"Maternal", quando il libero arbitrio non è una cosa per donne
Maura Delpero racconta la vita in un hogar di Buenos Aires, una casa famiglia dove la maternità è messa in discussione e il corpo femminile viene ancora sottoposto al volere maschile.
Maura Delpero racconta la vita in un hogar di Buenos Aires, una casa famiglia dove la maternità è messa in discussione e il corpo femminile viene ancora sottoposto al volere maschile.
Hogar, il titolo originale del film Maternal, diretto dalla regista italiana Maura Delpero, è il termine con cui in Argentina si chiama la casa famiglia: un luogo di accoglienza gestito da religiose dove trovano rifugio ragazze madri e minori abbandonati.
Per le madri, spesso bambine, provenienti da condizioni di profonda fragilità, come dalle villas miserias (come vengono chiamate le baraccopoli nel Paese), i casi di abbandono da parte degli uomini sono frequentissimi e le ragazze si ritrovano incinte senza poter contare su nessuno. Senza contare le minorenni vittime della “tratta”, ossia di sequestri per prostituzione (che secondo delle stime si aggirerebbero intorno alle 20mila), e delle vittime di violenza domestica.
L’hogar raccontato da Delpero è un universo tutto al femminile, da cui gli uomini sono fisicamente estromessi: non c’è posto per loro, se non come nome su una parete o con le fattezze del Salvatore; una scritta o una statuta a cui indirizzare sogni e desideri.
L’uomo è sublimato tra quelle mura anche se segna fortemente e indelebilmente il corpo di tutte loro: le prime rese gravide da maschi che le hanno violentate, abbandonate, disconosciute, le seconde perché votate a Cristo. I corpi di entrambe non appartengono più a nessuna di loro. A tracciare una linea di demarcazione invalicabile, la scelta: una scelta che nel film (che risale al 2019 ma arriva solo adesso in sala) non viene neanche contemplata. Nessuna delle ospiti tiene in conto la possibilità dell’aborto e resta difficile credere sia per una convinzione religiosa.
Considerata un delitto da un norma in vigore sin dal 1921, l’interruzione volontaria di gravidanza, consentita dalla legge solo dal 2020 negli ospedali pubblici, è stata praticata in Argentina per anni in maniera clandestina, in costose cliniche private o in strutture prive di quelle norme di sicurezza indispensabili per non mettere a repentaglio la salute delle donne. Secondo i dati del governo riportati dalla stampa argentina, nel Paese, che conta 44 milioni di abitanti, ogni anno si sono praticate fra 370mila e 520mila aborti illegali; 38mila i ricoveri per le complicazioni.
Luciana, Fatima e le altre ragazze madri di Maternal, che la regista ha messo in scena dopo lunghe ricerche, forte anche di un’esperienza personale di molti anni in un hogar di Buenos Aires, probabilmente non avrebbero scelto l’aborto pur avendolo a disposizione. Se nella stessa Italia, dove l’interruzione volontaria di gravidanza è consentita – entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari – sin dal 1978, l’aborto è ancora un tabù (come racconta con grande chiarezza l’articolo di Federica di Martino), è facile immaginare rimanga tale ancora per molto in un paese cattolico come l’Argentina. Soprattutto tra adolescenti in cui l’assoluta mancanza di affetto a cui sono state da sempre abituate si è trasformato in una scarsa stima di sé e in un contrasto costante nel loro rapporto con i figli.
Come sempre però, il libero arbitrio, supportato da una giusta scolarizzazione e una corretta educazione sessuale, è la discriminante tra chi considera il corpo delle donne proprietà di loro stesse e chi – ancora in troppi – lo sottopone allo sguardo, al giudizio e al volere patriarcale; in mondi dove l’uomo è assente, ma influenza ogni decisione.
Lontana dalla retorica e dalla melassa che accompagna da sempre il tema della maternità, Maura Delpero (che Kering e il Festival di Cannes nel 2020 hanno insignito del Women in Motion Young Talent Award, che ogni anno viene assegnato a talenti che cercano di costruire una presenza femminile di alto profilo nell’industria del cinema) regala un film dove il naturalismo documentaristico si fonde con sposalizio particolarmente felice a una regia netta e sincera: la regista prende per mano lo spettatore e lo accompagna in questo piccolo mondo al femminile dove l’abbandono e la rinuncia sono opzioni come tante altre, dove occhi grandi di bambine scavano nel profondo con la loro richiesta di amore.
“Una sedicenne incinta impressiona lo sguardo – ha scritto la regista – Un viso di bambina che allatta porta con sé una contraddizione commovente. Ciò nonostante, è stata l’immagine epifanica di una giovane suora che cullava uno dei loro figli che ha messo in moto il film: in quel momento ho realizzato tutta la potenza del cortocircuito emotivo di un mondo femminile chiuso, paradossale e affascinante in cui la maternità precoce delle ragazze convive con quella assente delle religiose“.
Luciana, interpretata da Agustina Malale, non professionista incontrata dalla regista in un hogar, e Suor Paola, l’intensa Lidiya Liberman (che si era fatta notare in Sangue del mio sangue, diretta da Marco Bellocchio, e che vedremo a breve anche ne Il cattivo poeta di Gianluca Jodice), si fronteggiano e si sentono, spinte come sono l’una a fuggire dalla piccola Nina e dalla maternità e l’altra a desiderarla, tanto più perché se l’è negata.
Tra di loro si pone Fatima (Denise Carrizo), “colei che svezza i bambini”, nome di origine araba che tanta fortuna ha avuto nel mondo cristiano dopo l’apparizione mariana nella piccola cittadina portoghese (e casualmente festeggiata proprio il 13 maggio, giorno di uscita in sala del film): rassegnata al suo destino, accetta le regole e sembra non amare e non odiare i suoi figli, bisognosa piuttosto di avere ancora una madre più di esserlo.
Tutte bravissime, comprese le suore che gravitano attorno alle tre; eppure a lasciare il segno è la piccolissima Isabella Cilia che interpreta Nina, capace di spalancare universi di desiderio e di dolore.
Tornare in sala con un gioiello di sensibilità, strumento prezioso per avvicinarsi alle tante sfaccettature dell’essere umano con l’unico intento di comprendere sospendendo il giudizio, è un grande regalo a cui sarebbe davvero un peccato fare a meno.
Forte di una serie di premi vinti al Festival di Locarno (e altri svariati riconoscimenti), Maternal (Hogar), diretto da Maura Delpero, arriva in sala distribuito da Lucky Red il 13 maggio.
Delpero ha insegnato cinema in un centro di accoglienza per ragazze madri di Buenos Aires per quattro anni. Da quell’esperienza è nato il progetto Hogar, selezionato alla Script Station della Berlinale 2015 e insignito della Menzione al Miglior Progetto e del premio “Arte” al 64esimo Festival de San Sebastián. Maternal è stato l’unico titolo italiano presentato nel concorso internazionale del 72esimo Festival di Locarno.
Interpretato da Lidiya Liberman, Denise Carrizo e Agustina Malale racconta di Luciana e Fatima, Lu e Fati, madri adolescenti che vivono in una casa famiglia di Buenos Aires gestita da religiose. Tra di loro c’è Suor Paola, appena arrivata dall’Italia per prendere i voti perpetui. L’incontro tra le tre donne influenzerà le loro vite e il loro rapporto con la maternità.
Antropologa sedotta dal giornalismo e dal cinema ha da tempo fatto sua una frase di Proust: “Sentivo che le cose stavano per mettersi male e ripresi precipitosamente a parlare di vestiti”.
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