Gap salariale di genere: i dati del fenomeno in Italia e in Europa

Come si evince dall'espressione, il gap salariale di genere indica una disparità - un "gap", uno "spazio vuoto", appunto -, a livello professionale e di natura economica, a svantaggio delle donne e ad appannaggio degli uomini. Uomini che, a parità di orari e mansioni, percepiscono più denaro (e, molto spesso, più rispetto) rispetto alle colleghe. Perché accade? Scopriamolo insieme.

Nel 2024, a parità di mansione, le donne sono ancora pagate meno rispetto ai loro colleghi uomini. Il fenomeno ha un nome ben preciso: gap salariale di genere, noto anche come gender pay gap.

Di che cosa si tratta? Perché si verifica? E quali sono i dati che lo riguardano? Vediamone insieme i dettagli.

Il gap salariale di genere: origini e cause

Come si evince dall’espressione, il gap salariale di genere indica una disparità – un “gap”, uno “spazio vuoto”, appunto -, a livello professionale e di natura economica, a svantaggio delle donne e ad appannaggio degli uomini. Uomini che, a parità di orari e mansioni, percepiscono più denaro (e, molto spesso, più rispetto) rispetto alle colleghe.

Il perché è tristemente noto: retaggio di un patriarcato vetusto e radicato, l’idea che le donne siano pagate nel medesimo modo – se non di più – rispetto agli uomini è fonte, sovente, di vergogna e borbottii. Un uomo non può guadagnare come o meno sua moglie, si dice, e, se così dovesse essere, ne sarebbe gravemente urtata la sua virilità.

Questa visione ha origini lontane e tocca il suo culmine nel corso del XIX secolo, quando l’emergente modello capitalista prevedeva – come si legge su Sexuality. A Graphic Guide di Meg-John Barker – che l’uomo uscisse di casa per lavorare e guadagnare soldi, mentre la donna dovesse restare tra le mura domestiche a svolgere un lavoro non pagato incentrato sulla cura della prole e della casa.

E nonostante le cose siano nettamente cambiate rispetto all’epoca, certe convinzioni, purtroppo, faticano a essere eradicate.

I dati del fenomeno in Italia e in Europa

Il gap salariale di genere deriva, quindi, da una serie di aspettative sociali che hanno modellato i ruoli di genere e l’approccio che, di conseguenza, si ha nei loro confronti in ambito lavorativo e retributivo. Queste dinamiche si possono manifestare in diversi modi:

  • discriminazione di genere diretta e/o indiretta, ossia la situazione in cui le donne vengono pagate meno degli uomini (a parità di orario e competenze) oppure si trovano di fronte a norme e politiche aziendali che le sfavoriscono (si veda l’assenza di congedi parentali o la scarsa flessibilità);
  • segregazione occupazionale, la quale può essere orizzontale, se donne e uomini tendono a lavorare in settori diversi e quelli in cui operano i secondi sono meglio remunerati rispetto agli ambiti dominati dalle donne, e/o verticale, se, all’interno dello stesso settore, le donne occupano posizioni inferiori rispetto ai colleghi e, di conseguenza, sono pagate meno;
  • ruoli di genere e aspettative sociali, particolarmente impattanti nel caso in cui la donna debba occuparsi di figli e “focolare”, dovendo rinunciare, così, non solo alla possibilità di avanzamenti di carriera e alle correlate posizioni apicali, ma anche al lavoro a tempo pieno, in favore di un part-time che le consenta di prendersi cura della sfera privata.

Secondo i dati dell’Eurostat, nel 2021, in Italia, il gap salariale ha registrato il 4,2%, uno dei più bassi in Europa, con riferimento alla differenza percentuale tra la retribuzione oraria media di donne e uomini. Nel 2023, invece, il gender pay gap si è attestato al 10,7%, spaziando dai 3.000 ai 16.000 euro in meno a seconda dell’inquadramento, in base a quanto rivelato da ODM Consulting, società di consulenza HR di Gi Group Holding.

Dalle statistiche emerge, in generale, che le donne italiane siano maggiormente occupate part-time e tendano a lavorare di più nei settori dell’istruzione e della sanità, generalmente meno remunerati rispetto a quelli in cui sono più diffusi gli uomini, ovvero ingegneria e tecnologia.

In Europa, sempre nel 2021, il gap salariale di genere ha toccato il 13%, con un valore particolarmente alto in Estonia (21,1%) e Germania (18,3%) e uno particolarmente basso in Romania (3,6%) e Lussemburgo (0,7%). Anche in Europa si rileva una maggioranza di donne occupate part-time e un’elevata segregazione settoriale.

È solo questione di genere? Gli altri divari

Ma a determinare il gap salariale non vi è solo il genere, anzi. I divari tra gli stipendi possono, infatti, manifestarsi anche nei casi seguenti:

  • origine etnica e nazionalità: le persone appartenenti a una minoranza o con un passato di migranti guadagnano meno rispetto ai professionisti di etnia maggioritaria a causa di discriminazione, barriere culturali e linguistiche, segregazione settoriale e mancato riconoscimento delle qualifiche e delle competenze;
  • età: i lavoratori più giovani e quelli più anziani hanno, tendenzialmente, stipendi molto più bassi rispetto ai colleghi di età “media”, nel primo caso per via della scarsa esperienza, nel secondo a causa di pregiudizi anagrafici e salari stagnanti;
  • disabilità fisica e mentale: le persone con disabilità fisica e mentale guadagnano meno di quelle senza disabilità sia per motivi discriminatori, sia per l’assenza di adeguamenti sul posto di lavoro e la correlata limitazione nell’accesso alla formazione educativa e professionale;
  • orientamento sessuale e identità di genere: gli individui appartenenti alla comunità LGBTQIA+ possono riscontrare delle diminuzioni salariali a causa del loro orientamento sessuale e/o romantico e della loro identità ed espressione di genere, con una retribuzione più bassa rispetto ai colleghi cisgender ed eterosessuali.

È possibile ridurre il gap salariale (e come)?

Sorge, dunque, spontaneo un interrogativo: come si può ridurre il gap salariale? È possibile farlo? La risposta è sì, ma solo se si pongono in atto le dovute accortezze e strategie, guidate da governo, sindacati, datori di lavoro e società civile. Esse potrebbero essere:

  • politiche di trasparenza salariale, per cui le aziende potrebbero essere obbligate a pubblicare i dati relativi alle retribuzioni divisi per genere, etnia, età e affini – attuale obiettivo della Direttiva Europea 2023/970;
  • politiche di parità di retribuzione, con congedi retribuiti sia per le madri che per i padri e un’incentivazione alla distribuzione equa della cura familiare, che garantisca anche una maggiore flessibilità lavorativa in grado di consentire ai lavoratori di conciliare in modo più agevole sfera privata e professionale;
  • educazione e formazione continua, dove la prima possa condurre a un incoraggiamento rivolto alle donne a intraprendere percorsi di studio e di lavoro in ambito STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), dove i salari sono nettamente più alti, e la seconda possa affinare in maniera perpetua competenze e conoscenze;
  • iniziative di inclusività, con adattamenti sul posto di lavoro per persone con disabilità e la creazione di reti di supporto per queste ultime e per donne, minoranze etniche e individui appartenenti alla comunità LGBTQIA+;
  • sensibilizzazione e cambiamento culturale, mediante un lavoro approfondito sui bias inconsci e sui pregiudizi interiorizzati, nonché ambienti di lavoro che promuovano autenticamente e attivamente la diversità e l’inclusione.
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