Il veganesimo non è una dieta
Il veganismo non è una dieta, è una scelta politica che riconosce dignità alla vita in ogni sua forma, non la mercifica, non la consuma e non ne abusa.
Il veganismo non è una dieta, è una scelta politica che riconosce dignità alla vita in ogni sua forma, non la mercifica, non la consuma e non ne abusa.
“Ma non mangi nemmeno le uova?” una frase come tante, si presenta costante e onnipresente contenendo un misto di biasimo, scetticismo e preoccupazione. Preoccupazione non tanto per la persona e la sua salute, le persone vegane tendono a sopravvivere al veganismo, ma piuttosto per quanto l’idea a priori del veganismo appaia estrema.
Estrema e non radicale, fanatica e non coerente, inutile e non pratica. E alla domanda sulle uova, “ma nemmeno quelle delle galline di mia zia che razzolano libere e, fidati, stanno meglio di me e di te, mangeresti?” che talvolta è seguita dal classico “ma se ti trovassi senza cibo, mettiamo su un’isola deserta con un maiale, lo mangeresti per sopravvivere? E con una gallina, allora lì le mangeresti le uova?”, non vale poi troppo la pena di rispondere con i no del caso, perché il problema è alla radice della domanda stessa.
Non è una questione di mangiare, o peggio di essere quel vegano che dice che forse le mangerebbe e venir preso come modello di vegano non estremista, gentile e socialmente accettabile, ma di consumo e considerazione. Essere vegani non è questione di alimentazione, o come ritengono alcuni – e ci torneremo- di dieta, ma è una questione di consapevolezza rispetto all’abuso che deriva dall’uso dei prodotti realizzati, e quindi derivati, sfruttando la vita animale.
Il cibo, o meglio quello che normalmente – nel senso letterale dell’avverbio – viene considerato tale, è parte fondamentale ma non unitaria del veganismo, è un elemento imprescindibile della scelta vegana quanto complementare a tanti altri, anche se, purtroppo, la dispercezione collettiva lo inquadra come unico elemento degno di nota.
Da un certo punto di vista è anche semplice capirne il perché. Criticare un’alimentazione è relativamente semplice, ancora di più quando la si colloca nell’ambito della dieta, un percorso che ha accenni insiti di strumentalità e temporaneità, si “sta a dieta per” ottenere qualcosa e per un certo tempo, nonché una forte componente punitiva se non auto-punitiva, sottoprodotto della cultura della dieta e della colpevolizzazioni dei corpi, di cui si misura lo spazio occupato con occhio critico in maniera direttamente proporzionale all’aumentare della dimensione.
L’alimentazione, intesa come atto funzionale e necessario, è un punto di natura fortemente culturale e culturalizzabile.
Nella società del capitale e del consumo, ad esempio, si mangia come attività, non come necessità e posto che la necessità non è da contrapporsi al piacere, e lo si può fare a qualunque ora del giorno e della notte, avendo accesso a prodotti che potrebbero tracciare la storia del capitalismo stesso: zucchero in abbondanza, cacao in percentuali ridicole contenute in prodotti dolciari poco costosi, pronti al consumo, impacchettati in plastica, e ancora latte in ogni forma e derivato.
Lo zucchero, figlio del colonialismo e fratello del cacao, imbustato in plastica derivata dal petrolio e dalle spartizioni territoriali orientate al suo possesso e al suo controllo, farcito di latte, un prodotto che prima era lusso, come la carne, ma che oggi viene venduto a un prezzo piccolo e accessibile per instaurare la convinzione che una ricchezza diffusa si sia in qualche modo realizzata.
La cultura alimentare in parte ci definisce e non solo in termini di privilegio. Ci definisce anche come gruppo sociale, penetra nelle nostre relazioni familiari, amorose, lavorative, collettive e/o individuali, segna la nostra appartenenza, diventa persino linguaggio, mezzo comunicativo capace anche di trascendere le generazioni con ricette, pasti ordinati secondo dettami temporali precisi e con codici intrecciati alla religione. Il cibo è parte di noi e del mondo che abitiamo più di quanto siamo portati a realizzare, ed è questa inconsapevolezza a suggerire quanto il modo di mangiare sia parte della nostra identità. Lo possiamo definire, certo, ma anche in assenza di definizione fa parte di noi.
E dunque, parlare di veganismo in termini di dieta, svolge una duplice funzione di riduzione e protezione. Ridurre il veganismo a una dieta palesa la possibilità che esso finisca, prima o poi, che non sia necessario e che sia una scelta, piuttosto, una fissazione individuale facilmente confutabile. Ed è anche una protezione, perché essendo le scelte alimentari personali esse non dovrebbero essere criticabili, questo pensiero, prima di strutturare un paradosso, costruire una difesa per la persona non vegana che si pone nella condizione di non dover subire un giudizio percepito dalla sola presenza di un commensale vegano.
La riduzione e la protezione, rimangono quindi strumenti eccellenti per scongiurare le argomentazioni che intaccano il distacco alienato che proviamo nei confronti di ciò che viene, ordinariamente, considerato prodotto alimentare.
Il veganismo, però, non è una dieta, né nella sua accezione di restrizione alimentare per ottenere un risultato fisico, né nel suo significato di regime alimentare. Il veganismo è un’ideologia politica imperniata sull’antispecismo.
Un’alimentazione a base vegetale non è veganismo.
Il veganismo è un’ideologia basata sulla convinzione che sia necessario evitare lo sfruttamento, animale e umano, bisogna ribadirlo. In buona sostanza si tratta di riconoscere la dignità della vita a ogni essere vivente e non abusare delle sue funzioni fisiologiche per ottenere qualcosa da usare.
Uno stile di vita vegano, strutturato su questa ideologia, nega risorse alla capitalizzazione della vita animale e allo sfruttamento di quella umana necessario per ottenere i prodotti consumati in massa di cui nemmeno si ha sensazione della provenienza.
Basti pensare ai mattatoi e alle persone che vi lavorano, collocando questa immagine poi nel contesto pandemico che stiamo esperendo e riflettendo su come si crea un filetto di manzo, verrà da sé chiedersi quante e quali forme di alienazione siano richieste, imposte, alla mente del lavoratore per portare a termine le sue mansioni. Perché se alla persona media fa impressione sentire di una cane picchiato dal padrone, immaginare che una persona sia costretta ad incanalare maiali verso imbuti destinati alla soppressione o ad appendere polli semivivi alle macchine che ne frulleranno le carni, o ancora al mito dell’allevamento estensivo dove capre, maiali e vacche sono sgozzate da chi ha dato loro un nome finché le carni non sono state considerate mature, fa altrettanta impressione se non orrore.
Pensare che esiste un sistema di consumo costante che chiede a individui di compiere questi atti quotidianamente e considerarli mansione lavorativa, esponendoli a infortuni, inevitabili, trattandosi di un lavoro che implica il contatto con animali vivi, se non ad agenti patogeni, ricordiamoci che la maggior parte di malattie umane è derivata da processi di zoonosi, quindi salti di specie, dovrebbe spingere a capire la problematicità di tale sistema.
Diversi studi hanno mostrato che l’incidenza di stress e disturbi psicologici nei lavoratori impiegati in questo settore è più alta se raffrontata con altri ambienti, e che spesso si accompagna ad ansia e insorgenza di disturbi dissociativi.
Ma se questo non basta, perché le condizioni del lavoratore sembrano non bastare mai, non finché sono talmente estreme e palesi da torcere le budella a una società che non considera la gravità della violenza e dello stigma sulla salute mentale come problemi, bisognerebbe pensare all’industria della concia. O meglio, alla frequenza con cui nei negozi, della grande produzione industriale ma anche della produzione locale e sempre ossessivamente certificata, si incontrano prodotti in pelle.
La quantità dovrebbe suggerirci due volumi: quello degli animali scuoiati per realizzare un paio di sneakers da 12 euro o degli stivali da 108, e quello dei lavoratori che hanno dovuto procedere all’allevamento, alla scuoiatura, che in assenza di disposizioni di legge in alcuni paesi considerati produttori avviene ancora a vivo per risparmiare una fase al processo, e di concia con annesso contatto con reagenti chimici e conseguente loro smaltimento.
La maggior parte della pelle comprata a poco prezzo, proviene da paesi in cui il dislocamento consente di sottopagare la manodopera ed esporla a maggiori rischi senza mettere in sicurezza l’ambiente. Per molti, allora la soluzione è comprare un buon cuoio made in Italy. Certo, ma l’animale non è comunque scuoiato dopo essere stato allevato e ucciso per questo?
Il veganismo non è una dieta, ma una lente. Guardandovi attraverso si osserva oltre le pareti in cemento che occludono il sangue che scorre nei macelli e le mani guantate degli operai impiegativi, si nota come un vestito realizzato in pelle sia in realtà un’uccisione dettata dalla moda, si impara, in buona sostanza a ricordare che non abbiamo il diritto di porci come vita superiore sulla Terra arrivando a schiavizzare miliardi di esseri viventi la cui dignità non riconosciamo.
La visione antropocentrica alla base di questo sistema produttivo e consumistico è anch’essa un retaggio dell’appiattimento culturale derivato dal colonialismo che ha imposto ed esportato l’idea che il mondo sia per servire all’uomo e non che l’uomo sia parte di un sistema mondo, come spesso era invece manifestato in molte delle religioni che sono state calpestate dalla volontà unificatrice cristiano-colonialista.
Questo non vuol dire che nelle civiltà che il colonialismo ha oppresso non v’era il consumo animale, ma che questo era inserito in una diversa concezione metafisica in cui l’umanità era parte e non padrona. La proprietà dell’altro e la volontà di esercitarla sono elementi intrinsechi della visione antropocentrica per cui si innesta una percezione gerarchica e quindi una subordinazione di chi è collocato a servire. E gli animali sono sempre in fondo a questa piramide.
L’industria dell’allevamento a fini alimentari è responsabile, dati FAO, del 14,5 % di emissioni di GHG. La lotta al cambiamento climatico si basa sulla riduzione di emissioni, e pratiche di riassorbimento, ma dovrebbe basarsi su una revisione di sistema. Soprattutto perché, come qualsiasi ricerca su google potrebbe agilmente confermare, i danni peggiori attualmente esperibili sul nostro pianeta derivati dal cambiamento climatico sono subiti dalle persone e dai popoli che meno vi hanno contribuito, per intenderci non certo quelli che possono andare all’Esselunga e scegliere se consumare un taglio di vacca o maiale a seconda del desiderio, sapendo di trovare sempre disponibilità.
E ancora, analizzando la distribuzione del cibo spazzatura negli Stati Uniti, si nota una drammatica concentrazione nei quartieri poveri e abitati da persone non bianche. Il che significa due cose, i prodotti animali di peggior qualità e venduti al minor prezzo, sono spesso l’unica costante alimentare di una certa fascia di popolazione. Il tutto, considerando che le persone afroamericane soffrono di malattie cardiovascolari in maniera maggiore, si traduce in una questione di salute pubblica.
Si consideri inoltre che la maggiore monocoltura al mondo, quella della soia per cui attualmente l’Amazzonia viene deforestata (sempre in concomitanza alla creazione di terreni per l’allevamento) e le popolazioni indigene uccise, è destinata per il 77% della sua produzione all’alimentazione degli animali destinati ad essere consumati come alimenti.
Si erode l’ambiente da un lato, si distribuiscono a prezzi esageratamente bassi dall’altro.
Come si spiega la continuità di ciò? Per cominciare, l’industria globale della sola carne vale circa 838.3 miliardi di dollari. Ed ecco spiegato perché l’Europa tanto attenta al verde ha promosso una campagna per il consumo di carne e con la nuova PAC non intende ridurre il flusso di denaro orientato all’industria della carne, ma anche perché gli aiuti di settore promossi dall’amministrazione Biden hanno mantenuto bassi i prezzi della carne e non sono stati orientati sui vegetali, e ancora perché la carne sia così facilmente consumata nonostante ne siano riconosciuti gli effetti deleteri per la salute al punto che anche l’OMS la considera un agente cancerogeno di tipo 2A nonostante gli studi siano pochi e poco finanziati.
E in tutto questo circa 80 miliardi di animali vengono macellati, dopo aver vissuto nella più totale assenza di libertà, perché ne sia confezionata la polpa in pratiche vaschette di polistirolo accuratamente avvolte nella pellicola plastica.
Gli animali, nel nostro sistema, sono merce, valutati un tanto al chilo. E le persone pure.
Esiste solo chi può acquistare, comprare e consumare.
Il veganismo non è una dieta, è una scelta politica che riconosce dignità alla vita in ogni sua forma, non la mercifica, non la consuma e non ne abusa. Nemmeno quando si tratta delle uova della gallina della zia.
Perché è vero, in condizioni estreme – suscita una certa inquietudine che in tali discorsi si ricorra all’isola deserta quando per parlare di persone che muoiono di fame e di freddo basta guardare fuori dai nostri confini europei ben serrati- una persona proverebbe a sopravvivere in ogni modo.
Ma quando la scelta è tra comprare della verdura di stagione, comprare pochi vestiti e solo se necessari da aziende che un minimo di virtuosismo produttivo lo sanno garantire, non prendere parte ad alcuna attività turistica o di intrattenimento che prevede un’interazione non casuale con animali, e il consumare carne, latte e formaggio, magari prendere quelle belle adidas in pelle e poi anche il giubbino perché quest’anno vanno più larghi e se è in cuoio tanto meglio, e poi andare allo zoo o pagare quattro dollari per vedere un gibbone che fuma un sigaro, non è una questione di sopravvivenza. È una questione di scelte.
Quindi no e di nuovo, il veganismo non è una dieta, è un’idea politica per un mondo in cui non esisterà più alcuna forma di sfruttamento. In cui non ci saranno miliardi di animali portati alla luce al solo scopo di diventare merce.
Ed è comprensibile che non tutti i partecipanti non vogliano entrare nel merito e nella reale complessità della conversazione. Perché spaventa sapere cosa le nostre azioni determino e che è necessario cambiare per modificare tali effetti.
Cambiare al punto di capire che gli animali hanno diritto alla vita e il veganismo è un’ideologia: è politica.
Nata e cresciuta in Comasina, è una fotografa e una scienziata politica specializzata in relazioni internazionali e politiche globali, si occupa di disuguaglianze, espulsione sociale con un’ottica intersezionale e antispecista.
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