Filtri social: i rischi di filtrarsi perché "non abbastanza bellə"
I filtri di Instagram, che fino a poco tempo fa erano una novità, oggi sono parte integrante della comunicazione, ma soprattutto delle modalità di autorappresentazione digitale.
I filtri di Instagram, che fino a poco tempo fa erano una novità, oggi sono parte integrante della comunicazione, ma soprattutto delle modalità di autorappresentazione digitale.
I filtri di Instagram, che fino a poco tempo fa erano una novità, oggi sono parte integrante della comunicazione, ma soprattutto delle modalità di autorappresentazione digitale.
I filtri sono delle funzioni fotografiche che consentono di applicare al volto dell’utente delle caratteristiche, ricavabili nella barra di ricerca. Di fatto, i filtri sono una maschera digitale che, una volta applicata, permette di presentare una specifica espressione del sé. La natura dei filtri è composita, varia dai filtri buffi, passando per i quiz e per quelli a sostegno di campagne umanitarie, fino ad arrivare ai filtri bellezza.
I filtri bellezza sono pensati per modificare curvature e proporzioni e restituire un’immagine modificata del volto, identificata come bella, più bella. Le caratteristiche più comuni dei filtri suggeriscono quanto questi siano plasmati in funzione di uno standard di bellezza molto specifico e chiaramente confermativo del modello dominante.
Ad esempio, l’appiattimento della pelle è un elemento quasi immancabile che consente di ridurre la presenza visibile di rughe e altri elementi propri della cute, quelle che vengono definite imperfezioni. Questa limatura della pelle ricorda molto la tendenza televisiva ad aumentare il quantitativo di luci puntate sulle presentatrici all’aumentare dell’età.
Oltre alla pelle, tirata e omogenizzata, tinta di rosa vivaci sulle guance, le parti del viso che maggiormente vengono modificate dall’applicazione dei filtri sono il colore degli occhi, la forma del naso e la dimensione della bocca. Gli occhi vengono sistematicamente schiariti, i nasi rimpiccioliti e i volumi delle bocche arrotondati. Il prototipo di bellezza proposto, con varie modifiche elaborate dai singoli utenti creatori, riproducono quello stereotipo condiviso di cosa venga considerato bello in un viso, ovvero tutte quelle proporzioni e modificazioni capaci di riallocare le fisionomie all’interno dello standard.
Non è casuale che i tratti che subiscono le modifiche più drastiche coincidano con alcuni degli interventi estetici più richiesti ovvero la rinoplastica (la cui richiesta è aumentata del 33% rispetto al 2019), filler e microfiller capaci di intervenire su varie parti del viso.
Gli interventi non chirurgici sono aumentati del 2,9% dal 2018 al 2019, e se questo dato appare irrisorio è solo perché è scorporato dal suo peso sul totale. Gli interventi di questo tipo, infatti costituivano, nel 2019, il 71,1% del totale.
L’incremento di richieste registrato negli ultimi due anni ha una matrice comune: la quantità di tempo trascorsa davanti allo schermo. Le necessità derivate dal lavoro distanziato e dal distanziamento sociale, comprendevano un aumento del tempo di interazione mediato da dispostivi elettronici, le cui modalità di utilizzo consentono agli utenti di visionare sé stessi oltre che l’interlocutore.
La continua esposizione del sé mediata cambia la modalità di percezione e di autorappresentazione. Nelle modalità di conversazione e interazione dirette, infatti, le persone non avevano accesso costante all’immagine del proprio viso. All’aumentare dell’uso dei dispositivi di comunicazione a distanza, aumenta l’esposizione del sé al proprio occhio, reso critico dallo standard e dalla continua esposizione comparata che si realizza sui social.
I social, per definizione, si basano sull’interazione. Si tratta però, al di là degli intenti individuali, di interazioni filtrate, selezionate nel momento stesso in cui si manifesta la volontà di condivisione.
Il mondo raccontato è in qualche misura una selezione del mondo reale e nei social questo è più vero che mai. Trattandosi di meccanismi che funzionano con ricompense, i like e i follower che si ricevono in cambio di un contenuto pubblicato, si innesca, automaticamente, un principio competitivo basato proprio sulle unità di misura designate dal social che rischiano di diventare un metro di misurazione del valore dell’utente.
O, perlomeno, di essere dispercepiti dagli utenti in questo modo. La competizione comporta la comparazione che, in ambito rappresentativo, può tradursi nella spinta a voler apparire in una modalità che, volutamente ma erroneamente, può essere definita abbellita.
Il problema, però, è che riconoscendo bellezza al proprio viso con tratti somatici costantemente modificati diminuisce la valutazione attribuita al viso privo di filtri. Nella scelta di abbellire, come costante, è insita la determinazione di bruttezza o, se non di bruttezza, di una bellezza minore. Ed ecco perché si può parlare di quella che Micaela Farrocco ha definito Selfie Surgery nel suo articolo apparso su TPI, in cui racconta le interazioni tra chirurgia estetica e social media. L’articolo analizza i comportamenti pubblicitari di un chirurgo che scambia procedure estetiche e plastiche in cambio di visibilità.
Ho fatto una storia su instagram in cui invitavo ragazze con almeno 10mila follower a contattarmi per avere un trattamento gratis in cambio di una loro storia.
Sempre nell’articolo, le testimonianze delle ragazze intervistate riconducono il percorso di scelta ai social.
Anche lei modifica tutte le foto che pubblica, non riesce più a vedersi senza filtri che levigano la pelle, tirano su gli occhi. Ti rendono diversa dalla te riflessa nello specchio.
Questa differenza tra il reale e la realtà selezionata dei social può essere fonte di un profondo e continuato disagio a cui la persona cerca di porre rimedio. La riduzione dei prezzi e la diffusione degli interventi non chirurgici contribuiscono alla percezione di accessibilità di pratiche altamente normalizzate.
La scelta di sottoporsi a un intervento estetico o plastico non è da stigmatizzare perché rimane nell’ambito delle decisioni autoderminative dell’individuo. Ciò che è da porre sotto lente analitica sono la diffusione e gli incrementi di tali decisioni dettati da fattori esterni che possono, persino, viziare l’autonomia della scelta.
Come rileva Naomi Wolf nel classico The Beauty Myth, il mito della bellezza, quindi l’imposizione di questo come ideale a cui assurgere, sottrae tempo, energie, denaro e autonomia alle categorie maggiormente oppresse. Il canone esternamente imposto si traduce in una scala valutativa in cui le persone vengono collocate sulla base di quanto il loro corpo sia considerato socialmente bello.
Le espressioni umane non conformi allo standard fortemente eurocentrico, abilista e grassofobico, vengono perciò valutate come meno belle, quindi meno valide. La bellezza viene codificata e misurata sulla base di standard determinati da chi detiene il maggiore potere sociale e imposta sul resto della popolazione. Lo sguardo maschile è il primo filtro della storia, il primo orientamento angolare che ha determinato cosa fosse bello e cosa no. Categorizzando, classificando, valutando e dividendo ha sclerotizzato la convinzione che la bellezza sia un prototipo misurato e misurabile.
I filtri non sono intrinsecamente cattivi e il loro uso non è necessariamente negativo. Possono essere fonte di svago come di supporto per quelle persone che, a causa della pervasività del mito della bellezza, non si sentirebbero a loro agio nel mostrarsi. Il problema riguarda la diffusa tendenza a non accettare più un’immagine umana non filtrata.
Nata e cresciuta in Comasina, è una fotografa e una scienziata politica specializzata in relazioni internazionali e politiche globali, si occupa di disuguaglianze, espulsione sociale con un’ottica intersezionale e antispecista.
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