Il microattivismo può salvare il mondo (e la salute mentale di chi lo fa)?

Il microattivismo è una forma di attivismo che si sviluppa attraverso piccole azioni quotidiane volte a sostenere cause sociali di diversa natura. A differenza dell’attivismo “tradizionale”, declinato in manifestazioni di piazza, assemblee e proteste, il microattivismo predilige, nella maggior parte dei casi, altri canali. In primo luogo, quelli social.

Infografiche accattivanti, caroselli ordinati e color pastello, reel tematici… non c’è limite alla fantasia quando si tratta di informazione, soprattutto quando quest’ultima è veicolata mediante i social network (Instagram in primis).

E proprio i social sono ormai divenuti la sede precipua del microattivismo: una forma di attivismo che procede mediante piccole azioni quotidiane, ponendo in luce questioni di primaria rilevanza, promuovendo il dialogo tra i fruitori delle pagine che pubblicano le news e/o gli approfondimenti e tentando, in generale, di coinvolgere sempre più persone e di far abbracciare loro la causa che viene promulgata, dal femminismo alla lotta al razzismo, dal cambiamento climatico alla questione palestinese.

Ma come si sviluppa il microattivismo e quali sono le sue dinamiche? Scopriamone i dettagli.

Che cos’è il microattivismo?

Come accennato, il microattivismo è una branca dell’attivismo che si sviluppa attraverso piccole azioni comunitarie volte a sostenere cause sociali di diversa natura. A differenza dell’attivismo “tradizionale”, declinato in manifestazioni di piazza, assemblee e proteste, il microattivismo predilige, nella maggior parte dei casi, altri canali. In primo luogo, quelli social.

Condividendo post dedicati a specifici temi di interesse e approfondimenti, infatti, i microattivisti sono in grado di connettere persone, comunità e gruppi che hanno opinioni identiche o avverse, dando, così, luogo alla possibilità di un dibattito – se pur online – prolifico e vicendevole.

Questa forma di attivismo in “piccola scala”, tuttavia, ha dei riscontri anche offline, tramutandosi in volontariato (forse la versione più diffusa di microattivismo), donazioni (non solo monetarie, ma anche di oggetti e beni di prima necessità: si pensi all’Ucraina e all’emergenza immediatamente successiva allo scoppio della guerra), petizioni e, nel caso in cui sia possibile, anche investimenti più o meno sostanziosi.

Alla base vi è sempre la stessa dinamica: dedicare parte del nostro tempo a una causa cui teniamo particolarmente, rendendoci, in questo modo, parti attive di un processo che non riguarda solo noi, ma anche il resto della comunità.

Benefici e vantaggi del microattivismo

Proprio per tale motivo, ne deriva, dunque, che i benefici del microattivismo siano molteplici. Tornando alla forma di attivismo online, il primo e più importante vantaggio scaturito dalla lotta digitale è unire, in un’unica, grande rete, tutte le persone che vogliono contribuire al dibattito, anche se distanti geograficamente e/o culturalmente.

In questo senso, il microattivismo funziona come un grande “collettore” di individui che desiderano condividere la propria opinione e trovano, nelle pagine di informazione o divulgazione, il luogo ideale in cui comunicare con gli altri circa un medesimo argomento.

E non solo: l’attivismo digitale ha anche il grandissimo vantaggio di attirare persone che, altrimenti, non sarebbero venute a conoscenza di un certo tema, garantendo, così, una libera circolazione delle informazioni e una capillarità delle stesse non raggiungibile diversamente. Merito anche del tipo di post scelto, come i caroselli riepilogativi e le infografiche.

Come precisa la giornalista Viola Stefanello:

Per gli attivisti, le infografiche hanno moltissimi vantaggi: permettono di raggiungere utenti che altrimenti non si interesserebbero a un certo tema, e forniscono una piattaforma a voci che raramente vengono interpellate dal giornalismo mainstream. La speranza è quella di rendere l’attivismo più accessibile, dando a persone altrimenti poco politicizzate qualche strumento in più per contribuire a movimenti di cui condividono il messaggio e ispirando la gente ad attivarsi anche offline, scendendo in piazza e organizzandosi.

Inoltre:

Queste informazioni in pillole sono utili anche per chi non ha i mezzi – economici o in termini di tempo – per approfondire ulteriormente questioni che pur stanno loro a cuore e raggiungere le persone con posizioni più radicali rispetto a quelle proposte dalla maggior parte dei media.

Forme di microattivismo e rischi

Come nel caso dell’attivismo in senso lato, le cause per cui combattere sono innumerevoli. Dalle guerre combattute in tutto il mondo e le cristi conseguenti (Israele-Palestina, Libano, Ucraina e similari) alle questioni di genere (femminismi, femminicidio, gender pay gap, catcalling etc.), dal cambiamento climatico al razzismo sistemico, fino alla salute mentale e alle energie rinnovabili, ogni ambito della nostra società è potenzialmente oggetto di dibattito, divulgazione e approfondimento.

Vi è, però, un risvolto della medaglia. Come spiega Reattiva:

Come attivisti siamo spesso deficitari: ci mancano alcune competenze, conoscenze e risorse per raggiungere obiettivi di cambiamento sistemici. Corriamo quindi un grosso rischio: combattiamo contro gli attuali modelli di sviluppo sfruttatori (del pianeta e delle persone), ma siamo inefficaci nel lungo termine. Spesso portiamo avanti battaglie in modo frammentario, disperdiamo energie e rischiamo di fare noi stessi ‘bla bla bla’. Le nostre battaglie hanno un basso impatto in termini di cambiamento e quindi ci sentiamo delusi o demotivati.

Il pericolo principale è, quindi, quello di un generale appiattimento dei contenuti: sebbene lo scopo sia quello di informare un numero più ampio possibile di persone e diffondere conoscenza, la brevità e l’incisività richieste dai mezzi utilizzati rischiano di svuotare i contenuti stessi, offrendo poche chiavi di lettura e semplificando – a volte troppo – le questioni messe in luce, spesso costituite da idee complesse e difficili da esplicare, soprattutto se non si è esperti del tema.

Perciò, continua Reattiva:

Affinché l’attivismo possa generare un cambiamento duraturo e consistente, è necessario che si armi di competenze diversificate, di tanto studio e di un’ottima organizzazione. Bisogna dotarsi di una struttura di capacità professionali solide: aprire gli orizzonti, capire il nostro ruolo all’interno della comunità e quali obiettivi si vogliono raggiungere.

Facile a dirsi, molto più complicato a farsi.

Microattivismo e salute mentale

E proprio tale dispersione di temi, cause, lotte e questioni sociali da affrontare è sovente causa di malessere in chi, il microattivismo, lo svolge in prima persona. La causa di tale malessere consiste, nella maggior parte dei casi, nella pressione avvertita dagli attivisti da parte degli utenti delle pagine di cui sono amministratori.

Nello specifico, come precisa Olivia Yallop, autrice di Break the Internet (il primo studio completo sulla cultura degli influencer e sull’economia dei creator), su i-D:

Dopo il 2020, la divisione (sempre in qualche modo deformante) tra il nostro sé online e la nostra identità offline è completamente crollata. La possibilità che tu possa pensare o fare qualcosa senza postarlo non è contemplata. Di conseguenza, credo che abbiamo raggiunto un punto di non ritorno della cultura di Internet: il significato dell’azione online ha superato il suo equivalente fisico, la condivisione online è ora l’attività primaria, tutto il resto cade in secondo piano.

Per questo motivo, molti influencer dediti al microattivismo sono talvolta demonizzati e criticati perché non sono portavoce di tutte le problematiche che interessano la nostra attuale società.

Come spiega sempre i-D:

[Ma] tralasciando quanto un gesto online possa sembrare d’impatto rispetto a un’azione in real life, fare vergognare le persone al punto da costringerle a parlare di ogni singola causa o problema del mondo è una dinamica tossica. In primo luogo, perché la scelta di non esprimersi sulle proprie piattaforme digitali non implica necessariamente un disinteresse o una mancanza di azione reale; in secondo luogo, perché non tutt* hanno i mezzi o l’inclinazione per impegnarsi in un’attività di militanza sociale. Per alcune persone, questo è dovuto al privilegio dell’ignoranza, ma per altre, specialmente chi detiene un basso reddito, la disponibilità ridotta di tempo e risorse.

Il risultato di tale confusione e di tale marea di informazioni è una sensazione costante di ansia, inadeguatezza e angoscia, che può condurre molti dei microattivisti a rinunciare alle proprie azioni quotidiane di divulgazione a causa dello stress emotivo causato dalle aspettative irrealistiche e dall’urgenza di dover affrontare e discutere di tutto ciò che accade intorno a noi.

Come racconta l’attivista Daze Aghaji:

Questo sistema carica un’ansia reale sulle persone che non hanno la possibilità, o non si sentono in grado, di affrontare così tanti problemi, perché, specialmente dopo questi ultimi due anni, stiamo tutt* provando una costante stanchezza emotiva. È così che si arriva a provare una sensazione di disperazione e di impotenza di fondo, perché è come se il peso del mondo fosse troppo da portare.

La prossima volta che ci chiederemo perché un certo/una certa attivista non parla di un determinato argomento, allora, soffermiamoci un attimo a pensare e mettiamoci nei suoi panni. E, magari, chiudiamo i social e scendiamo in piazza.

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