Avete mai guardato qualcosa – un film, una serie, ma anche seguito un evento – solo per il gusto di criticarlo? Siamo sicuri di sì. Quello che avete fatto ha un nome: si chiama hate-watching e la psicologia ci spiega perché ci piace così tanto.

Cos’è l’hate-watching?

Si parla di hate-watching quando una persona decide di guardare uno spettacolo o un film che sa già non gli piacerà, al solo scopo di poter parlare di quanto non gli è piaciuto, sia durante il programma (sui social media) che dopo.

Hate-watching, film e serie tv

Quello del hate-whatching è un fenomeno molto comune, che è sempre stato presente ma che si è diffuso enormemente assieme alla possibilità di accedere con un solo click a una pletora enorme di contenuti e alla necessità delle case produttrici di sfornare sempre più prodotti in tempi sempre più stretti per soddisfare il pubblico.

I commenti negativi del pubblico, però, non sono necessariamente un male per questi prodotti, anzi. In alcuni casi, l’hate-watching, diventato esercizio pop collettivo da praticare insieme in una sorta di ritualità condivisa, ha segnato la fortuna di alcuni film o serie TV che sarebbero stati rapidamente dimenticati se avessero dovuto fare affidamento solo sulla loro qualità. Un esempio è la serie TV Netflix Emily in Paris o il film 365 giorni, criticatissimi e stroncati ma visti da tantissimi utenti.

In questo senso, anche l’ultima stagione di Game of Thrones ha subito un processo collettivo di hate-watching: ormai delusi dalla piega presa dalla serie e nonostante le continue delusioni, infatti, fan e non hanno continuato a vedere la serie ispirata ai romanzi di George R.R. Martin non solo per affetto, ma per poter dichiarare pubblicamente la propria insoddisfazione.

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Hate-watching e social network

Se la diffusione di piattaforme di streaming on demand ha favorito la crescita dell’hate-watching, ancora di più lo hanno fatto i social network.

Quello del commentare negativamente un film, una serie o un programma televisivo è infatti un rito condiviso, compiuto non solo per il gesto in sé ma piuttosto per il gusto di farlo in un contesto digitale pubblico, dove altri possono vedere – e commentare a loro volta – e dove si può trovare nel confronto e nello scambio con gli altri riprova delle proprie convinzioni.

Psicologia dell’hate-watching: perché piace tanto?

«Ma se non ti piace non potresti semplicemente non guardarlo?» rispondono alcuni commentatori esasperati di fronte all’ennesima critica. Secondo la psicologa e life coach Grace McMahon, non è così semplice. Non solo è psicologicamente dimostrato che ci piace molto lamentarci delle cose, ma l’odio reciproco rafforza i legami relazionali come nient’altro, per questo l’aspetto performativo del hate-watching è fondamentale. «Together we hate and in this hate we are together» (insieme odiamo e in questo odio siamo insieme), un detto utilizzato per spiegare il potere dell’odio comune a livello sociale e politico, può adattarsi perfettamente anche a spiegare cosa ci spinge a guardare qualcosa che non ci piace solo per dire che non ci piace. 

Quando guardiamo qualcosa che sappiamo non ci piace, di solito c’è un flusso di tweet, post, aggiornamenti di stato, che discutono della scarsa qualità dello spettacolo, il che ci fa sentire supportati nelle nostre convinzioni, anche se è online comunità, ci sentiamo meglio con noi stessi.

Non solo: ad entrare in gioco è anche un meccanismo di proiezione che ci fa sentire meglio con noi stessi, soprattutto in un’epoca in cui il giudizio e i commenti di odio non sono accettabili. Quando le nostre insicurezze vengono triggerate, infatti, possiamo proiettarle sui personaggi di uno show o di un film. In questo caso, l’hate-watching

funge da capro espiatorio, e possiamo incanalare la nostra energia negativa, che potrebbe dipendere da insicurezze o semplicemente essere legata al cattivo umore, in qualcosa che ci permette di rilasciare un po’ di tensione, online o nella realtà.

I rischi dell’hate-watching

Scaricare un po’ di tensione è positivo e finché l’hate-watching rimane un guilty pleasure non c’è da preoccuparsi: quando la necessità di criticare assume tratti costanti o, peggio, esasperati, però, è il momento di chiedersi se questo non sia, appunto, un capro espiatorio per qualcosa che richiede di essere affrontato. Lo stesso vale quando “l’odio” diventa Odio e il commento negativo è solo una scusa per diffondere opinioni violente.

C’è anche un altro rischio, a cui si pensa meno: se continuiamo a guardare show brutti o che non ci piacciono solo per il gusto di dire che fanno schifo, infatti, a risentirne sarà la qualità complessiva degli show o, come già è successo, prodotti di qualità che magari non vengono rinnovati per lasciare spazio a contenuti peggiori ma più gettonati.

Se parliamo di rischi legati all’hate-watching, però, non possiamo non menzionare un altro aspetto: quelli delle compagnie che usano questo fenomeno come strumento di business seguendo la vecchia regola “bene o male purché se ne parli”. Scegliere di diffondere consapevolmente contenuti di bassa qualità per stimolare i critici da social, infatti, può pagare sul breve periodo, ma rischia di avere effetti negativi.

Come spiega l’articolo “Can “Hate-Watching” be a Cash Cow for Media Companies?”, in ballo ci sono la reputazione del brand, la sua coerenza, la fiducia degli inserzionisti e, non ultimo, il suo obiettivo finale.

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