Essere survivor e il rischio della vittimizzazione secondaria
Hanno subito uno stupro e sono sopravvissute; le "survivor", però, rischiano una nuova violenza. Si chiama vittimizzazione secondaria: cosa è e come combatterla
Hanno subito uno stupro e sono sopravvissute; le "survivor", però, rischiano una nuova violenza. Si chiama vittimizzazione secondaria: cosa è e come combatterla
Per le survivor il rischio è sempre quello di subire una nuova violenza, quello della vittimizzazione secondaria, per questo troppo spesso parlare è così difficile.
Con il termine survivor si indicano le persone – più spesso donne, ma anche gli uomini – che hanno subito una violenza sessuale. Le persone che scelgono di utilizzare questo termine lo fanno per dare valore al percorso di ripresa e recupero che ha permesso loro di abbandonare il concetto di “vittima” per abbracciare quello di “sopravvissute”.
Ovviamente, con questo termine non si intende dare un giudizio di valore: ogni persona che ha subito una violenza sessuale sceglie per se stessa come definirsi e come gestire il trauma.
Il termine survivor viene utilizzato nel contesto dei processi di guarigione, trasformazione e riappropriazione di sé in seguito a una violenza, ma è importante ricordare che una “vittima” non è meno importante o meno “brava” di un o una survivor, ma che vittima e survivor rappresentano diverse situazioni, momenti e stati dell’essere.
Cosa accade a chi dichiara di aver subito una violenza è, purtroppo, tristemente noto. Un martellante coro di «Com’eri vestita?» «Avevi bevuto?» «Sicura di non averlo provocato?» «Eh, ma le donne dicono no per dire sì» «Ma se il giorno dopo eri al mare!» «Perché non hai denunciato, allora?» «Te la sei cercata, cosa ti aspettavi succedesse?», una litania di accuse più o meno esplicite che spostano la responsabilità dello stupro dall’unico colpevole – lo stupratore – alla vittima.
Questa non è solo una sensazione che possiamo provare empiricamente, ma un fenomeno concreto, confermato dai dati. Come ha rivelato un indagine IPSOS per ISTAT nel novembre 2019,
persiste il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita: il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Anche la percentuale di chi pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire è elevata (23,9%). Il 15,1%, inoltre, è dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false (più uomini, 12,7%, che donne, 7,9%); per il 7,2% “di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì”, per il 6,2% le donne serie non vengono violentate. Solo l’1,9% ritiene che non si tratta di violenza se un uomo obbliga la propria moglie/compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà.
La colpevolizzazione della vittima – o victim blaming – non è però un meccanismo che si attiva solo nell’opinione comune e nella mente dei commentatori compulsivi sui social ma, anzi, è purtroppo normalizzato anche delle istituzioni che dovrebbero invece ascoltarla e tutelarla, e può trasformarsi in una seconda violenza a carico delle survivors.
Si parla di vittimizzazione secondaria quando le istituzioni, di fronte a una donna che denuncia, preferiscono indagare i suoi comportamenti e le sue abitudini piuttosto che indagare l’effettiva veridicità delle accuse mosse.
La vittimizzazione secondaria può essere definita una condizione di ulteriore sofferenza e oltraggio sperimentata dalla vittima in relazione ad un atteggiamento di insufficiente attenzione, o di negligenza, da parte delle agenzie di controllo formale nella fase del loro intervento e si manifesta nelle ulteriori conseguenze psicologiche negative che la vittima subisce.
Un atteggiamento che non riguarda solo le forze dell’ordine, ma anche avvocati, magistrati e, in larga misura, i giornalisti che raccontano i casi di violenza sessuale e per cui la Corte Europea dei Diritti Umani ha sanzionato l’Italia in maggio.
In merito al ricorso presentato alla CEDU dalle avvocate Sara Menichetti e Titti Carrano di D.i.Re contro la decisione della Corte d’appello di Firenze – che aveva ribaltato la sentenza di condanna degli imputati dello stupro di gruppo ai danni di una giovane donna sulla base della sua presunta non credibilità a causa di una valutazione moralistica della sua vita privata – la Corte ha infatti stabilito che
la tenuta del processo ha violato l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, che stabilisce che “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”.
La Corte ritiene che i diritti e gli interessi della ricorrente derivanti dall’art. 8 non sono stati adeguatamente tutelati in considerazione del contenuto della sentenza della Corte d’Appello di Firenze. Ne consegue che le autorità nazionali non hanno tutelato la ricorrente dalla vittimizzazione secondaria durante tutto il procedimento, di cui la redazione della sentenza è parte integrante.
L’effetto della vittimizzazione secondaria, che colpisce molto spesso anche le survivors con figli che denunciano troppo tardi un compagno violento, non è solo quello di condannare a una nuova violenza persone che devono già fare i conti con le conseguenze fisiche e psicologiche di uno stupro, ma anche di disincentivare chi subisce violenza dal denunciare, per la paura – spesso la certezza – di non essere credute, con il risultato di avere la propria vita messa sul banco degli imputati invece del proprio stupratore.
Eradicare la vittimizzazione secondaria significa rimuovere alla base gli stereotipo che ancora accompagnano la violenza di genere e combattere alla radice la cultura dello stupro. Un esempio è Never Again, un progetto co-finanziato dal programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione europea che tramite formazione, campagne, prodotti multimediali e teatro
punta a potenziare una risposta di sistema al fenomeno della vittimizzazione secondaria, proponendo una campagna di sensibilizzazione nazionale e un modello di formazione rivolto alle forze dell’ordine, ad avvocati/e, a magistrati/e e a giornalisti/e.
Il progetto prevede un corso di formazione – in partenza in autunno – che ha come obiettivo fornire a chi per motivi professionali può entrare in contatto con survivors strumenti e nozioni tecniche per abbattere gli stereotipi di genere, in particolare:
– Trasformare l’approccio e la cultura professionale del sistema giudiziario, delle forze dell’ordine e dei media quando trattano di violenza domestica e di genere, aumentando la consapevolezza e la comprensione delle radici sociali e culturali della violenza contro le donne ed evidenziando la funzione svolta da pregiudizi e stereotipi nelle decisioni giudiziarie;
– far conoscere i meccanismi di perpetrazione della violenza contro le donne e gli stereotipi normalmente associati, il percorso di uscita e i servizi specializzati, gli strumenti di protezione contro la violenza domestica, la violenza contro le donne e di genere.
– far conoscere la vittimizzazione secondaria nell’ambito di procedimenti di separazione e divorzio e in procedimenti di custodia e di visita, attraverso l’analisi del sistema, dei dati normativi e giurisprudenziali rilevanti, dei casi-studio.
– sensibilizzare i giornalisti ad affrontare il tema della violenza di genere con un linguaggio appropriato e non sensazionalistico, modificando i modelli narrativi e gli stereotipi dominanti nella cronaca e nella rappresentazione mediatica della violenza contro le donne.
Ogni persona ha un modo diverso di reagire a uno stupro. Sembra scontato dirlo, eppure non è così. Non si può parlare della “vita di una survivor”, ma delle storie di tante vite diverse accomunate non solo dalla violenza ma dalla necessità di reagirvi e, troppo spesso, anche dalla necessità di doversi difendere dalla diffidenza, dal pregiudizio e dagli attacchi personali.
Se non è scontato che ogni persona che ha subito violenza possa essere libera di vivere come sente sia giusto è perché le survivors subiscono anche un ennesimo tipo di violenza: quella di chi pretende che, per essere ritenute davvero vittime, sia necessario continuare a mostrare in eterno sofferenza, dolore, remissione. Se hai subito uno stupro non puoi ridere, non puoi scegliere di mostrare il tuo corpo; se vuoi essere credibile e accettata non puoi mostrarti in altro modo se non in quello della vittima spezzata.
Benedetta Lo Zito, survivor e attivista che, trasferitasi a Londra, ha studiato violenza domestica alla British Columbia e alla università di Sheffield, ottenendo il NFCE (Northern Council for Further Education) livello 2 in Equality and Diversity, e fondato SUNS End Rape Culture, per fornire gratuitamente assistenza e sostegno alle vittime di violenza sessuale e per educare sulla cultura dello stupro e su come combatterla, in occasione del Pride Month ha ricordato in un post sul suo profilo:
“Ma puoi pubblicare foto di questo tipo e andare a parlare nelle scuole di consenso?”
Già, la credibilità: quella cosa per cui se sei #donna non puoi avere una vita sessuale troppo pubblica, non puoi postare in costume, avere un #onlyfans, anche solo ammiccare troppo.
Ma le violenze nei confronti delle survivors che fanno attivismo e divulgazione sul tema della rape culture e del consenso non si limitano a questo e, a volte, diventano vere e proprie minacce e shitstorm digitali. È quello che è successo a Valeria Fonte (@valeriafontepoint) e Revy (@lepilloledirevy), che sono state oggetto di una campagna di odio social dopo aver denunciato sui loro profilo un rape joke del programma radiofonico lo Zoo di 105, e non solo hanno ricevuto messaggi violenti e minacce, ma in un caso (quello di Valeria Fonte) hanno visto il proprio profilo bloccato a causa delle segnalazioni in massa dei fan del programma.
Cosa significhi per una survivor convivere ogni giorno non solo con la violenza subita, ma con la consapevolezza di non essere creduta neanche da chi ci sta più vicino, lo ha descritto con un’efficacia quasi dolora Valentina Mira, nel suo romanzo X da qualche mese in libreria. Un libro crudo ed emozionante, in cui si parla di stupro e rape culture senza mezzi termini, ma anche di quanto la violenza di genere sia pervasiva nella nostra società e, sopratutto, quanto sia necessario resistere, come ha rimarcato l’autrice in un’intervista a Il Libraio
Il libro è il racconto della necessità di una resistenza sia individuale sia collettiva. Il concetto di resilienza un po’ moscio che si ritrova spesso oggi non è sufficiente, perché resilienza significa anche farsi cambiare dall’ambiente circostante. Non sempre è giusto. Penso alla resistenza nel senso etimologico del termine: rivendicare il proprio diritto a esistere.
Curiosa, polemica, femminista. Leggo sempre, scrivo tanto, parlo troppo. Amo la storia, il potere delle parole, i Gender Studies, gli aerei e la pizza.
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