavoro di riferimento che rivela i pregiudizi sessuali presenti nei nostri discorsi e scritti quotidiani” attirando l’attenzione sulla pervasività di ciò che le femministe hanno soprannominato “linguaggio he-man” (l’uso convenzionale di “he” e “man” in riferimenti generici a gruppi misti, come in “l’uomo si è sempre adattato al suo ambiente”) e alla presenza di formule che nel giornalismo o definiscono le donne per i loro ruoli familiari (madre di due figli batte il record di velocità) o le oggettivizzano, sessualizzano e sminuiscono (i gentiluomini preferiscono le bionde).

Nei circoli femministi queste lamentele erano già familiari, ma grazie a testi come Words and Women il dibattito si è aperto al grande pubblico. Col tempo i consigli per evitar il linguaggio sessista cominciarono ad apparire regolarmente nelle guide di stile degli editori e dei giornali e nei manuali di scrittura dei college e questo fece ben sperare che la battaglia contro una scrittura sessista fosse finalmente conclusa ma non fu così.

La tendenza ad annacquare l’analisi femminista originale, equiparando la scrittura “non sessista” a quella che ora è chiamata terminologia “gender fair” o “inclusiva”, ha fatto sì che le femministe che avevano originariamente coniato il termine “sessismo” per descrivere una disuguaglianza strutturale sistemica tra uomini e donne, assistettero a un’interpretazione più liberale del termine che faceva riferimento a qualsiasi tipo di trattamento ineguale o differenziale sulla base del sesso.

Questa interpretazione, che presupporrebbe che il sessismo colpisca entrambi i sessi allo stesso modo, si rifletteva nella legislazione, come il Sex Discrimination Act approvato in Gran Bretagna. La legge aveva una dimensione linguistica, in quanto richiedeva che gli annunci di lavoro chiarissero nella loro formulazione che le posizioni erano aperte a candidati di entrambi i sessi.

Il risultato fu quello di favorire l’uso di termini neutri o inclusivi rispetto all’utilizzo di una scrittura  che richiama deliberatamente l’attenzione sulla presenza delle donne.

Se tra gli anni ’70 e ’80 si assiste ad un dibattito fervente soprattutto per la forza politica e culturale del movimento femminista, negli anni ’90 la sua influenza si è indebolita.

Evidentemente la pressione culturale per evitare il sessismo non è stata mantenuta abbastanza a lungo perché le nuove convenzioni si naturalizzassero – precisa la professoressa Cameron – : quando la pressione è diminuita, le vecchie abitudini d’uso sono tornate. Naturalmente, c’erano parti della cultura in cui non erano mai andate via veramente; ma si nota che il linguaggio ‘he-man’ è tornato in alcune delle aree che più decisamente lo rifiutavano in passato.

Esempi di scrittura inclusiva

Per comprendere come utilizzare la scrittura in modo realmente inclusivo è utile affrontare la specificità di ciascun argomento assieme ad alcuni esempi:

Donne

I femminili professionali: Durante una nostra intervista Vera Gheno, sociolinguista e traduttrice, ha approfondito il tema dei femminili professionali in occasione dell’uscita del suo libro Femminili singolari. Il Femminismo è nelle parole:

La questione dei femminili nei nomi professionali non è nuovissima, in realtà se ne parla da almeno 30-35 anni. […] Mentre non abbiamo problemi a nominare il maschio che assume un ruolo normalmente femminile, per esempio l’ostetrico ma anche il parrucchiere, che una volta di fatto non esisteva, abbiamo molte più resistenze invece quando sono le donne che assumono dei ruoli, soprattutto quelli apicali, che una volta invece erano appannaggio soprattutto maschile.

Il dizionario Zanichelli censisce più di 700 femminili professionali già nell’edizione del 1994, registrando di fatto quello che dovrebbe essere un utilizzo normalizzato di queste declinazioni.

Esempio:

No – Maria Rossi, amministratore delegato

– Maria Rossi, amministratrice delegata

Un estratto dal testo Il sessismo nella lingua italiana ha evidenziato diversi punti di riflessione utili a rendere la lingua e la scrittura più inclusiva nei confronti delle donne.

Nomi, titoli e cognomi: Una scrittura inclusiva dovrebbe evitare di mettere sul piedistallo la professionalità maschile a sfavore di quella femminile magari riferendosi alla donna solo con il cognome o il nome.

Esempi:

No – Il dottor Augias e la signora Gruber

– Il dottor Augias e la dottoressa Gruber

No – Augias e Lilli

– Augias e Gruber

Gli articoli davanti al cognome: Leggiamo costantemente come l’articolo venga posto davanti ai cognomi femminili a evidenziare il genere della persona in questione. Ma questo è realmente significativo? Secondo la stessa logica dovremmo scrivere il Conte o lo Sgarbi, ma nessuno lo fa.

Esempi:

No – La Thatcher, la Boldrini

– Thatcher, Boldrini oppure Margaret Thatcher, Laura Boldrini

Il “ruolo” della donna: Le parole descrivono anche i comportamenti e i “ruoli” che la società ha affibbiato alle donne nel corso del tempo tralasciandone totalmente la complessità in quanto esseri umani. Donna, madre e fidanzata sono i classici stereotipi nei quali continuiamo ad imbatterci sulla carta e sul web.

Esempi:

No – Anche per Chiara è arrivato il giorno più bello nella vita di una donna (matrimonio)

No – Flavia è prima di tutto una mamma

No – Ogni donna sogna un anello al dito

Slut-shaming: Tradotto in “umiliazione da sgualdrina” il termine di matrice femminista definisce l’intenzione di colpevolizzare la donna per comportamenti o desideri sessuali che si scostano dalle aspettative della società o perché definiti (chissà secondo quali standard) poco ortodossi.

Lo slut-shaming non è appannaggio esclusivo dagli uomini, infatti anche le donne ci vanno giù pesante e secondo la professoressa Jessica Ringrose, autrice del libro Postfeminism education?, è un modo di sublimare la gelosia sessuale “in una forma socialmente accettabile di critica sociale dell’espressione sessuale femminile”.

Questo fenomeno, nelle forme più estreme, arriva addirittura a colpevolizzare le vittime di stupro: il vestito corto o l’atteggiamento troppo sensuale diventano i capri espiatori della violenza che fomentano una cultura dello stupro e il victim blaming.

Esempi:

No – Con una gonna così corta chiunque sarebbe caduto in tentazione

No – Quella scollatura parlava, era ovvio che ci sarebbe stata

Inoltre una scrittura inclusiva e realmente attenta alle donne, non ammette che al centro delle vicende vengano prese le parti dei carnefici.

Esempi:

No – Il gigante buono e quell’amore non corrisposto

No – Mario Rossi, imprenditore di successo, strangola la moglie cieco di gelosia

LGBT

GLAAD, l’organizzazione no-profit di attivismo LGBT, ha stilato nella sua Media Reference Guide alcuni suggerimenti utili non solo a chi scrive per professione ma a chiunque voglia parlare della comunità senza cadere negli stereotipi, ecco alcuni esempi:

No – Relazione omosessuale / coppia omosessuale

– Relazione (gay/lesbica) / coppia (gay/lesbica)

No – Ha ammesso la sua omosessualità (suggerisce che essere attratti dallo stesso sesso è
in qualche modo vergognoso, qualcosa da tenere segreto)

– Ha dichiarato di essere gay/lesbica/queer

No – Preferenze sessuali (il termine è tipicamente usato per suggerire che essere attratti dallo stesso sesso è una scelta e quindi può e deve essere “curato”)

– Orientamento/orientamento sessuale (è la descrizione accurata dell’attrazione fisica, romantica e/o emotiva verso membri dello stesso e/o dell’altro sesso o di sesso opposto e comprende lesbiche, uomini gay, bisessuali e queer, così come uomini e donne etero)

Transgender

La parola come aggettivo: trans/transgender è un aggettivo e come tale si definisce ad un soggetto.

Esempi:

No – Un trans, un transgender

– Una persona trans, una persona transgender

I pronomi giusti: Essere una persona transgender significa che la propria identità differisce da quella assegnata alla nascita, quindi è importante comprendere quali pronomi personali è corretto utilizzare. Se la persona trans non ha esplicitato i pronomi che la rappresentano, basta chiedere.

Utilizzare pronomi, articoli o desinenze sbagliate di proposto è misgendering, ovvero la negazione dell’identità della persona.

Esempi:

No – Elliot Page, attrice famosa per aver interpretato Juno, ha fatto coming out

–  Elliot Page, attore famoso per aver interpretato Juno, ha fatto coming out

Il dead name: letteralmente “nome morto” è il nome assegnato alla nascita alla persona transgender. Scrivere deliberatamente il dead name (ad esempio Maria) senza il consenso di Mario, significa delegittimare l’identità percepita a favore di quella di genere, riportando in vita una persona che di fatto non esiste più.

Il processo di transizione: Chiamare le cose con il proprio nome aiuta a promuovere una maggior consapevolezza. Ecco perché è necessario parlare di “transizione” in riferimento al percorso che porta la persona a vivere pienamente secondo il genere in cui si identifica.

Esempi:

No – Ha fatto l’operazione / È diventato donna

– Ha iniziato il percorso di transizione

Queer

Utilizzare questo termine “ombrello” consente di dare voce a tutti coloro che non si riconoscono come etero/cisgender, transgender, omosessuali o lesbiche e vivono la propria identità al di fuori di tali etichette, quindi indipendentemente dal proprio orientamento sessuale.

Esempi:

No – Una persona dalla sessualità confusa

– Una persona queer

Anche quando scriviamo di persone queer è necessario scegliere i pronomi giusti e nei quali la persona si riconosce.

Razzismo

L’American Psychological Association trattando il tema dell’identità razziale ed etnica, evidenzia come il termine “ne*ro” sia datato e soprattutto inappropriato da utilizzare (dato il retaggio dispregiativo di cui si fa carico). A monte è necessaria una considerazione più ampia sulle origini delle persone di colore che non sia basata esclusivamente sull’aspetto esteriore.

Il background culturale e l’origine di una persona non possono essere definiti a priori anche perché va tenuto in considerazione un certo grado di complessità non immediatamente deducibile all’occhio e per questo sono necessarie delle distinzioni:

“African American” (Africano americano/Afro-americano) non deve essere utilizzato come termine ombrello per le persone di ascendenza africana in tutto il mondo perché oscura altre etnie o origini nazionali, come nigeriana, keniota, giamaicana o bahamiana. In questi casi viene suggerito di usare il termine “black/nero” o “people of color/persone di colore”.

Se si scrive di identità, non solo di genere, ma anche culturale, è fondamentale scegliere le parole giuste. Anche Race Forward sottolinea la necessità di entrare nello specifico (ad esempio le persone provenienti da India, Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka sono sud asiatici; le persone provenienti da Honduras, Panama, El Salvador e Guatemala sono centroamericani) evitando termini come “con la pelle più chiara” o “con la pelle più scura”.

POC: Acronimo di “Person Of Color” è un termine ombrello che identifica tutte le persone di colore quindi chiunque non sia bianco. Vengono incluse non solo persone africane o afroamericane ma anche asiatiche, latine, ecc… Scrivere “persone di colore” in relazioni a contesti specifici non è appropriato, quindi è necessario prediligere una terminologia specifica.

BIPOC: Proprio in riferimento alla specificità, l’acronimo di “Black Indigenous and People of Color” esprime una più profonda complessità sulla questione: non tutte le persone di colore o appartenenti ad una minoranza indigena vivono le stesse esperienza quando si parla di oppressione e razzismo. Con questo termine viene evidenziata la violenza specifica, la cancellazione culturale e la discriminazione sperimentata da persone di colore e indigene.

“Penso che sia un serio tentativo di essere inclusivi. – dice Adrienne Dixson, professoressa di Teoria critica della razza all’Università dell’Illinois Urbana-Champaign – La gente vuole essere nominata e riconosciuta, non come parte di un amalgama”.

Disabilità

Abilismo: Viene definito dalla Access Society come la discriminazione e il pregiudizio sociale contro le persone con disabilità basato sulla convinzione che le abilità tipiche siano superiori. L’abilismo è radicato nell’assunzione che le persone disabili hanno bisogno di essere “aggiustate”. Nei casi peggiori ci si spinge oltre, sminuendo o addirittura negando la disabilità.

Esempi:

No – Quando ti guardo non vedo un disabile in carrozzina

No – Sei una ragazza molto bella anche se sei disabile

Per le persone al di fuori della comunità dei disabili e che vogliono scriverne, sapere quali termini usare può confondere: parole che una persona trova offensive o scorrette, per un’altra potrebbero non esserlo affatto. Ecco quali sono le due tipologie di linguaggio utilizzate:

Person-first language (PFL): Le espressioni che appartengono alla PFL mettono la persona al primo posto, considerando la disabilità come una delle tante caratteristiche di un individuo. Questo linguaggio mira a contrastare ogni tipo di discriminazione, in qualsiasi contesto, contro individui con disabilità come sottoscritto dal’Americans with Disabilities Act.

Esempi:

No – Disabile

– Persona con disabilità

Identity-first language (IFL): Rispetto al PFL, l’IFL mette al centro la disabilità in quanto è la caratteristica che definisce, identifica un individuo. “Disabile” diventa quindi un termine perfettamente accettabile per coloro che supportano questo approccio, per cui scrivere “persona disabile” risulta corretto.

Maryland Coalition for Inclusive Education (MCIE) evidenzia come l’Identity-first language sia ampiamente scelto dalla comunità autistica: l’essere autistico è una sfaccettatura della propria identità e non è visto come qualcosa di cui vergognarsi e dal quale dissociarsi. La stessa linea di pensiero è seguita da molti sordi i quali aggiungono al “d” (d è l’iniziale di deaf, cioè sordo) minuscola per riferirsi ad uno stato fisico dell’essere mentre la utilizzano in maiuscolo per evidenziare l’essere sordo come cultura e identità.

No – Persona con disabilità / persona con autismo / persona con sordità

– Persona disabile / persona autistica / persona sorda d/D

Anche in questo caso, se possibile, è meglio chiedere se la persona o la specifica comunità della quale intendiamo scrivere preferisce l’una o l’altra formula.

I segni della scrittura inclusiva

Schwa: È un carattere dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA) usato in diverse lingue che priva le parole della definizione di genere facendole diventare neutre. Il simbolo che lo rappresenta è “Ə” e la sua pronuncia è un suono indefinito, che assomiglia all’insieme di tutte le vocali.

Esempio: Carə tuttə, siamo qui riunitə…

Per quanto sembri un simbolo strano o poco immediato da inserire durante la scrittura, c’è chi l’inclusività l’ha messa su carta, come la casa editrice Effequ che è la prima ad aver adottato la schwa ponendosi come priorità l’attenzione per la lingua.

Asterisco

*: Nella lingua scritta l’asterisco viene usato per evitare i plurali, il maschile generalizzato o il binarismo di genere. Riconosciuto anche dal Dizionario Treccani, questo segno consente di evitare un utilizzo sessista della lingua.

Esempi:

No – Care tutte e cari tutti

– Car* tutt*

Trans*: L’asterisco viene utilizzato subito dopo la parola “trans” per trasmettere una maggiore inclusività delle nuove identità ed espressioni di genere rappresentando meglio una più ampia comunità di individui. Ecco la definizione che ne dà Avery Tompkins, professore di Sociologia, Antropologia, Women’s studies, Genere e Sessualità alla Transylvania University, in una pubblicazione del Transgender Studies Quarterly:

trans* è quindi inteso ad includere non solo identità come transgender, transessuale, uomo e donna trans che sono con il prefisso trans, ma anche identità come genderqueer, neutrios, intersex, agender, two-spirit, cross-dresser e genderfluid.

La “u “: Un’altra variante per esprimere il genere neutro è la vocale “u” posta come desinenza. Rispetto all’asterisco viene utilizzata di meno perché in alcuni dialetti regionali identifica il genere maschile.

Esempio:

No – Grazie a tutti, spero vi siate divertiti

– Grazie a tuttu, spero vi siate divertitu

La “@”: Un’altra variante neutra al posto della desinenza di genere maschile o femminile è definita dall’utilizzo della “@”, notato per la prima volta da Pavlidou, Kapellidi e Karafoti nel 2015. La chiocciola rappresenta la presa di distanza dalle concezioni binarie per “denotare un genere per il quale non vi è alcuna disposizione nella grammatica della lingua”.

Esempio:

No – Tutti i partecipanti hanno accolto la proposta con entusiasmo

– Tutt@ i partecipant@ hanno accolto la proposta con entusiasmo

Perché abbiamo bisogno di una scrittura inclusiva

Il mondo accademico e delle associazioni di categoria si sta mobilitando sempre di più a favore della scrittura inclusiva. Consigli e linee guida come quelli proposti dalla Linguistic Society of America consentono di comprendere in che modo scrivere con un approccio inclusivo. Ma perché ne abbiamo veramente bisogno?

Le ragioni per scrivere in maniera inclusiva sono diverse e tutte importanti. Partiamo dal presupposto che il linguaggio è uno strumento potente e può avere un enorme impatto sulle persone, infatti una crescente quantità di ricerche evidenzia come le persone ne siano influenzate.

Uno studio realizzato da Nilanjana Dasgupta, dell’Università del Massachussetts Amhest, ha scoperto che l’uso di un linguaggio che esclude il genere può far sentire le persone emarginate da un gruppo più ampio, in particolare nel caso delle donne. Un’altra ricerca ha rilevato come l’uso di un linguaggio inclusivo di genere potrebbe aiutare a ridurre la discriminazione di genere contro le donne e altre minoranze.

Inoltre, non solo ha un profondo impatto a livello personale, ma il linguaggio inclusivo è anche ritenuto importante per il successo aziendale. Proprio come la diversità può guidare l’innovazione in un’organizzazione, usare un linguaggio inclusivo può aumentare la creatività e migliorare le prestazioni dei dipendenti sul posto di lavoro.

Tuttavia, il linguaggio è spesso usato per perpetuare e diffondere pregiudizi, discriminazione e violenza contro gruppi e individui emarginati. Usare una scrittura inclusiva significa contrastare in modo concreto e significativo la diffusione di queste idee dannose facendo sentire considerate e rispettate tutte le categorie.

Nello stesso modo in cui i dizionari sono frequentemente aggiornati con nuove parole per sostituire quelle vecchie, anche la scrittura inclusiva si evolve continuamente assieme alla maggiore conoscenza delle preferenze di gruppo e individuali, con l’accettazione di nuovi termini o il recupero di altri e con il cambiamento della relazione tra chi scrive e il lettore, grazie ai progressi tecnologici nei canali di pubblicazione e feedback come sostiene Zoey Milford, queer writer.

Le critiche alla scrittura inclusiva

Non tutti si pronunciano all’unisono a favore della scrittura inclusiva, ecco quali sono le principali critiche:

  • Pregiudizi impliciti: Per quanto si abbiano buone intenzioni, non è detto che il linguaggio che utilizziamo e quindi il nostro modo di scrivere siano realmente inclusivi. Questo è dovuto ai pregiudizi impliciti che sono associazioni inconsce, atteggiamenti e credenze su un determinato gruppo sociale. Essi non sono intrinsecamente cattivi, ma sono un riflesso della capacità del cervello di percepire modelli e semplificare le informazioni. Tuttavia, i pregiudizi impliciti possono portare a stereotipi e discriminazioni anche nella scrittura.

Bernhard Debatin, professore e direttore dell’Istituto di giornalismo per l’etica applicata e professionale (IAPE) della Ohio University in un suo articolo ha individuato quali sono le altre motivazioni che inducono molti a non supportare e anzi, a battersi con veemenza, contro la scrittura inclusiva:

  • La scrittura inclusiva è brutta: Alcune persone sostengono che scrivere con determinati simboli o utilizzare certe declinazioni (es. architetta) sia strano, brutto da leggere. Bellezza e chiarezza sono caratteristiche importanti per la scrittura ma non si capisce perché le stesse critiche non vengano mosse anche in riferimento al linguaggio tecnico e burocratico.
  • La scrittura e la lingua vanno conservate: C’è chi si muove a favore di una posizione conservazionista nei confronti della scrittura sostenendo che va mantenuta la sua forma originaria. Ma qual è la reale forma linguistica da conservare? Cosa distingue una lingua contemporanea dalle precedenti o successive? Considerando che la scrittura si adegua ai cambiamenti della lingua e di conseguenza della società, si tratta di un’argomentazione poco convincente.
  • Il linguaggio non dovrebbe essere regolato/editato: Alcuni sostengono che il lavoro di revisione del testo dovrebbe essere puramente formale, mentre prescrivere un linguaggio sensibile cambia il contenuto violando l’autonomia decisionale degli autori. Questa obiezione, tuttavia, ignora il fatto che l’editing non ha mai a che fare solo con un linguaggio “neutro” che necessita solo di una ristrutturazione formale. Il professore spiega:

Il linguaggio non è mai neutro, ma è sempre anche un riflesso dei rapporti di potere della società. Per esempio, interverremmo anche se un autore usasse costantemente costruzioni passive. E questo non sarebbe semplicemente una questione formale di buon stile (seguendo la regola che il linguaggio attivo suona meglio), ma anche una questione di contenuto: le costruzioni passive fanno scomparire l’agente e quindi velano le responsabilità e le cause. In Analisi Critica del Discorso, questo problema è noto come “cancellazione dell’attore”. Quindi, ci sono prima di tutto ragioni di contenuto che parlano contro l’uso di costruzioni passive.

La scrittura inclusiva è un argomento vasto e complesso ma quello che è certo è che ciò di cui non scriviamo non esiste e ciò di cui scriviamo esiste nel modo in cui lo rappresentiamo.

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