Quegli italiani e altri stranieri "prigionieri" in Australia, lontani dalle famiglie
Non possono lasciare il Paese e non possono essere raggiunti dalle loro famiglie. Come e perché gli italiani in Australia si sentono in trappola.
Non possono lasciare il Paese e non possono essere raggiunti dalle loro famiglie. Come e perché gli italiani in Australia si sentono in trappola.
Mentre i nostri concittadini si lamentano per la “dittatura sanitaria” e le piazze si riempiono contro il green pass che, secondo gli oppositori, limiterebbe in maniera inaccettabile la nostra libertà impedendoci di andare al ristorante, dall’altra parte del globo molti italiani sono costretti ad affrontare le conseguenze delle restrizioni anti-Covid che li stanno letteralmente intrappolando entro i confini dell’Australia, senza che possano ricongiungersi con le proprie famiglie.
È una storia, anzi molte storie, di cui da noi si parla ancora molto poco, ma che stanno condizionando fortemente il benessere di molti cittadini stranieri residenti in Australia e dei loro cari. Gli italiani in Australia – e più in generale, tutti gli immigrati – che hanno un visto permanente o la cittadinanza australiana, infatti, non solo non possono lasciare il Paese senza un apposito permesso del governo – che viene rilasciato in casi molto rari e, comunque, non per un periodo inferiore ai tre mesi, con tutte le complicazioni che un periodo così lungo di assenza dal lavoro comporta – ma non possono nemmeno essere raggiunti dai propri genitori, che non vengono considerati parte della loro famiglia.
Fin dallo scoppio della pandemia, l’obiettivo dell’Australia è stato quello dei contagi zero. Non la convivenza con il virus, bensì la sua totale debellazione. Per raggiungere questo risultato, le frontiere sono state chiuse il 20 marzo 2020 e, da allora, lasciare il Paese – o rientrarvi – è diventato praticamente impossibile per gli stranieri con visto permanente o con doppia cittadinanza.
Per molti mesi, la stretta sugli ingressi – unita a quarantena obbligatoria di 14 giorni in hotel per chiunque entrasse nel paese e un efficace sistema di tracciamento dei casi positivi – ha permesso di mantenere il numero di contagi, ricoveri e decessi in Australia significativamente al di sotto dei numeri che abbiamo tristemente imparato a conoscere. Con solo 34.086 contagi totali e poco più di 900 decessi, per oltre un anno l’Australia è sembrata “il paese fortunato”, che era riuscito a impedire alla pandemia di diffondersi.
Un successo che ha portato a sottovalutare l’importanza della campagna vaccinale – «non è una gara», ha detto e ribadito più volte il primo ministro Scott Morrison – e ad avere meno del 15% di vaccinati completamente in tutto il Paese alla data di oggi (circa il 30% ha ricevuto la prima dose), un numero sensibilmente aumentato nelle ultime settimane, se pensiamo che solo un mese fa era inferiore al 6%.
La fortuna, però, non dura per sempre e alcune zone dell’Australia, come il New South Wales (lo stato dove si trova Sydney) è ora in lockdown – l’equivalente della nostra “zona rossa” – e lo rimarrà almeno fino al 28 agosto.
Il numero di casi è sempre contenuto rispetto agli altri paesi, ma con una copertura vaccinale così bassa è necessario contenere al massimo il numero dei contatti e dei contagi, per non rischiare di perdere il controllo della diffusione del virus.
Il risultato contagi zero, quindi, non è stato raggiunto. A che prezzo, però, si è provato ad arrivarci?
Come gli altri cittadini stranieri che risiedono permanentemente sul suolo australiano o che hanno la doppia cittadinanza, gli italiani non possono lasciare il Paese senza un’extemption, un permesso che viene garantito dal governo e senza il quale non è possibile nemmeno salire sull’aereo. I problemi principali riguardano le persone che hanno necessità di lasciare l’Australia con la garanzia di potervi rientrare, ma anche chi – dopo quasi 18 mesi di lontananza forzata dalle proprie famiglie – ha deciso di ritornare in patria definitivamente (correndo il rischio di non poter più rivedere l’Australia), può vedersi negare il permesso di partire.
Immaginate di essere in un paese che avete scelto e amato, in cui avete lavorato, in cui avete conosciuto amici e trovato amori, cresciuto figli e attività e che ora diventa per voi una prigione.
Le persone che chiedono di partire non lo fanno per andare in vacanza, ma per vere e proprie necessità, che non possono essere rimandate, come riabbracciare un parente in fin di vita prima che sia troppo tardi. Anche in questo caso, però, l’esito della richiesta è spesso un semplice «respinta», senza alcuna spiegazione.
Allo stesso tempo, queste persone non possono essere raggiunte dalle proprie famiglie: secondo le disposizioni correnti, infatti, solo coniugi e figli sono considerati “immediate family”. Se per noi sembra impossibile una concezione di questo tipo – non dimentichiamoci la questione “congiunti” che ha tenuto banco per settimane nel nostro paese – per l’Australia nemmeno i genitori sono familiari stretti e, per questo, per poter entrare hanno bisogno di un permesso speciale che viene richiesto per motivi “compassionevoli” o “impellenti” e che richiede numerosa documentazione a supporto.
Famiglie con neonati, persone malate, figli separati dalle mamme o dal papà: sono molti i casi in cui il ricongiungimento con i genitori sarebbe necessario, eppure sono pochissimi i casi in cui l’extemption viene approvata, spesso dopo decide e decine di tentativi.
Tutto questo mentre gli atleti australiani sono a Tokyo per le Olimpiadi e mentre attori, pseudovip, star e starlette varcano frequentemente i confini del paese, come racconta Business Insider.
Se pensate che questo riguardi qualche caso sporadico, vi sbagliate: solo uno dei gruppi Facebook in cui le persone che vivono questa situazione si ritrovano e si confrontano, Parents are Immediate Family, conta più di 20.000 membri (in un paese di poco più di 25 milioni di abitanti, ricordiamolo) e la petizione per rendere i genitori “immediate family” (che poteva essere firmata solo da residenti o cittadini australiani) ha raccolto oltre 70.000 firme.
Le storie di queste persone sono tutte simili, eppure tutte diverse, e ognuna di esse racconta uno spaccato di dolore, frustrazione e una sensazione di intrappolamento e ingiustizia.
La prima richiesta di esenzione per l’ingresso di mia madre è stata rifiutata. Motivo: non abbastanza impellente.
Attualmente sto facendo la chemioterapia per la terza volta per un cancro incurabile! ????????????♀️???? Attualmente non classificato come terminale per fortuna, ma di un livello di gravità superiore alla media.
Non vedo la mia famiglia in Irlanda da 2 anni, siamo qui senza famiglia.Non avrei mai pensato di essere davvero una di quelle persone, ma ora lo sono. Sono in una situazione complicata, la mia mamma è malata terminale e devo tornare a casa ora, ho un visto temporaneo 482 ATM e non mi è stata concessa l’esenzione. Il mio agente di migrazione mi sta dicendo che se me ne vado senza che mi venga concessa a terra per motivi compassionevoli, sarà una cosa completamente diversa cercare di ottenere l’approvazione dall’estero per tornare.
Sto aspettando che mi venga concesso il mio 186 DE, ma fino a quando non accadrà (probabilmente ancora altri 6 mesi) non potrò rientrare.
Devo impacchettare tutta la mia vita e metterla in un deposito in Australia senza sapere quando o se mi sarà permesso di rientrare.
Qualcuno sa se è davvero così difficile fare domanda dall’estero (Regno Unito)? Perché non ho davvero scelta devo partire ORA.
Sono stata in Australia negli ultimi quattro anni ed è casa mia.
Qualcuno ha qualche consiglio o si è trovato nella stessa situazione?Vivo in Australia da ormai 10 anni, insieme a mio marito che è di origini inglesi. Quando mi sono trasferita, avevo messo in conto che ovviamente avrei visto la mia famiglia più sporadicamente. Avevamo però trovato il nostro equilibrio, specialmente da quando è nata mia figlia, e vedevo i miei genitori circa due volte l’anno per due-tre mesi. Nessuno aveva previsto la pandemia, e la conseguente chiusura delle frontiere. Da ormai 18 mesi non posso rientrare in Italia per visitare la mia famiglia, mia sorella che è incinta, i miei genitori e suoceri che invecchiano. Allo stesso tempo, i miei genitori non possono venire a visitarci, anche se vaccinati e disposti a fare la quarantena, e mia figlia sta crescendo senza la figura dei nonni. Sono fortunata, non ho compassionate o compelling reason al momento, ma vivo ogni giorno nell’ansia, fino a quando durerà? Cosa succede se domani ricevo la chiamata e un mio caro ha bisogno di me in Italia? Che scelte sarò costretta a fare in quel momento? Credo che un’altra fonte di stress sia che non c’è un chiaro piano a lungo termine, non c’è una data o un target da aspettare per programmare e sperare. Siamo grati per quello che abbiamo, ma il tempo che abbiamo vissuto lontani dalle nostre famiglie non ritornerà più.
Alla rabbia e alla sofferenza si aggiunge anche il senso di colpa. Le persone che vivono questa situazione non si sentono in diritto di soffrirne perché «in fondo siamo stati più fortunati di altri». Ma davvero essere intrappolati dentro ai confini di un paese che dovrebbe essere casa tua è una fortuna? Di fronte ai numeri dei decessi, certo, ogni altro dolore inchina la testa con rispetto, e di fronte a una crisi sanitaria ed economica che ha messo in ginocchio soprattutto le persone più fragili chi non ha perso tutto, o tanto, non si sente titolato a parlare.
Le nostre vite, però, sono fatte anche dei rapporti che possiamo coltivare, e della libertà di farlo. E non possiamo, né dobbiamo dimenticarlo, né dovrebbe farlo il governo, a qualsiasi latitudine si trovi.
Curiosa, polemica, femminista. Leggo sempre, scrivo tanto, parlo troppo. Amo la storia, il potere delle parole, i Gender Studies, gli aerei e la pizza.
Cosa ne pensi?