"L'uomo vero secondo instagram": i social e gli stereotipi di genere
Sui social c’è una forte continuità, sempre diluita dai gusti personali, tra ciò che viene proposto agli uomini e ciò che viene proposto alle donne. Ed è un problema.
Sui social c’è una forte continuità, sempre diluita dai gusti personali, tra ciò che viene proposto agli uomini e ciò che viene proposto alle donne. Ed è un problema.
Ricordo che diversi mesi fa un brand di prodotti per le pulizie ecologici aveva deciso di contattarci su Instagram per proporci una collaborazione. Tra le richieste che ci erano state fatte, cose come numero di visualizzazioni nelle storie o ancora numero complessivo di interazioni sui post, una spiccava in maniera particolare : la richiesta di indicare la distribuzione di genere degli utenti agglomerati nella categoria follower di always ithaka.
Un dato che non condividiamo per principio ma che subito ha indicato quanto il genere sia considerato fondamentale nella vendita, persino di un prodotto che ha velleità ecologiste. L’uomo vero, secondo i social e le aziende produttrici, non pulisce e certamente non lo fa con prodotti ecologici. I detersivi vengono venduti alle donne con pubblicità pensate per le donne e per essere fruite da loro, cavalcando gli stereotipi di genere, solide fondamenta di una categoria di consumo. I social media, dal canto loro, non fanno eccezione, anzi, hanno un impatto reale e tangibile sul genere, gli stereotipi e i ruoli ad esso connessi.
I social media ci vedono in un modo specifico derivato dalla loro struttura: siamo utenti le cui azioni devono essere registrate e convertite in dati perché l’algoritmo possa adattarvisi al meglio.
Talvolta procede sfruttando la casualità, quindi offrendoci spunti e stimoli per capire cosa effettivamente attiri la nostra attenzione, ad esempio inserendo un’immagine randomizzata, ma pur sempre affine ai nostri gusti, nel nostro feed, in modo da valutare le nostre reazioni ad essa, registrarle e catalogarle per ottimizzare l’offerta.
Un’offerta che non riguarda solo noi, come singoli utenti, ma noi come gruppi umani. Infatti, l’algoritmo, nel suo costante catalogare, non si limita a registrare ciò che apprezziamo ma ciò che apprezziamo in quanto individuo con caratteristiche specifiche, quali età, religione, genere dichiarato alla piattaforma, etnia, provenienza, classe e stato psico-emotivo.
Le proposte adattive dell’algoritmo non sono casuali nel senso di accidentali, piuttosto sono casuali nel senso di determinate in maniera incerta (si tratta pur sempre di tentativi) ma comunque determinata da una volontà terza, quella dell’algoritmo stesso il cui scopo è ottenere più tempo davanti allo schermo.
Gli algoritmi, dopotutto, sono realizzati seguendo una certa codifica di chi o cosa siamo, più propriamente di come siamo interpretati a livello micro e macro sociale. Sfortunatamente, ma non casualmente, questo comprende le rigidità del genere, dei ruoli, del binarismo e dell’oppressione di genere. Instagram, ma anche gli altri social del gruppo Meta, ci categorizza come uomini o donne già al momento dell’iscrizione attribuendo alla nostra identità digitale tutta una serie di attribuzioni che viaggiano ancorate all’idea del genere, tant’è che aprendo il menù a tendina da creator è possibile scoprire la distribuzione di genere della propria utenza, quindi in che percentuale i generi contemplati seguono il tal profilo.
Un dato richiesto spesso dalle aziende, perché se l’aneddoto non fa la statistica e men che meno la scienza, la continuità nelle richieste pervenute a noi e alle altre persone che di professione svolgono il lavoro di influencer è indicativa di una tendenza.
Nel momento in cui le aziende lavorano sulla base di questi dati genderizzando la propria offerta rinforzano le consapevolezze dell’algoritmo, ottimizzando ulteriormente l’indirizzamento di genere, ovvero a chi proporre quel contenuto specifico. Se un’influencer seguita principalmente da donne propone al proprio pubblico unicamente prodotti stereotipicamente pensati come femminili, sta attraendo il tempo delle proprie utenti su un contenuto declinato su base genere, offrendo all’algoritmo una miniera di dati da cui derivare uno schema per indirizzate l’offerta di contenuti nei confronti delle persone che rientrano in quella medesima categoria.
La sezione esplora è quella in cui l’algoritmo cerca di comprendere e poi verificare i nostri gusti. I like che abbiamo sparso, la natura dei contenuti da noi prodotti, quelli su cui abbiamo indugiato di più gli permettono, costantemente, di selezionare cosa proporci e quando farlo per ottenere il massimo dalla nostra presenza sul social. Infatti, la relazione proposta di contenuto- utente realizza il suo massimo quando si risolve in una qualche forma di acquisto, sia esso un semplice like, un follow o una transazione economica vera e propria.
C’è una forte continuità, sempre diluita dai gusti personali, tra ciò che viene proposto agli uomini e ciò che viene proposto alle donne. Nel caso delle persone che l’algoritmo percepisce come uomini la tendenza è quella di mostrare video e foto di automobili e moto, reel sul successo e come ottenerlo, aforismi sulla forza dell’uomo o del padre che ama senza piangere, infografiche che spiegano come replicare il percorso dei magnati wall street, video e tutorial da palestra e video divertenti secondo un’idea di divertimento che spesso comprende incidenti, stunt finiti male, soldi che svolazzano e persone troppo ubriache. In quasi tutti, presto o tardi, compaiono corpi di donne sessualizzati.
Le donne, invece, ricevono una mole di tutorial di make up e cura dei capelli, reel su nail art facilmente replicabile a casa propria, consigli – sempre non richiesti – sul miglior modo per abbinare un jeans o altri capi secondo stagione, infografiche con i pratici sei esercizi per dimagrire o video in cui una persona, tendenzialmente magra, insegna alle persone con corpi non conformi come nascondere il proprio corpo.
Questo è lo standard, a cui si applicano variazioni sul tema. Variazioni rese sempre più precise dal tempo che offriamo all’algoritmo per conoscerci. L’offerta si ammortizza sui gusti, sulle espressioni attive di apprezzamento e sull’assenza di interesse. I social, però, non sono entità passive, sono piuttosto strumenti attivi interessati a macinare risorse dalla nostra vita digitale e per farlo devono ricorrere a processi di ottimizzazione capaci di indirizzarci verso l’ultimo stadio del funnel, l’imbuto del marketing che si compie nel momento dell’acquisto.
La presenza di rappresentazioni e idee a priori stereotipate non funge solo da ennesimo rinforzo, ma da vero e proprio intervento correttivo. La modificazione comportamentale si allaccia alla categorizzazione sociale ed economica allo scopo di rendere prevedibili e stabili le azioni degli acquirenti. Per farlo, si impegna a condizionare, quindi determinare, ciò che gli utenti percepiscono come un bisogno. I clienti dei social – i privati e le aziende, non gli utenti – non pagano per sapere cosa voglia il loro pubblico di riferimento, bensì perché tale pubblico impari a desiderare ciò che offrono.
L’effetto è quindi una solidificazione costante della separazione dei generi e della maschilità tossica. Non solo, la tendenza, intrinseca ai social media, alla comparazione spinge gli utenti a conformare la propria immagine e la propria presentazione di sé a quello che viene percepito essere lo standard. A livello culturale la dottrina dei generi, del binarismo e dell’eteronormatività ne risulta rafforzata. La persistenza dei ruoli di genere, dal linguaggio all’idea del sé, si riflettono nelle modalità con cui gli individui si propongono on-line all’attenzione degli altri utenti. Ne risulta una completa esclusione delle identità non gender conforming, sottoposte anzi a uno stress ulteriore capace di influire notevolmente sulla psiche.
In uno studio realizzato da Susan Herring, presso l’Indiana University si evince che “gli adolescenti [sempre categorizzati come maschi e femmine] differiscono anche nella auto-presentazione testuale : le scelte linguistiche dei ragazzi riflettono l’assertività sia nello stile che nel tono, mentre le ragazze sembrano mirare a compiacere i ragazzi e facilitare l’interazione sociale. Allo stesso modo, nelle loro presentazioni visive, le ragazze scelgono spesso immagini che indicano il desiderio di apparire sessualmente attraenti, mentre per i ragazzi gli schemi sono meno chiari.
Per entrambi i genere si può vedere che le scelte di genere delle immagini per la presentazione di sé riflettono la rappresentazione sessualità proposta dai media.”. I social, chiaramente, ripercorrono e rinforzano il monopolio del desiderio, al maschile sta provarlo mentre al femminile suscitarlo, in un continuo depotenziamento dell’autonomia femminile.
Ma non è tutto, la genderizzazione dei social media è rilevata anche nella frequenza di attacchi, verbali e psicologici, ai danni delle donne. Il rinforzo verso una maschilità imperativa, predatoria e violenta viene introiettato al punto da produrre statistiche di frequenza nell’uso di parole notoriamente stigmatizzanti nei confronti delle donne, slur sessisti, ma anche verso quegli stereotipi sminuenti e ancorati alla negazione delle capacità intellettuali femminili. Usi e comportamenti che vengono immagazzinati e riprodotti anche dalle donne, colpite da forme sempre più subdole di sessismo introiettato.
I social spesso si presentano come un ambiente innovativo dal punto di vista delle relazioni di genere, ma se e quando lo sono è per merito e impegno degli utenti che abitano questi ambienti. Algoritmi e modalità di utilizzo del social, invece, sono finalizzati a scopi per cui la parità di genere non è ideale, ma non solo. I social di Meta producono una realtà simil-parallela, digitale, in cui l’utente sceglie cosa e come mostrarlo, quale parte di sé condividere in base ai condizionamenti e a ciò che percepisce possa essere presentato e visto come desiderabile da tutti gli altri.
L’uso del nostro bisogno di interagire, di piacere, di essere parte di qualche cosa, è in realtà un abuso finalizzato a vederci prodotti, identità e comportamenti che ci siano riproducibili e ci rendano prevedibili. L’uomo stereotipato, che non deve chiedere mai, che deve dimostrare forza e per farlo usa l’imposizione fisica e il denaro, è uno standard molto produttivo per il capitalismo, qualcosa che difficilmente accetterebbe di abbandonare. Lo stesso vale per la controparte che deve essere necessariamente asservita al modello di maschile dominante, in modo da occuparsi di quelle sfere di cura necessarie a mantenere in essere la società di cui il capitale non si occupa.
Il tutto si risolve quindi in un costante attacco alle nostre identità personali, alle nostre espressioni di genere e alla nostra libertà di apprezzare qualcosa. Dopotutto, siamo davvero sicuri che l’ultimo like lasciato abbia ripagato un contenuto verso cui nutriamo un reale interesse? O piuttosto, non era un’azione che abbiamo compiuto automaticamente sullo stesso ripetuto contenuto indirizzato in base al genere che il social ritiene sia espressione del nostro sé?
Nata e cresciuta in Comasina, è una fotografa e una scienziata politica specializzata in relazioni internazionali e politiche globali, si occupa di disuguaglianze, espulsione sociale con un’ottica intersezionale e antispecista.
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