"Io, italiana convertita all'Islam, vi racconto il femminismo islamico" - INTERVISTA A SVEVA BASIRAH
23 anni, attivista e operatore sociale, Sveva Basirah Balzini ci racconta il femminismo islamico, abbattendo diversi preconcetti.
23 anni, attivista e operatore sociale, Sveva Basirah Balzini ci racconta il femminismo islamico, abbattendo diversi preconcetti.
Spesso quando si parla di femminismo islamico la persona occidentale media trova questa accoppiata stridente, come se i due termini fossero in antitesi; in realtà, l’Islam ha una nutrita corrente femminista che affonda le proprie radici nella notte dei tempi, e attiviste che, attualmente, ne incarnano appieno lo spirito.
Per chiarire al meglio perché è tutt’altro che sbagliato parlare di femminismo islamico, però, ci sembrava giusto lasciare la parola a chi può parlarne, con cognizione di causa, da diretta interessata; perciò abbiamo chiesto a Sveva Basirah Balzini, attivista, operatore sociale, di raccontarci qualcosa in più, soprattutto per sfatare alcuni falsi miti che circondano la figura della donna nel mondo islamico.
Livornese, 23 anni, Basirah Balzini si descrive come “un sacco di cose strane”, quando la raggiungiamo al telefono; si dichiara una persona non binaria, e per questo, per sua espressa richiesta, nell’articolo ci riferiremo alla sua persona usando i pronomi lui/lei.
Si è convertita/o all’Islam nel 2015, a 16 anni, trovando l’ispirazione nell’allora partner musulmano (“Ma non l’ho fatto per lui – precisa – semmai lo stare con lui mi ha dato la spinta in più per fare qualcosa che prima non ho mai avuto il coraggio di fare”), da cui si è poi separata/o perché la loro era diventata una relazione tossica.
“Conoscevo l’Islam molto più di lui – ci spiega – e lui si sentiva sminuito, tanto che cercava in tutti i modi di darmi false informazioni. Ad esempio, ha tentato di convincermi che gli Hadīth – gli estratti di quanto detto o scritto dal Profeta – dicevano che durante il Ramadan lui poteva stuprarmi, cercava di inculcarmi una visione farlocca della religione e io ero spiritualmente a pezzi.
A un certo punto però ho cominciato a pensare che il femminismo islamico esisteva, e che io non dovevo per forza subire tutta quella roba lì, quello schifo, quindi ho pensato ‘Ok, non sono sola/o, ho me stessa/o, ho Dio’; sono uscita/o dalla mia relazione completamente sola/o, ma non mi sono mai sentita/o sola/o, sentivo di avere una spiritualità accanto, ed è stato uno strumento fondamentale per la mia liberazione“.
Sveva Basirah Balzini è dunque un/a survivor, che proprio in virtù della sua esperienza ha deciso di dedicarsi alle persone vittima di violenza; è attivista e operatore facilitatore, si occupa di formazione sulla destrutturazione e sulle forme della violenza, e collabora con l’associazione Meti, dove si occupa di seguire, con un servizio di ascolto, le persone che hanno subito violenza oppure stanno attraversando il percorso di post-violenza. Ha anche una rete che si chiama SLUM, a cui le persone possono rivolgersi per chiedere aiuto, e grazie alla quale lei/lui è in grado di trovare aiuto terapeutico, avvocati, case rifugio a chi ne ha bisogno.
Come detto, però, fra le tante cose è anche un/a femminista islamica/o, e proprio da qui vogliamo partire, per sfatare alcune false credenze appartenenti al mondo occidentale.
In quella che potremmo definire “mentalità occidentale” le parole Islam e femminismo sembrano essere agli antipodi. Eppure, nella storia del mondo islamico ci sono state figure e momenti molto importanti per l’affermazione del femminismo, da Qasim Amin, peraltro uomo, passando per la Hoda Shar’awi, l’Unione Femminista Egiziana, fino alla cosiddetta primavera araba femminile. Perché allora questa concezione errata, da parte del mondo occidentale?
“In realtà il femminismo islamico ha una storia decisamente importante – dice – basti pensare ad esempio al movimento delle persone nere americane, con poi seconde e terze generazioni di famiglie musulmane unite che unitesi al movimento nero hanno fatto una guerra di femminismo islamico, tanto che al momento uno dei suoi pilastri è amina wadud, teologa, persona non binaria, che arriva da un movimento di rivendicazione importante.
Le persone nere hanno deciso di convertirsi all’Islam e lei su questa scia è andata a ricercare il femminismo islamico. Il femminismo islamico d’altra parte è una rivendicazione radicale, perché rivendica anche la spiritualità. Come chiunque lotti, devi fare delle rivendicazioni: chi fa lotta di classe deve rivendicare una dignità di classe, la dignità del lavoro, la forma del lavoro, mentre noi, oltre a toccare tutti questi argomenti come femministi intersezionali, noi nella nostra vita di donne, di persone queer rivendichiamo anche la spiritualità.
La religione è stata sempre utilizzata come una specie di legge, sia morale che scritta, come mezzo di repressione e di normativismo, e il femminismo islamico va a scardinare anche questo. Non tutte le persone sono religiose, però molte persone che sentirebbero l’esigenza di aderire a una religione purtroppo ne sono allontanate proprio per quella dimensione ‘mistica’, quando invece dovremmo poterne godere tutt*. Spesso mi capita di scontrarmi con persone che hanno semplicemente ‘subito’ la religione, e che mi propongono un’interpretazione di Corano e Sunna che potrebbe darmi un Imām bigotto. Non c’è differenza tra un antiteista incazzato e un Imām bigotto, e il femminismo islamico strappa i nostri testi a persone che ne farebbero solo una questione di potere. È una rivendicazione profonda, che non viene mai presa in considerazione, e spesso determinate persone che comunque hanno una loro dimensione spirituale sono vittime di doppia discriminazione, in particolare quelle LGBT, sono quelle che ci rimettono di più: se credi in Dio sei un idiota che crede all’amico immaginario, insomma sei marginalizzato sia dai movimenti di liberazione che dalla tua comunità”.
Restiamo sul tema femminile: anche rispetto al Corano, probabilmente sembra più esserci un problema di interpretazione distorta, a uso e consumo del patriarcato…
“Le interpretazioni purtoppo sono sempre a uso e consumo, ci sono interpretazioni bislacche utilizzate poi per dettare legge, legale, o morale, ma questo problema ce l’hanno un po’ tutti i patriarcati. Nel caso dell’Islam a volte i patriarcati sono anche plurimi: da una parte c’è il patriarcato del Paese a maggioranza musulmana, o sedicente islamico. Ogni patriarcato è come l’acqua, prende la forma del recipiente, perciò, ad esempio, quello afghano non sarà mai come quello marocchino. Bisogna poi considerare che dopo la colonizzazione occidentali la Ummah, la comunità musulmana, si è stretta sotto l’egida del bigottismo, l’Islam è diventato più rigido per rivendicare la propria autonomia rispetto all’Occidente, e in questo contesto hanno fatto breccia le fette più estreme.
L’altro tipo di patriarcato è quello occidentale, che si è imposto anche sulle interpretazioni; se si vanno a leggere le interpretazioni occidentali esegetiche, ideologiche di Corano e Sunna si troverà tantissimo orientalismo, tanto che anche per le persone musulmane è diventato difficile rendersi conto di dove finisce l’Islam e comincia l’orientalismo occidentale. L’Occidente ha voluto tingere a suo piacimento l’Islam, e per le persone, sballottate tra un’interpretazione e l’altra, è molto difficile trovare la propria posizione, la forma della propria spiritualità”.
Quanto religione (e non parlo solo di Islam, naturalmente) e patriarcato sono intrinsecamente legati tra loro?
“Purtroppo tutte le religioni sono sempre state molto usate per questo. Il patriarcato è come un partner manipolatore, ti manipola e ti tocca nei punti più intimi possibili, quali ad esempio la spiritualità. Se il patriarcato riesce a normare il tuo sentire spirituale ti annulla, ti lobotomizza, perché è riuscito a toccare molto vulnerabile di te. Ecco perché patriarcato e religione sono sempre connessi, e le religioni sono raccontate da bocche sbagliate, più affamate di potere. Dobbiamo anche dire che il patriarcato crea un sacco di traumi, e il traumi hanno a che fare con la religione, che invece di curare va a intossicare ancora di più quei sistemi tossici già imparati con il patriarcato.
I patriarcati e le religioni sono sempre stati legati nel corso della storia, parliamo non solo dell’Islam, non solo di religioni monoteiste. Io faccio sempre un esempio molto eloquente, quello di Frine, una donna che in tempi moderni chiameremo escort, che ad Atene fu denunciata non solo perché il suo mestiere la stava facendo diventare molto ricca, e quindi gli uomini la accusarono di impudicizia, di organizzare delle orge, ma anche perché aveva introdotto una nuova divinità.
Il filosofo Crizia vedeva gli dèi, potremmo dire adesso, come una polizia morale, e in effetti quando la religione viene codificata in questo modo diventa un’arma. Altro esempio, oggi molte persone seguono il kemetismo, che in sostanza è la religione degli antichi egizi, e una piccolissima parte dei fedeli giustifica con interpretazioni distorte omofobia;la religione egizia condanna lo stupro, in riferimento allo stupro di guerra spesso perpetrato nei confronti degli uomini, ed ecco, alcuni strumentalizzano questo sostenendo che quindi gli dèi trovino illeciti i rapporti omosessuali”.
In un post parli del “corpo religioso”. Che cos’è?
“Io sono una persona che non ha avuto particolari mezzi per studiare, quello che pubblico è tutto frutto delle mie esperienze, e i corpo religioso magari è stato già teorizzato mille volte, perciò lo racconto per come lo intendo io. Il corpo religioso ti deve dire la verità. È il corpo di qualcuno che porta in sé l’esperienza e il vivere spirituale, è il corpo, con la sua anima, la sua mente, è un sistema sostanzialmente. Il corpo religioso è l’assunto per cui la religione debba essere vissuta a misura d’uomo, nel senso che ognuno, essendo diverso, una percezione della realtà diversa da quella di un altro, anche sensorialmente, corporalmente, è proprio una cosa che è naturale, normale, ed è un assunto. Ecco, il corpo religioso è l’assunto per cui la religione non può essere un blocco monolitico, ma qualcosa che si adatta a ogni persona giacché la persona abbraccia la religione. Le due cose si fondono e il corpo religioso porta con sé un’esperienza unica del vivere religioso, unica e spirituale“.
Questione del velo: è un obbligo, una volontà femminile o entrambi? Come si distingue, ovviamente sempre osservandolo da un occhio “occidentale”, una donna obbligata a indossare il velo da una che lo indossa per una precisa volontà? Peraltro affronti l’argomento anche in uno dei tuoi posti, spiegando come spesso il velo sia equiparato esclusivamente al burqa…
“Il velo è purtroppo sovraccaricato di significati, sia dalla Ummah che dalla civiltà occidentale, e spesso diventa difficile, anche per chi lo porta, governare tutto questo, perché subisci un sacco di pressing.
Ma il velo in realtà può essere tantissime cose: prima di tutto dobbiamo pensare che il velo non appartiene a una tradizione ideologica, soprattutto non riguarda solo le donne, perché coprire la testa è stato sempre interpretato, dalla maggior parte delle civiltà, come un simbolo di sacralità. In questo momento in tante zone del mondo le donne ebree stanno indossando un velo molto simile al nostro.
Il velo ha centomila significati, è il simbolo di uno status sociale, ad esempio: le sorelle del mio ex, di un paesino del Kurdistan, si velano dopo essersi sposate, proprio a mo’ di significante sociale. Ma di modi di portarlo ce ne sono a bizzeffe, di significati a bizzeffe, tutto dipende dalla persona, dalla famiglia, dal luogo, dal Paese, dall’interpretazione islamica maggioritaria, non è monolitico, anzi è particolarmente fluido, perché sotto il velo c’è sempre una persona e le persone non sono tutte uguali.
Per essere considerati musulmani è sufficiente recitare la Shahāda, la professione di fede, dopodiché il rapporto con Dio, il credo, si differenzia da persona a persona perché ogni persona è diversa, tutto è diverso, anche il velo.
Quello che alcuni non capiscono è che il velo, per molte donne, è anche una sorta di ribellione contro le imposizioni occidentali: mi vuoi vendere la crema per ringiovanire? Vuoi che mi vesta in un certo modo per apparire più sexy? Bene, io non mi arrendo a questa roba occidentale, il mio corpo non deve essere colonizzato dal capitalismo, voglio essere vecchia, cadente, e i vestiti me li metto come mi pare.
A ben vedere il velo è partito come una rivendicazione politica anticlassista: venne chiesto al Profeta di trovare una soluzione per le molestie che le donne subivano continuamente quando dovevano recarsi in bagno – un tempo, ovviamente, le persone non avevano bagni in casa – e la parola di Dio fu di mettere il velo alle donne, perché era simbolo di nobiltà, e nessuno si sarebbe azzardato a toccare una nobile. Il velo nasce non solo come indumento spirituale, ma come rivendicazione politica, ma, se da una parte è sopravvalutato, perché alla fine parliamo solo di un pezzo di stoffa, dall’altro rappresenta infinite possibilità. Può anche essere uno strumento di liberazione, tutto dipende da come usi lo strumento“.
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
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