La fragilità del machismo di Vladimir Putin, tra meme e Judo
La mascolinità nella sua accezione peggiore è, dopotutto, costruita e si può sempre smontare, fino a snudarne la natura estremamente vigliacca e meschina.
La mascolinità nella sua accezione peggiore è, dopotutto, costruita e si può sempre smontare, fino a snudarne la natura estremamente vigliacca e meschina.
Su google c’è un piccolo gruppo di immagini che racchiude l’essenza della propaganda personale di Vladimir Putin. Con una semplice ricerca e poche, pochissime invero, parole è possibile accedere all’idea che il presidente russo ha voluto che si diffondesse riguardo la sua persona.
Basta scrivere “Putin macho” per vedersi restituire fotografie di Putin a torso nudo con pantaloni mimetici che imbraccia un fucile, che cavalca un cavallo, che cammina in un ruscello a piedi nudi, che emerge da un bagno nel ghiaccio, che pesca, che nuota a farfalla o che atterra avversari nel dojo. Immagini che per anni sono state bollate come semplici immagini, allontanando gli osservatori, ma non tutti, dal loro peso sulla società russa e non solo.
Le immagini, le storie, i meme e le modalità espressive usate da Vladimir Putin sono, come nel caso di qualsiasi esponente di rilievo nel panorama politico, frutto del lavoro di spin doctor, ovvero esperti di comunicazione capaci di costruire ottimi discorsi tanto quanto, ed è questo il caso in questione, di elaborare precise strategie di propaganda.
Perché nel caso di Putin si sia scelta quest’espressione di virilità e tolleranza a pericolo, sforzo e dolore, è presto spiegato: il potere quando associato al maschile appare legittimo ed incontrovertibile, attingendo alle dinamiche strutturale di un sistema globale patriarcale l’idea dell’uomo forte, archetipico, scatena paura e reverenza. Esattamente quello che un dittatore desidera.
La strategia di Putin non è una novità, anzi, basti pensare alle immagini del duce mietitore, in cui Benito Mussolini mieteva a torso nudo il frumento. L’idea era quella di trasmettere un’immagine che instillasse negli uomini ammirazione, desiderio di emulazione e quindi consenso, e nelle donne desiderio, da tradursi sempre in consenso. L’immagine novecentesca del vero uomo, dell’uomo forte al sole, che affronta il lavoro è traslata in questo secolo attraverso le foto di propaganda politica di uomini forti e fortemente ricchi, perché anche la ricchezza è estensione della virilità e della forza in un mondo in cui il valore umano è rilevato in coincidenza con le concentrazioni di capitale, intenti a compiere azioni che destano stupore e fascinazione, al punto da essere condivisibili sui social.
La maschilizzazione del potere è un processo di tutela delle dinamiche di distribuzione del potere, si mantiene la convinzione che il potere spetti di diritti al gruppo sociale più privilegiato in modo da non rischiare redistribuzioni di tale potere e, quindi, la realizzazione di una decentralizzazione a favore di una maggiore equità. Alla maschilizzazione, spesso rinforzata anche con semplici luoghi comuni, detti e usi, si contrappone la femminilizzazione, quindi l’attribuzione di caratteristiche femminile a chi si ritiene avversario o inadatto al potere. Nelle società patriarcali, il pensiero dominante attribuisce al femminile, debolezza, cura e passività rinforzando la convinzione che gli stereotipi di genere siano elementi del reale incontrovertibili e non, per l’appunto, il frutto di una narrazione distorta ed iniqua.
La propaganda di Valdimir Putin attinge a questa percezione binaria e statica, collocando sempre sul polo opposto al proprio l’avversario politico. Esempio lampante, tragico e assurdo al contempo, ne sono i meme diffusi dall’agenzia stampa, un vero e proprio ufficio di propaganda, del regime russo relativi a Putin ed Obama in cui il presidente americano veniva mostrato intento a sorseggiare un garbato tè mentre Putin impugnava un boccale di birra, o ancora Obama che gioca a golf o siede su un divano per un talk show circondato da donne mentre Putin punta un arpione verso il mare aperto a bordo di un gommone.
E forse il peggio, un meme in cui si inneggia ancora alla vittoria, morale s’intende, di Putin su Obama paragonando una foto in cui Michelle Obama, indicata come Mrs. Obama, storce la bocca a ad una foto di Alina Kabaeva, indicata come Mrs. Putin, la ex ginnasta, modella e politica fidanzata con Putin. I corpi di queste due donne sono usati per determinare la forza, il potere e il prestigio dei due leader, le donne sono considerate mero oggetto e alla stregua di un mezzo di misura, inserite come argomentazione in quella argomentazione per immagini che è stata tanto funzionale alla propaganda putiniana da essere adottata dalla destra conservatrice americana come fonte di discredito mediatico delle politiche di Obama.
Non è quindi sorprendente notare che questo genere di propaganda bassa, rivolta ai social media, abbia subito un lieve arresto quando Donald Trump è stato eletto presidente. Un uomo ricco, sessista, omofobo e razzista, che ha sposato una donna molto più giovane di lui e la esibisce come un oggetto, altamente guerrafondaio e interessato a smantellare la NATO – un precedente che sembra essere svanito nelle analisi attuali ma che ha contribuito a dare nel tempo una dispercezione diffusa della NATO stessa che ha contribuito all’escalation di cui siamo tutti testimoni- al punto da intrattenere un colloquio privato con Putin a Helsinki, colloquio in cui nessuno sa cosa i due leader si siano detti.
La propaganda machista è un’espressione dell’ideologia che guida le relazioni internazionali di Vladimir Putin, basata sulla certezza dell’ipocrisia dell’occidente, volubile ed instabile ma anche male intenzionato, sulla necessità di ridurre l’influenza USA nel mondo ed infine sulla convinzione che l’uso della forza e la conquista siano un legittimo ed efficace mezzo di espressione della potenza di un paese. Non sorprende perciò che la violenza sia una costante nelle immagini e nella narrazione di Putin, violenza che si colloca esattamente in quell’ottica machista che si impone con forza esercitando una pretesa superiorità naturale che legittimi non solo il potere, ma anche i mezzi e le modalità con cui esso viene mantenuto.
Eppure, si potrebbe ragionevolmente replicare, molte persone in Russia non amano Putin, anzi lo detestano e detestano la sua campagna di disinformazione. Il senso di una politica machista però non è quello di costruire un consenso basato su amore e stima, bensì su timore ed eventualmente rispetto da parte di chi riconosce in lui il salvatore della patria. La paura è un elemento costante delle narrazioni iper-virilizzate, soprattutto nella pratica.
Il timore della violenza e le conseguenze del disobbedire, azione che in Russia è stata fatta coincidere con la manifestazione del dissenso, sono creatrici di consenso, una conformità estorta e un’approvazione di facciata hanno un effetto altamente pervasivo. Da un lato i cittadini vedono nell’altro quell’accettazione e la interpretano come reale, dall’altro pur leggendo un’eventuale manifestazione fittizia di consenso saranno sempre inibiti dalle ragioni che possono spingere un connazionale a temere il regime. La paura è contagiosa, si propaga e si instilla proprio in funzione delle reazioni altrui. Il fatto che oggi, nonostante le violente ripercussioni – arresti cruenti e carcerazioni in ambienti altrettanto cruenti – le persone scendono in piazza a manifestare, contro la guerra e contro Putin è significativo, superare la paura, indossarla e agire nonostante la sua presenza è un sintomo prezioso di delegittimazione del potere.
La proiezione di un sé violento e deciso, inamovibile e insindacabile, non è rivolta solo ai cittadini, al contrario, manda un segnale forte di contrasto, ai sistemi democratici, e di vicinanza, ai regimi affini. Non è un caso, anzi è propriamente intenzionale, che Putin durante la sua visita al Cairo abbia fatto dono di un Kalashnikov, un fucile automatico russo, ad Al-Sisi che ha ricambiato con una sontuosa cena sul Nilo. Armi, soldi e potere spesso parlano una lingua più basilare di quello che si è portati a pensare, le armi diventano oggetti imbibiti di significato politico e la spesa per una cena un forte segnale di accoglienza e allineamento. Non sorprende che la Russia sia il maggiore esportatore di armi nel continente africano, ponendosi in linea con regimi autoritari e supportando un flusso di armi laddove l’occidente non ha consolidato accordi o, più spesso, non è benvisto.
L’estremizzazione di un costrutto si fonda sull’oppressione di ciò che in quella specifica scatolina di genere non può rientrare. Politici femminilizzati – perché ai tratti attribuiti al femminile viene sempre data una connotazione negativa ed essenzialmente inadatta al potere – sono solo la punta dell’iceberg coriaceo della retorica russa, una narrazione che si trasla agilmente e brutalmente in pratiche legittimate de iure di repressione dei diritti umani.
L’avversariamento della comunità LGBTQ+ rientra in questo schema di valori centralizzati e omogenizzanti, a matrice cristiana e maschiocentrici. L’amore di un uomo per un uomo, in Russia, è illegale, come pure quello di una donna per una donna. Questo accade perché l’idea maschilista di un mondo binario non tollera coloro che nei propri progetti di vita non includono un uomo, men che meno coloro che invece contemplano relazioni omosessuali maschili, figurarsi la presenza di persone trans. La repressione della comunità è violenta e sbandierata nella sua costanza, usata come tassello accessorio nella propaganda putiniana che non vuole solo un’idea di Russia, ma anche un’idea di uomo Russo e di una società che ruoti attorno al suo maggior campione: Putin stesso.
L’uso della forza come mezzo di risoluzione delle controversie e di controllo è tipico della mentalità militarista che Putin condivide con gli Stati Uniti, – del cui machismo bisognerebbe scrivere trattati – un retaggio novecentesco duro a morire e profondamente intriso con la politica maschia della conquista del potere egemone, della supremazia assoluta, dell’unico pene nella stanza del potere. La guerra e le violenze ad essa annesse, sono espressione di un sistema che non crede nelle relazioni internazionali basate sul diritto e le scelte pattizie, bensì sono l’espressione dell’esercizio della volontà unica e a priori sull’altro. Le politiche coercitive interne ed esterne mirano ad eliminare e a confermare, a consolidare una visione unica del mondo che ha come vertice la volontà di un uomo solo.
Putin, nella sua attenta campagna, non manca di mostrare un altro lato tipico dell’archetipo machista, quello che in italiano chiameremmo pater familias, lo stesso alla cui diligenza venivano affidate decisioni e leggi, proprio perché si riteneva – e talvolta tuttora si ritiene- essere investito di una volontà ed una competenza maggiori di qualsiasi altro membro della famiglia e a cui ogni altro membro doveva conformarsi. Quella di Putin che nutre due cuccioli di alce con un biberon potrebbe sembrare una foto stonata nella serie di cui sopra, ma si vi colloca perfettamente mostrando un uomo capace di prendersi cura della nazione, le cui decisioni sono prese per il bene di tutti e che sono, in ultima analisi, le migliori possibili. Un padre, dopotutto, non nuoce ai suoi figli.
In quest’ottica, integrando l’angolatura di quest’analisi al casus belli ufficiale e alle ragioni della guerra meno palese, l’indipendenza politica dell’Ucraina, quindi la sua volontà – ora rassegnata – di entrare nella NATO e nell’UE, rappresenta una minaccia per la figura di Putin tanto quanto per la sua visione di sé stesso. La volontà di non sposare il disegno di Mosca è vista con risentimento e avversione. Per piegare Kyiv il maschile egemone di Putin ricorre all’unica modalità espressiva capace di mantenere l’immagine e l’idea che lui possa avere il potere di determinare il futuro dell’Ucraina: l’uso della forza. Prima come minaccia e poi come prassi, l’uso della forza come mezzo di interferenza con la sovranità nazionale, quindi le decisioni di uno stato, rappresenta nell’ambito della politica internazionale, l’agire del maschile competitivo, aggressivo e anaffettivo. Ciò che sta imponendo Putin non è unicamente una guerra, ma un vero e proprio atto di coercizione finalizzato alla subordinazione, retaggio di quella convinzione profondamente legata alla sua idea malsana di maschile che ritiene giusto qualsiasi mezzo per imporre il dominio e limitare le possibilità di scelta dell’altro da sé.
Ecco quindi che l’immagine di Putin allo stadio Luzhniki di Mosca si riempie di messaggi e significati. Dal giaccone di fabbricazione piemontese dal costo esorbitante, atto a simboleggiare che la ricchezza del presidente non è stata intaccata dalle sanzioni, al maglione bianco a collo alto, un colore il bianco tipicamente usato da politici e personaggi pubblici nei messaggi di scuse per ripristinare l’idea di innocenza e che, in questo caso, serve a mostrare il candore e la purezza delle azioni di Putin stesso, azioni determinate dal bisogno del padre di proteggere i cittadini russi dalle violenze in Ucraina, dalla propaganda omosessuale – come ha precisato il patriarca di Mosca Kirill – e dalla minaccia della NATO.
Come in molti casi meno collettivi e più individuali, in realtà, il machismo serve e difendere un’unica cosa: il potere egemone e privilegiato di un gruppo sopra tutti gli altri. Anche in questo caso, il machismo diventa l’espressione di un potere accentrato, coercitivo e violento che desidera essere insindacabile. La mascolinità di Putin è un fragile involucro, un guscio d’uovo bianco esposto per affascinare ed intimidire, ma che si frammenta ad ogni giorno di resistenza Ucraina, ogni volta che una persona russa usa un VPN per accedere alle notizie censurate, ad ogni protesta e con ogni manifestante. La mascolinità nella sua accezione peggiore è, dopotutto, costruita e si può sempre smontare, fino a snudarne la natura estremamente vigliacca e meschina.
Nata e cresciuta in Comasina, è una fotografa e una scienziata politica specializzata in relazioni internazionali e politiche globali, si occupa di disuguaglianze, espulsione sociale con un’ottica intersezionale e antispecista.
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