Il capitale ci vuole magre, ben truccate e madri
Il capitale ci vuole magre e madri, macchine da sesso e compagne passive, con portafogli sgonfi e solitudini abissali. E punisce ogni tentativo d’esistenza non conforme.
Il capitale ci vuole magre e madri, macchine da sesso e compagne passive, con portafogli sgonfi e solitudini abissali. E punisce ogni tentativo d’esistenza non conforme.
Secondo alcuni studi recenti le donne grasse sono pagate meno delle colleghe magre. Lo scopro leggendo un articolo di The Economist che, nostro malgrado, trae flebili conclusioni attribuendo colpe e conclusioni sbagliate, a partire dal sottotitolo in cui asserisce che la scelta più razionale per le donne ambiziose è quella di essere magre. Perciò mi siedo per riprovare a dare una cornice al contesto e al dato, perché è vero che le donne grasse sono pagate meno nel nord del mondo. Non è una casualità, ma una scelta di condizionamento retributivo e la richiesta di conformarvisi passivamente né è solo l’ultima prova.
L’idea di conformità è il prodotto di un sistema che lavora e ragiona per categorizzazioni rigide. Compartimentalizzare le persone permette di trasformarle da individui ad oggetti. E quindi, di disporne. Socialmente vi è l’idea che sia lecito giudicare i corpi degli altri, quasi come se la loro presenza li rendesse automaticamente pubblici. Manca infatti quel rispetto della dimensione del sé, dello spazio del corpo come luogo inviolabile e intoccabile, personale.
Rendendolo terreno condiviso, invece, è possibile usare critiche, giudizi e standard come strumenti di condizionamento o punizione. E sia chiaro che questo processo colpisce in maniera maggiore le donne. I copri delle donne sono misurati e prezzati in base a una mistura di sguardo maschile e necessità di mercato. La semplice esistenza ed espressione del sé sono negati, incanalati piuttosto verso un codice d’esistenza stabilito all’esterno che, tendenzialmente, propone canoni impossibili e ambizioni estetiche particolarmente costose in termini di tempo, energia e denaro. Si tratta di una tendenza crescente e adattabile, che trova modi espressivi ogni qualvolta il dibattito femminista riesce a snudarne i meccanismi oppressivi.
Il trend, ad esempio, è rispecchiato dal rinnovo del mondo delle diete che ora, con accattivanti slogan cercano di vendersi come accompagnamenti a una vita salutare, quando di fatto sono le stesse prescrizioni alimentari restrittive camuffate da imbellettamenti. Il femminismo liberale in questo ha offerto il fianco, lasciando che la capitalizzazione della bellezza continuasse ad essere accettata.
Si tratta infatti di sessismo grassofobico, non di salutismo (altro orpello retorico dietro cui si nasconde la grassofobia). La dieta come condizione transitoria per modificare il corpo profila in maniera preponderante le donne, proprio perché la vigilanza sistemica necessita di controllarne e comprimerne i corpi in modo da mantenerne la condizione di subordinazione. Per controllare le donne, il patriarcato e il capitale cercano di controllarne il corpo.
Infatti, sempre secondo lo studio di cui sopra, gli uomini grassi ricevono il medesimo stipendio dei colleghi dai corpi considerati conformi, quale che sia il ceto o la fascia di reddito. Le donne non hanno diritto alla non conformità, mentre gli uomini non hanno di che preoccuparsi. Il che non significa che un uomo grasso non subisca forme di discriminazione, sarebbe quantomeno miope sostenerlo, ma semplicemente che la forma del corpo non ha ripercussioni economiche. E dunque non inficia la sua dipendenza e, per estensione, la sua autodeterminazione.
Ma perché tutto questo impegno? Semplicemente perché un corpo viene considerato in base al valore da esso estraibile e i corpi delle donne sono da sempre l’oggetto di desiderio del capitale. Infatti non si tratta di estrarre mera prestazione lavorativa, ma anche futura forza lavoro, cercando al contempo di ottenere un consumo (ne sono la prova i 6 euro di media giornaliera investiti in cosmesi) massimizzato da accorpare alla mercificazione della forma del corpo femminile. Il sesso vende e canonizzarlo in un ideale desiderabile lo rende ancora più redditizio.
Due piccioni con un fava (a calorie ridotte possibilmente) perché oltre a rendere le donne oggetto di desiderio, l’ipersessualizzazione è un forte e collaudato strumento di controllo. Se un corpo ha elementi considerati ipersexy questi andranno censurati e coperti, nascosti e contenuti. Così si contengono e riducono gli spazi delle persone, complice un’urbanità sessista che avvantaggia la predazione concependo gli spazi a misura di maschile egemone.
Dunque, magre, alte – ma non troppo che agli uomini piace stare più in alto – ricche – ma nemmeno più di tanto perché un uomo potrebbe sentirsi sminuito – bianche – a meno che non si tratti di una relazione occasionale, perché in quel caso l’uomo ama esotizzatare – etero – perché oddio, davvero volete fare sesso senza che tutto ruoti attorno a un fallo?!- bramose di diventare madri, abneganti, ma amanti di shopping e frivolezze, e brave bravissime a cucinare. Il capitale ha delle pretese specifiche, molto chiare che si adattano alle esigenze delle industrie.
E il premio è in denaro sonante, mica in gettoni d’oro. Uno stipendio un po’ meno ridotto è il premio per la conformità, sia essa casuale o frutto di estenuanti dolori auto inflitti a seguito dello stimolo sistemico.
La scelta sistemica dello stipendio come mezzo di premio o punizione non è certo casuale in una società che ruota attorno al denaro. In esso si situa la morale condivisa tanto quanto la percezione dell’altro. Il capitale ci educa con lezioni quantitative. Quando si tratta di donne, c’è però un ulteriore livello di lettura. Il gap retributivo e lavorativo, intrecciato solidamente alle aspettative di genere, tiene le donne in una costante condizione di precarietà. Sotto ricatto, sono più facilmente afflitte dalle oscillazioni della retribuzione. Quindi, per punirle in caso di non conformità, il metodo prediletto è la privazione dell’autonomia economica.
La dieta genera un’economia del potere, in un senso e nell’altro, innescando pericolose spirali. Mettersi a dieta – soprattutto facendo considerazioni relative al guadagno che una perdita di peso potrebbe comportare in termini di accettazione sociale etc.- illude le persone, le donne in questo caso, di star compiendo un’azione che darà loro potere in qualche modo. Di base si sta compiendo un atto, quasi un rito, supponendo che ne conseguirà un qualche effetto di rimando.
Si crede di agire con un scopo e che quello scopo sarà necessariamente raggiunto. La dieta crea un’illusione di potere sul proprio corpo e sulla propria vita, realizzando di fatto il potere di qualcun altro. Perché il completo potere non sta nella coercizione ma nelle azioni coerenti con il suo disegno compiute volontariamente dagli individui, anche quando queste sono lesive.
La percezione di controllo rischia seriamente di compromettere i comportamenti alimentari della persona, che diventano quindi necessariamente collegati all’aspetto esteriore. Dunque, una compensazione monetaria per la magrezza, o una decurtazione per la grassezza, a seconda del punto di vista, non fanno che incentivare una relazione alimentare problematica. Il controllo non è reale, né ha effetti reali, è semplicemente il vessillo narrativo del sistema esterno che, di fatto, ottiene ed esercita potere e quindi controllo sui corpi.
Dunque, l’espressione economica funge da incentivo o da punizione. Ed è importante analizzarla nella duplice dimensione. Punire le persone grasse e premiare le persone magre sono due livelli di azione del capitale. Il rinforzo positivo, che sarebbe più da leggersi come una distanza dall’esito negativo più che un premio in sé, incentiva la condotta. Quello negativo, lo stipendio inferiore, funge da punizione risultante nella riduzione del paniere economico personale. A tutto questo andrebbero aggiunte le altre forme di espressione della discriminazione grassofobica a completare il quadro di una dimensione sistemica e istituzionalizzata di svantaggio.
C’è poi una fase specifica della vita delle donne che per il capitale è fondamentale: la gravidanza. La gestazione e il compimento della nascita sono di interesse fondamentale per il capitale che necessità di forza lavoro e di controllo per produrne di più. Dunque, normare i corpi secondo criteri spaziali e temporali permette di realizzare questo scopo in maniera semplice.
La collusione con gli stereotipi di genere realizza la narrazione perfetta, la funzione che una donna sia completa e realizzata solo se madre e se magra. Il recupero delle dimensioni precedenti la gravidanza e dell’appetito sessuale sono proposti come imperativi nella vita delle donne e delle neomadri. Corsi e diete appostitamente pensate per il periodo post Natale vengono vendute come risorse preziose, quando di fatto stringono il margine di tempo necessario al corpo per recuperare dopo il trauma del parto. E in quel recupero fisiologico, più che il peso pre gravidanza, dovrebbe essere compreso lo spazio di guarigione, di adattamento e di scoperta e accettazione di un corpo, inevitabilmente, diverso.
Però, per mantenere il dominio maschile, è invece necessario imporre alla Donne la bellezza a tutti costi come mito fondativo della loro esistenza. E dunque via di interventi per rialzare il seno, di addominoplastiche per cancellare il passaggio di nove mesi di gestazione, di liposuzioni o diete liquide per perdere il peso che si è accumulato in nove mesi.
Del benessere reale della persona non c’è traccia, ma queste pratiche e i tempi in cui sono imposte vengono raccontati proprio così: come cura del sé. Peccato che questa presunta cura sia un ripristino del sé in una dimensione che sia considerata sessualmente appetibile e piacente agli occhi del maschile egemone, quindi del capitale che per mezzo suo prolifera e si esprime.
Il capitale ci vuole magre e madri, macchine da sesso e compagne passive, con portafogli sgonfi e solitudini abissali. E punisce ogni tentativo d’esistenza non conforme.
Nata e cresciuta in Comasina, è una fotografa e una scienziata politica specializzata in relazioni internazionali e politiche globali, si occupa di disuguaglianze, espulsione sociale con un’ottica intersezionale e antispecista.
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