Cosa significa avere una relazione queer
Senza etichette, senza ruoli fissi, al di là di orientamenti sessuali, genere e coppia: come funziona una relazione queer?
Senza etichette, senza ruoli fissi, al di là di orientamenti sessuali, genere e coppia: come funziona una relazione queer?
Eppure, non è così. Ci sono rapporti dimostrano che esiste un altro, o meglio tantissimi altri, modi di stare insieme e dimostrarsi famiglia. Ma cos’è davvero una relazione queer?
Queer, la lettera Q dell’acronimo Lgbtqai+ significa, letteralmente, “strano, eccentrico, particolare”. In tedesco, invece, l’aggettivo quer ha il significato di “obliquo, perverso”. Ed è probabilmente da questa definizione che nel tempo il termine è diventato uno slur, un termine dispregiativo per offendere in particolare i maschi omosessuali effeminati.
Come accaduto per altri termini – lo stesso “gay” – però, una parte della comunità si è riappropriata di questa parola, facendone una bandiera identitaria di chi rifiutano le identità di genere canoniche le etichette e le categorie correlate all’orientamento sessuale, esulando dagli schemi previsti da una società prevalentemente eterosessuale.
Chi si definisce queer, quindi, abbraccia una visione non binaria della sessualità e dell’identità, facendo propria la possibilità di identificarsi, in base alle volontà di ciascuno, con entrambi i generi “tradizionali”, con nessuno dei due o con una combinazione di entrambi.
Una parte della comunità, però, non approva l’uso di questo termine, che spesso viene anche utilizzato in maniera impropria come sinonimo di Lgbt.
L’eteronormatività è il presupposto che l’eterosessualità sia lo standard per definire il comportamento sessuale normale e che le differenze maschio-femmina e i ruoli di genere siano gli elementi essenziali naturali e immutabili nelle normali relazioni umane.
Tra le aspettative legate all’eteronormatività c’è quella che le uniche relazioni romantiche valide siano quelle tra un uomo e una donna cisgender, eterosessuali in una relazione monogama. Anche se – non senza fatica – l’accettazione delle coppie omosessuali si sta progressivamente affermando, lo stesso non può dirsi di quelle relazioni che, superando i limiti della coppia “tradizionale”, esplorano nuovi modi di stare insieme.
Non solo chi vive una coppia aperta – un’espressione che nell’immaginario comune si riduce spesso allo scambismo – ma anche le relazioni poliamorose e i rapporti che coinvolgono più persone che intessono rapporti affettivi, familiari e talvolta sessuali.
Alcune persone utilizzano il termine “relazione queer” per indicare tutti i rapporti non eterosessuali, altri solo quelle che rifiutano le etichette, che vanno al di là del genere e dell’orientamento sessuale, della monogamia e della coppia per immaginare nuovi modi di stare insieme. Rapporti fluidi che mettono al primo posto le persone che li abitano e non i loro ruoli, che si basano sulla libertà, sulla scelta e sul rispetto.
Il termine “famiglia queer” è diventato popolare soprattutto nell’ultimo anno, in particolare in relazioni all’esperienza Michela Murgia, da poco scomparsa. Dopo aver rivelato la gravità della malattia e l’intenzione di sposare il compagno Lorenzo Terenzi per ragioni burocratiche – nonostante il matrimonio sia un’istituzione patriarcale che mai avrebbe scelto liberamente – Murgia ha iniziato a parlare sempre più spesso delle 10 persone legate a lei non dal sangue o da un contratto, ma non per questo meno “famiglia”, e del loro modo di vivere la relazione.
La parola più queer che esista in sardo è “sa sposa/su sposu”. Letteralmente significa “fidanzata/fidanzato”, ma nell’uso comune è piegata di continuo a rapporti con col fidanzamento non hanno nulla a che fare, così come col genere o con l’età. I padri e le madri chiamano così i figli, che la usano a vicenda e verso i genitori. I nonni e le nonne ci chiamano tutto il nipotame. Gli amici e le amiche si apostrofano in quel modo tra loro anche scherzosamente in forma tronca: “sa spò/ su spò”. Mia zia e mia nonna mi hanno chiamata più così che col mio nome e mio fratello mi risponde al telefono tutt’ora in quel modo. È come se l’intera isola tutti i giorni tenesse insieme i ruoli attraverso la categoria del fidanzamento e a pensarci bene è curioso, perché è una categoria incompiuta (una promessa) e non rappresenta alcun titolo familiare. Sposa e sposo sono parole che indicano l’elezione affettiva, non un ruolo. Lo scopo del fidanzamento è conoscersi e piacersi al punto da farsi balenare la felicità a vicenda e mi pare una postura sentimentale molto bella da esercitare. Nella queer family che vivo non c’è nessuno che non si sia sentito rivolgere il termine sposo/sposa in questi anni. Dopo lo sconcerto dei non sardi, ha vinto l’evidenza: l’elezione amorosa va mantenuta primaria, perché nella famiglia cosiddetta tradizionale i sentimenti sono vincolati ai ruoli, mentre nella queer family è esattamente il contrario: i ruoli sono maschere che i sentimenti indossano quando e se servono, altrimenti meglio mai. Usare categorie del linguaggio alternative permette inclusione, supera la performance dei titoli legali, limita dinamiche di possesso, moltiplica le energie amorose e le fa fluire.
Nelle foto, esempi di sposa e sposo stabili della mia vita. Sono personali, certo, ma non vogliamo siano più private. La queerness familiare è una cosa che esiste e raccontarla è una necessità sempre più politica, con un governo fascista che per le famiglie non riconosce altro modello che il suo.
Così scriveva in un post Instagram il 12 maggio. Uno dei tanti post sul tema “Queering the family” che esplorano e raccontano come si può stare insieme, come famiglia, al di là delle relazioni binarie e monogamiche.
Una settimana dopo il “matrimonio controvoglia” con Terenzi, nella casa romana acquistata per ospitare i compagni e le compagne di Murgia si è tenuto il vero matrimonio, la «nostra idea di celebrazione della famiglia queer». Un’idea di famiglia che, ha ricordato anche Murgia, non è una sua invenzione, esiste ed è la realtà di molte persone, sebbene non ne sentiamo parlare praticamente mai.
Cercare “famous queer relationship” su Google permette di vedere quanto spesso il termine venga utilizzato come sinonimo di “non eterosessuale”. La lista dei risultati, infatti, è un lungo elenco di “coppie gay” “same sex couples” “lesbian relationship”. Rapporti che moltissime celebrità vivono finalmente alla luce del sole, rivendicando con orgoglio i propri affetti.
Da Neil Patrick Harris e David Burtka e le famosissime foto di famiglia con i due figli a tema Halloween, passando per coppie storiche come Ellen DeGeneres e Portia de Rossi o Elton John e David Furnish – senza dimenticare quelle che ormai non stanno più insieme, come Jwan Yosef e Ricky Martin e, più recentemente, Tiziano Ferro e l’ormai ex marito Víctor Allen – le cronache riportano vite, amori e dolori di tantissime coppie formate da persone omosessuali, bisessuali o di genere non binario, tutte genericamente identificate come “queer”.
Molto più raro, per non dire introvabile, è il racconto di relazioni queer famose nel senso più “fluido” del termine. Relazioni che, come quella vissuta da Murgia e dalla sua famiglia queer, vanno al di là delle etichette, del binarismo, della coppia e degli orientamenti.
Pensateci bene: riuscite a ricordare qualche “famiglia queer” celebre (o no) prima – ma anche dopo?
Curiosa, polemica, femminista. Leggo sempre, scrivo tanto, parlo troppo. Amo la storia, il potere delle parole, i Gender Studies, gli aerei e la pizza.
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