Non ti senti mai "abbastanza"? La colpa è della società quantitativa
Per bastarsi, bisogna comprare di più, mangiare di meno, mettere più tacchi, interagire di più, comprare i follower, ma perché? Siamo davvero noi a non essere abbastanza?
Per bastarsi, bisogna comprare di più, mangiare di meno, mettere più tacchi, interagire di più, comprare i follower, ma perché? Siamo davvero noi a non essere abbastanza?
Non ho abbastanza follower, non guadagno abbastanza, questo è certo, non sono abbastanza alta, mai stata, nemmeno abbastanza magra, non faccio abbastanza interviste né scrivo su abbastanza giornali, non ho scritto abbastanza libri, perché se non pubblichi non esisti e anche cinque libri in un hard disk diventano inconsistenti e assenti come tutte quelle cose non inquadrate e postate con la giusta luce.
Non ricevo abbastanza like o commenti, manco a dirlo, non posso contare le condivisioni perché so che non saranno mai abbastanza. Non c’è abbastanza spazio in questo posto, le pareti sono strette, ovali e si avvicinano ad alcuni più che altri. Forse non sono abbastanza brava, certamente è così. Altrimenti avrei abbastanza follower, abbastanza like, abbastanza vestiti, abbastanza soldi, abbastanza contatti e amici nei giusti contesti, abbastanza non amici in quelli che contano persino di più. Perché alla fine, forse, il punto è che non sono abbastanza.
Ruminare nella mente forme di misurazione come questa non è cosa inusuale, anzi, più ne parlo, più chiedo e ascolto, più noto che la maggior parte di persone ha delle rilevazioni in corso, tutte proiettate su un’unità esterna.
Abbastanza è una dimensione infausta, prende forma in un avverbio di quantità o in un aggettivo indefinito, dà il senso dell’essere sufficiente, del bastare, ma richiede, essenzialmente, una misura paragone per essere efficace. Hai abbastanza follower per pubblicare un libro, per esempio. O viceversa. Sei abbastanza magra, rispetto a chi o che cosa, la persona che lo rappresenta o lo standard. Abbastanza, il bastare, funziona se c’è un riferimento, una quantità rilevabile e rilevata che ne determina l’accettabilità.
E qual è il problema? È solo un avverbio. O un aggettivo. Il problema è che viviamo in un sistema di misure che determina il bastare non sulla base di qualcosa che qualitativamente basti, un paio di jeans per diversi anni per esempio, bensì su un qualcosa che quantitativamente sia enumerabile, abbastanza jeans da non dare l’idea di essere vestita sempre uguale.
L’esempio del jeans, è calzante, perché io ho solo un paio di jeans, per scelta. Perché a me basta così. Al resto, all’esterno però, mi sembrano sempre troppo usurati, troppo poco versatili, forse persino troppo larghi nella forma e nel contenuto. Le vetrine me lo dicono chiaramente, che sono esageratamente pochi, che non bastano. Mi bisbigliano, rinnovandosi ad un ritmo che non posso nemmeno fingere di seguire con la testa, che nelle foto si vede che non sono abbastanza. Anzi, che sono davvero troppo pochi, inadeguati.
La soluzione, per bastarsi, la urlano in silenzio e non solo i manichini, ma anche i feed degli influencer, prima ancora le foto delle persone famose sui giornali, il numero di libri degli autori, gli idoli delle folle, le cose che si possiedono quando si ha abbastanza. Per bastarsi, bisogna comprare di più, mangiare di meno, mettere più tacchi, interagire di più, comprare i follower, partecipare ai gruppi di scambio dei like – ogni giorno in migliaia di chat telegram partono ondate di mi piace, basta inserire il link del proprio post e lasciare tanti like, casuali, quanti se ne vogliono ricevere.
Dopo una certa soglia, o una certa spesa, ci pensano direttamente le agenzie a investire del tempo in un mi piace che non apprezza ma gonfia – e ancora mettere più foto, comprare più corsi privati, lavorare di più per compare una cosa che non serve ma che serve perché gli altri ti vedano come una persona che ha abbastanza. E senza Iphone da mille euro non hai certamente abbastanza. E quindi la foga corre e l’ansia la segue.
In un sistema dove anche la classe media ha perso i suoi privilegi, lavorare per sopravvivere non è più l’unica crudeltà. Bisogna lavorare per essere considerati abbastanza. Altrimenti ci vedranno incompleti e non bastanti? Oggi che comprare una casa è virtualmente inaccessibile, avere la t-shirt di Fendi è un dovere. Oggi che il denaro scorre in maniera sempre più palesemente concentrata verso quei soliti palmi gonfi e aperti, quelli che appartengono a chi emana la determinazione del bastare, l’accumulo di denaro e di cose numerabili è l’ultima impresa.
L’idolo è chi una Tesla la compra per noia, chi ha un milione di follower e non si cura nemmeno di stare attento alla luce nelle foto o alla grafica del post, chi pubblica un libro per venderlo perché venderà abbastanza copie.
Nella società quantitativa ci sono piramidi di cose ammucchiate freneticamente, perché la somma produce sempre più del contenuto. Perché conta stare sulla cima mobile, e sempre più bassa di quella di qualcun altro, rosicchiando le piramidi altrui perché la nostra appaia più grande e gli altri, quelli che hanno abbastanza, ci riconoscano e invitino al banchetto delle tombe immense.
E tutti gli altri, i veri tutti, quelli che possono fare piccole piramidi perché lo stipendio in casa è uno, perché non possono passare un’ora a mettere i like ogni giorno, perché internet non funziona bene, dopotutto la fibra arriverà l’anno prossimo, perché ad alcuni si toglie più che ad altri, perché l’accumulo dei pochi è un furto ai molti, perché per essere così bella e magra e truccata devo morire, in qualche modo, di fame, tutti gli altri, questi altri, non sono considerati abbastanza ma nemmeno considerati.
Servono però perché è nel loro, nel nostro, desiderio che esiste l’idea che l’abbastanza sia desiderabile. Non è un fatto di natura, non è inevitabile, è un insegnamento, una dottrina culturale che ci viene tramandata, che nasce e prospera nell’invidia e nel senso di inadeguatezza. Nella convinzione che avere meno significhi avere poco e che quel poco non sia dignitoso. Ma di base non lo è e non lo sarebbe, se non fosse che un sistema quantitativo ruba la dignità e la rende inaccessibile a chi non è considerato, a tutti gli effetti e con tutti i crismi, abbastanza.
Perché siamo noi a non essere abbastanza? Non sarebbe forse più opportuno vedere che è il sistema a non esserlo? A non bastare. A non essere sufficiente per tutti quelli che lo compongono. Non è lui, forse, da sistemare, da smontare e rompere?
E se allora lo sollevassimo dai suoi compiti per inadempienza strutturale, se lo cestinassimo perché non ha fatto abbastanza, anzi forse proprio perché ha fatto abbastanza al punto da distruggere la nostra percezione identitaria ed erodere il diritto universale alla gioia, alla sicurezza, alla vita, all’accoglienza, all’esistere liberamente, allora avremo rotto l’idea di che nulla basti se non in una quantità esagerata, anzi, forse smetteremo persino di contarci come monete e arriveremo a guardarci come persone.
In un nuovo mondo che sia qualitativo e non quantitativo, che non sia punteggiato di pustolose piramidi ingorde, ma di una genuina distribuzione del tutto per tutti. Magari su un pianeta che avrà la possibilità di assestarsi una volta interrotta la catena dell’ingordigia produttiva e consumistica. Magari, senza che una persona sia valutata per il suo peso in follower o denaro, ma solo ed unicamente come persona.
Nata e cresciuta in Comasina, è una fotografa e una scienziata politica specializzata in relazioni internazionali e politiche globali, si occupa di disuguaglianze, espulsione sociale con un’ottica intersezionale e antispecista.
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