Le tematiche ambientali da qualche tempo a questa parte hanno colpito la sensibilità di buona parte dell’opinione pubblica, stimolata anche dalla figura di Greta Thunberg e, in generale, da molti giovanissimi attivisti della Generazione Z, molto più aperti e ricettivi rispetto alle questioni della sostenibilità ambientale e impegnati in prima linea a salvare il pianeta prima che questo sia al collasso.

La tematica è assolutamente importante, tanto che anche l’ONU ha inserito la gestione dei cambiamenti climatici nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile; eppure, sul tema sembra spesso prevalere una sorta di doppio standard: a parole, infatti, tutti e tutte noi sembriamo preoccuparci per le conseguenze nefaste di alcuni nostri comportamenti, ma nei fatti pecchiamo moltissimo, portando avanti proprio quegli atteggiamenti che continuano a mettere a repentaglio le risorse e la salubrità dell’ambiente.

Un esempio molto significativo riguarda la dispersione della plastica: secondo alcune stime, ogni anno si getta in mare una quantità compresa tra i 5 e i 13 milioni di tonnellate di plastica, e le cifre sono tanto preoccupanti che alcuni esperti sostengono che, di questo passo, entro il 2050 ci saranno in mare più rifiuti che pesci.

Per sensibilizzare sul grandissimo impatto della plastica sull’ambiente Enzo Suma, una guida naturalistica di Ostuni, in Puglia, ha creato da circa quattro anni Archeoplastica, un progetto che, attraverso il recupero e la raccolta di reperti storici di plastica, come confezioni di sapone, di detersivo, di crema, giocattoli, punta proprio a mettere in evidenza quanto sia difficile “disfarsi” della plastica e, quindi, quanto questa possa essere pericolosa per l’ambiente. Il solo intento del progetto è quello di sensibilizzare sul tema dell’inquinamento, e non ha alcuna volontà accusatoria verso le aziende produttrici dei prodotti rinvenuti in mare.

Archeoplastica è anche una pagina Instagram, un museo virtuale e un’esposizione itinerante, per cercare di raggiungere con questo importante messaggio quante più persone possibile. Abbiamo ascoltato Enzo Suma proprio per comprendere al meglio le ragioni del progetto e quanto è concreto il rischio ambientale dato dalla plastica.

Spiegaci, più o meno, quanto impiega la plastica a degradarsi nell’ambiente, perché probabilmente solo così possiamo renderci davvero conto del male che facciamo all’ecosistema quando gettiamo un qualsiasi prodotto di plastica.

Prima di tutto direi che è sorprendente la percezione che la gente ha, rispetto alla degradazione della plastica. La dimostrazione l’ho avuta quando ho iniziato il progetto: i rifiuti che raccolgo sono ‘vecchi’, possono avere 60 anni al massimo, e le persone si stupivano nel sapere che un oggetto di plastica potesse sopravvivere così a lungo. Ma 60 anni sono davvero nulla in confronto ai secoli, addirittura ai millenni, che possono passare prima che la plastica si degradi.

C’è però anche un altro aspetto da non sottovalutare: io raccolgo e conservo il materiale integro, ma spesso trovo gli stessi reperti rotti, completamente distrutti o quasi; questo è un problema enorme, di cui anche il mondo scientifico si sta occupando. Le microplastiche, rompendosi in tanti pezzetti, entrano nella catena alimentare, causando moltissimi danni alla fauna marina“.

Il 4 novembre l’Italia ha recepito la normativa europea, ovvero la direttiva (Ue) 2019/904 sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente, meglio nota come Sup (Single Use Plastic), con però alcune differenze: ad esempio non sarà fatto divieto di produrre prodotti che hanno rivestimenti in materiale plastico in quantità inferiore al 10% del peso dell’articolo né gli articoli in plastica compostabile realizzati con almeno il 40% di materia prima rinnovabile. Pensi che la normativa italiana sia sufficiente?

“Purtroppo no. La normativa e le leggi devono venirci incontro, quella attuale lo ha fatto parzialmente, ma poteva essere un’opportunità per allargare ulteriormente il discorso. Okay il mantenimento delle cosiddette bioplastiche, ovvero quelle che vengono recuperate a livello industriale tramite la raccolta differenziata, ma il problema dell’abbandono dei rifiuti di plastica con le conseguenze negative per la fauna marina rimane, e a quello, al momento, non è stata data una soluzione“.

Il tema ambientale è stato sicuramente riportato all’attenzione di stampa, media e opinione pubblica anche grazie a una figura come Greta Thunberg. Cosa pensi delle sue battaglie, e perché credi sia così osteggiata da una parte di pubblico?

Greta Thunberg ha sicuramente contribuito a migliorare la sensibilità dei giovani suoi coetanei sui temi ambientali, e le critiche che le vengono mosse sinceramente non le capisco. Sembra che la generazione più ‘anziana’ voglia negare i danni procurati al pianeta negli anni passati; forse si sentono in colpa, non vogliono ammettere di avere parte delle responsabilità. Tutti noi, alla fine, veniamo da un determinato modello culturale, solo che chi è più in là con gli anni probabilmente riesce a staccarvisi e a modificare le proprie abitudini con difficoltà“.

Passiamo al progetto vero e proprio di Archeoplastica; quante persone partecipano attivamente ai recuperi che organizzate?

Devo dire che in effetti c’è una discreta quantità di persone che partecipano alle operazioni di pulizia, generalmente circa un centinaio. Parlo però delle giornate di raccolta collettiva, quelli sono eventi organizzati che vengono pubblicizzati. A me invece capita spessissimo di andare a raccogliere in piccoli gruppi o solo con qualche amico. Devo dire che sicuramente la sensibilità delle persone è cambiata: anche una decina d’anni fa circa organizzavo le raccolte, ma alla fine partecipavano sempre i soliti. Oggi invece le cose sono cambiate, me ne sono accorto vedendo anche quante associazioni di pulizia delle spiagge sono nate dopo Archeoplastica. Le persone desiderano fare la propria parte; quello che mi lascia il dubbio, che spero essere infondato, è che non capisco quanti di loro lo fanno solo per ‘moda’ e chi, invece, partecipa perché ci crede realmente“.

Il progetto Archeoplastica è anche una mostra itinerante, che spesso interessa anche le scuole.

Sì, il progetto è stato ufficializzato circa un anno fa, e già l’estate scorsa sono state fatte diverse esposizioni in varie zone della Puglia, ad esempio in castelli oppure nella sala di un teatro a Bari. Alla gente è piaciuta così tanto che mi hanno inserito anche all’interno della mostra fotografica di National Geographic al teatro Margherita di Bari, Planet or Plastic, visitabile fino al 13 marzo. La mia idea è quella di uscire anche dai confini pugliesi per portare il museo in giro per l’Italia.

Abbiamo poi delle esposizioni che durano una settimana nelle scuole elementari, in cui i bambini possono cominciare ad approcciarsi alla tematica. La mia volontà, però, sarebbe quella di esportare Archeoplastica anche nei musei naturali e, perché no, in quelli archeologici. Dopotutto, sono reperti anche questi”.

Qual è il reperto più strano che, a memoria, ricordi di aver recuperato?

Non è un reperto strano ma è un reperto dalla storia particolare, che è stato quasi un mistero. Ho trovato un flacone a forma di orsacchiotto, ma cercando su Internet non riuscivo a collegarlo a nessun marchio. Ne ho trovati in tutto tre, uno rosa, poi uno bianco, e infine uno, che sembrava molto più vecchio, un flacone da due litri con il tappo che fungeva da misurino.

Un giorno una ragazza mi contatta dicendo di aver trovato lo stesso flacone, con ancora l’etichetta su cui, seppur sbiadita e sciupata, si leggeva la parola P; un indizio in più per ricostruire la storia di questo oggetto. Attraverso altri contatti alla fine scopro che si tratta di un ammorbidente, Soft Prim, e riesco anche a mettermi in contatto con il designer che ha progettato questo flacone, un signore brasiliano di circa 45 anni che mi spiega di aver realizzato questo oggetto alla fine degli anni ’90 solo per il mercato messicano. Solo che poi il prodotto ha avuto così successo che la multinazionale produttrice lo ha riproposto anche in Europa.

Ecco, questa storia mi ha colpito, mi è piaciuto moltissimo come l’abbiamo ricostruita. Fra l’altro a questo flacone è legato anche un altro fatto: un mio amico mi ha detto di averne trovato uno su un’altra spiaggia, solo che poi si è dimenticato di recuperarlo; così sono partito io, e su quella stessa spiaggia ho trovato una tartaruga che aveva ingoiato una lenza. L’ho presa e l’ho portata immediatamente dal veterinario per farla curare, sta ancora lottando per sopravvivere. Ecco, se io non fossi arrivato su quella spiaggia sarebbe certamente morta, quindi sono molto felice di aver fatto quel giro“.

 

 

 

 

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!
  • Le interviste di RDD