Pensioni e donne, perché le donne sono destinate a una vecchiaia di povertà
In Italia il gender gap si avverte anche nelle pensioni: le donne vanno in pensione con meno soldi e sono destinate a essere più povere degli uomini.
In Italia il gender gap si avverte anche nelle pensioni: le donne vanno in pensione con meno soldi e sono destinate a essere più povere degli uomini.
Benché le pensionate siano più numerose dei coetanei, mediamente percepiscono cifre inferiori, come certificano le elaborazioni statistiche diffuse da Inps e Istat. In particolare, come riporta Osservatorio Diritti, nel 2020 l’ammontare medio delle nuove pensioni scattate (856.004, riferite a pensioni di vecchiaia, di invalidità, anticipate e di reversibilità) è stato di 1.243 euro al mese, con 1.033 euro a testa per le donne (470.181), 1.498 euro pro capite per gli uomini (385.823) e quindi uno scarto di 465 euro (-31,0%), quasi un terzo in meno.
Nel primo semestre del 2021 il gap è persino salito a 498 euro al mese: l’importo medio delle 389.924 nuove pensioni con decorrenza gennaio-giugno è di 1.155 euro, con 931 euro in media per le donne e 1.429 per gli uomini, ovvero il 34,8% in meno, oltre un terzo.
Olivia Bonardi, docente di Diritto del lavoro alla Statale di Milano, spiega l’esistenza di questo gap:
Le pensioni femminili riflettono, in primo luogo, la discriminazione che le donne subiscono nel mondo del lavoro. Differenziali salariali, segregazione occupazionale e frammentazione delle carriere sono gli elementi principali che incidono sulle maggiori difficoltà di accesso al sistema pensionistico e sulle più basse prestazioni pensionistiche. Si intrecciano più variabili, legati ai percorsi lavorativi individuali e alle situazioni personali e familiari.
Ci sono poi alcuni fattori insiti nel nostro sistema, che condizionano fortemente la fruizione delle pensioni e l’entità delle somme erogate. Non si tratta solo di aspetti connessi al riflesso della condizione lavorativa femminile, ma anche di elementi strutturali. Un esempio? Le tabelle con i coefficienti per calcolare la ricongiunzione dei contribuiti sono diverse per uomini e donne e risalgono a quasi 60 anni fa.
Pur essendo più degli uomini, nel nostro Paese le pensionate ricevono solo il 44% del reddito da pensione complessivo, come emerso dall’Osservatorio Inps “Prestazioni pensionistiche e beneficiari del sistema pensionistico italiano”.
Non è difficile intuire le ragioni di questo gap, che sono le stesse che, in generale, interessano il mercato del lavoro femminile: gli stipendi delle donne sono più bassi di almeno il 10% rispetto a quelli maschili, la carriera più difficile, anche per via del carico domestico che è sempre più pressante per le donne, e l’ingresso nel mondo del lavoro è complesso.
Senza contare che l’emergenza Covid ha ulteriormente peggiorato le cose, ed è sufficiente analizzare i dati sul lavoro e su dimissioni e licenziamenti nell’ultimo anno e mezzo per capire che le donne, ancora una volta, hanno pagato il prezzo più alto della pandemia.
In Italia le donne possono usufruire della cosiddetta “Opzione donna“, un trattamento pensionistico calcolato secondo le regole di calcolo del sistema contributivo ed erogato per lavoratrici dipendenti e autonome che hanno maturato i requisiti previsti per legge.
Come si legge sul sito Inps, le lavoratici hanno il diritto di usufruire dell’opzione e al trattamento pensionistico quando sono trascorsi:
Per richiedere la pensione il rapporto di lavoro dipendente deve essere cessato, mentre non è richiesto lo stesso requisito per l’attività da lavoratrice autonoma. Per il requisito contributivo può essere valutata la contribuzione a qualsiasi titolo, versata o accreditata in favore della persona interessata, “fermo restando il contestuale perfezionamento del requisito di 35 anni di contribuzione al netto dei periodi di malattia, disoccupazione e/o prestazioni equivalenti, ove richiesto dalla gestione a carico della quale è liquidato il trattamento pensionistico”.
La pensione è liquidata esclusivamente con le regole di calcolo del sistema contributivo contenute nel decreto legislativo 180/1997.
In queste ultime settimane il governo Draghi sta discutendo la riforma delle pensioni, che dovrebbe rimuovere la Quota 100 e ripristinare la Legge Fornero. Le intenzioni dell’esecutivo sembrano puntare a integrare la legge con la quota 102, per un solo anno, e la flessibilità in uscita anticipata dai 62 anni, che però richiederebbe ai lavoratori di avere un assegno calcolato interamente col contributivo.
Proprio per questa criticità la riforma è stata ribattezzata da molti “opzione tutti”, perché ricorda “opzione donna”, per cui le donne devono per forza di cose accettare il metodo contributivo per andare in pensione, con un taglio che va dal 25 al 30%.
Giusto a proposito delle lavoratrici, per loro sarà possibile accedere al pensionamento con il calcolo dell’assegno totalmente contributivo non più con 58 anni di età e 35 di contributi (oltre un anno di finestra mobile se dipendente, 59 anni e 18 mesi di finestra se autonome), ma con 60 anni se dipendente e 61 se lavoratrice autonoma. Restano previste le finestre per cui si potrà uscire a 61 se dipendenti e 62 e mezzo se autonome.
Rientreranno nella riforma quindi le dipendenti nate nel 1961 e le autonome nate nel 1960, a meno che non siano già uscite nell’anno in corso se in presenza dei contributi necessari); questo potrebbe portare a una riduzione nel numero di persone che decideranno di uscire.
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
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