"Dalla maternità alla genitorialità in azienda". Intervista a Mara Panajia, AD Henkel Italia

Abbiamo incontrato Mara Panajia, AD e Presidente di Henkel Italia, per commentare i risultati della seconda edizione dell’Osservatorio “Genere e Stereotipi”, che mostrano come a casa, nello studio, nel lavoro e nel tempo libero donne e uomini siano ancora limitati nelle proprie scelte e azioni da una cultura condizionata da stereotipi di genere.

Dixan, Perlana, Vernel, Super Attak, Pritt sono nomi che, nell’immaginario collettivo italiano, richiamano prodotti familiari di uso quotidiano, ma anche odori inconfondibili (di bucato appena fatto), ricordi condivisi (quante cose abbiamo creato con la colla dal tubetto rosso?), e persino slogan diventati familiari al punto da entrare nel linguaggio comune (“È nuovo? No, è lavato con Perlana”).

C’è una memoria condivisa e culturale, che si crea attorno ai prodotti di largo consumo, quando questi superano la prova del tempo e diventano storici, come questi marchi (non sono gli unici!) della multinazionale Henkel, nata più di 145 anni in Germania, che opera in più di 120 Paesi ed è presente in Italia da 90 anni. Ci sono anche marchi “invisibili” di Henkel, dei quali in realtà siamo circondati spesso senza saperlo, che appartengono alla divisione Adhesive Technologies, principale produttrice al mondo di adesivi, sigillanti e rivestimenti funzionali (tra i brand di riferimento, Loctite, Pattex, Metylan, Technomelt).

In Italia, Henkel è presente con entrambe le due Divisioni, circa 850 dipendenti e 5 sedi: gli uffici amministrativi di Milano, un laboratorio di Sviluppo Prodotto a Caleppio di Settala (MI), e tre stabilimenti: uno, dedicato alla divisione Consumer Brands, a Ferentino (FI), gli altri due, adibiti a quella Adhesive Technologies, a Casarile (MI) e Zingonia (BG).
Da settembre 2022, alla guida di Henkel Italia c’è Mara Panajia, nominata amministratrice delegata e presidente dopo un percorso di oltre vent’anni in azienda, compreso un periodo dal 2014 al 2018 a Düsseldorf, presso il quartier generale di Henkel, nel ruolo di Corporate Vice President come responsabile del marketing globale dei marchi Laundry & Home Care.

Il curriculum di Panajia è in realtà molto più articolato di questa sintesi, tanto è che compare nella MPW Italia 2023, la lista di Fortune Italia dei 50 migliori profili di professioniste stilata ogni anno da un advisory board indipendente.

Abbiamo incontrato Mara Panajia nella sede amministrativa italiana, per commentare i risultati della seconda edizione dell’Osservatorio “Genere e Stereotipi”, promosso da Henkel Italia in collaborazione con Eumetra; ma anche per raccontare l’evoluzione, i valori e gli obiettivi di questa azienda così radicata nella società italiana, e il contributo che sta portando in merito a due grandi temi dell’Agenda 2030: la parità di genere e la sostenibilità. 

Domanda difficile, forse. Cos’è per lei “casa”?

Casa è il posto che mi fa stare bene. Questo è per me casa, e non credo di dover aggiungere altro: se non che non è un luogo definito o particolare, ma dove o con chi sto bene.

I risultati della seconda edizione dell’Osservatorio “Genere e Stereotipi” ci dicono che, a casa, nello studio, nel lavoro e nel tempo libero, donne e uomini siano ancora limitati nelle proprie scelte e azioni da una cultura condizionata da stereotipi di genere, che continuano a pesare sulle scelte familiari e individuali anche tra le nuove generazioni.
Questo è oltremodo vero quando si parla di famiglia. 

L’Osservatorio è nato proprio con l’intento di fotografare l’andamento delle disparità tra uomo e donna nella vita familiare, ma anche nel lavoro, a scuola, nello sport e persino nel tempo libero. L’intento è triplice: capire lo status quo (a che punto siamo), come la situazione sta evolvendo e dotarsi di strumenti che ci consentano di agire il cambiamento nel concreto. 

La seconda edizione dell’Osservatorio ci dice che, nonostante si parli tanto di parità, in Italia la suddivisione dei compiti pesa ancora sulle spalle delle donne, anche se manca una consapevolezza condivisa. Mi spiego meglio, con l’aiuto di alcuni esempi: alla domanda “Chi fa la spesa”, il 42% degli uomini risponde “È un compito condiviso/ andiamo insieme o a turno”. Il dato non trova però conferma nelle 15% delle donne che hanno scelto la stessa opzione. E ancora: il 38% degli uomini dice di condividere equamente con la partner il carico delle pulizie, ma solo per il 23% delle donne questo è vero! C’è una percezione molto diversa tra uomini e donne. I primi, rispetto al passato, si sentono indubbiamente più coinvolti, ma

le donne in Italia ancora dedicano circa un’ora e mezza al giorno per le faccende domestiche, a fronte di una media europea di 20 minuti. Se sommiamo questo tempo a quello speso nel lavoro di cura, che sappiamo essere per l’80-85% a carico delle donne, le italiane svolgono un lavoro non retribuito per circa sette ore al giorno

Praticamente un secondo lavoro quasi a tempo pieno. Non a caso per le donne si parla di second shift (secondo turno). Ma concentriamoci ora sui dati “positivi”. Cito, sempre da “Genere e Stereotipi”:

“L’80% della Gen Z crede che ci si debba occupare delle necessità familiari in maniera paritaria.”

E ancora:

“Il 68% degli uomini ritiene necessario impegnarsi perché tutte le attività di casa siano insegnate ai figli a prescindere dal genere, un dato che sale al 100% considerando i rispondenti della Gen Z.

Cosa ci dicono questi dati? 

C’è un segnale di cambiamento che riguarda le nuove generazioni, portatrici di una nuova consapevolezza paritaria e di istanze di un cambiamento necessario. Alla Gen Z è chiaro che il modello del passato non è più attuabile. Negli uomini Gen X e Millennials c’è più un senso di colpa, una presa di consapevolezza dello sbilanciamento, un generico “cerco di aiutare, o un vorrei fare di più”. Nella Gen Z si passa alla pratica e a una reale condivisione delle attività domestiche e di cura.

Un’altra cosa importante è che, nelle nuove generazioni, col crescere dei figli, non ci sono più o sono comunque molto diminuite le differenze di genere nelle concessioni genitoriali intese come spazi di libertà, movimento e permessi. Anche se è bene precisare che, come sopra, il percepito cambia a seconda di chi risponde alle survey.

Esemplifico con alcuni numeri: molti genitori dichiarano che non avrebbero problemi a concedere ai figli maschi di passare una vacanza con il fidanzato o la fidanzata, nel 90% dei casi, a fronte di una percentuale che scende “solo” all’84% se si parla di figlie femmine. Se però si fa un check al contrario, solo il 62% delle ragazze e il 72% dei ragazzi confermano. Altro esempio ancora, parliamo del tanto agognato scooter: i genitori che dicono che lo concederebbero a un figlio maschio sono il 67% e diventano il 63% nel caso di figlie femmine; ma di nuovo ragazzi e ragazze smentiscono i genitori con percentuali che si fermano, rispettivamente, al 38% e al 17%. Quindi c’è una differenza di percezione notevole o, in alternativa, un gap tra quanto dichiarato e il comportamento effettivo.

C’è qualcosa che l’ha colpita più di altre?

La gestione del denaro. Perché se di nuovo la Gen Z sta segnando il passo del cambiamento, sappiamo che ancora molti genitori sono restii a dare la cosiddetta paghetta (o il corrispettivo economico riconosciuto ai fratelli) alle figlie. L’alibi più diffuso è il “non le faccio mancare nulla”, dicasi anche “se ha bisogno di qualcosa glieli do o glielo compro io”. Questo è un grosso problema: così facendo i ragazzi imparano subito a gestire il denaro e anche a riceverlo, contrattarlo; e sembra invece che i soldi non siano “cosa da ragazze”. Questo atteggiamento si riflette del resto anche in famiglia dove, i dati della survey ci dicono, quando si tratta di prendere decisioni economiche straordinarie, parlare di investimenti, accendere un mutuo, la responsabilità è per lo più demandata ancora all’uomo, o comunque poco condivisa.

E siamo all’annosa questione della dipendenza economica delle donne, che crea terreno fertile per la violenza domestica, perché nega di fatto a molte la possibilità di scegliere di andarsene, specie in presenza di figli. Questo vale per le situazioni abusanti, ma anche in assenza di problemi, il fatto di non disporre di autonomia economica chiude le donne in una gabbia, magari dorata, ma pur sempre gabbia. 

Durante la pandemia di Covid si è visto bene, e di fatto in molte famiglie è ancora normale che sia la donna a ridurre o rinunciare al lavoro retribuito dopo il primo e soprattutto il secondo figlio, o per accudire parenti anziani, malati o disabili.

La ratio spesso è quella dell’apparente buon senso: “Che senso ha lavorare e prendere lo stipendio se devo metterlo tutto nella baby sitter? Non mi conviene!”.
Ogni volta che sento fare questo ragionamento rabbrividisco e penso sì, ti conviene. Vorrei dirlo a ogni donna nella condizione di dover scegliere (posto che bisogna lavorare affinché non succeda): 

Sì, dai il tuo stipendio alla baby-sitter per due, tre, quattro anni e più, ma stai nel mondo del lavoro, perché una volta che sei uscita è molto più difficile rientrarci. Questa cosa ti può salvare la vita e, anche in assenza di necessità, credo sia fondamentale l’indipendenza, la possibilità di scegliere di restare perché si vuole, non perché si deve.

libere

Parliamo di rappresentazione. Si discute molto del ruolo delle narrazioni, e quindi anche delle pubblicità, come strumenti che plasmano il modo in cui uomini e donne imparano a vedersi, immaginarsi e persino a orientarsi nei propri desideri e scelte sin da bambine e bambini. Parliamo di lavoro e vita domestica nella pubblicità. Da insider del settore le chiedo: sta cambiando qualcosa? O come si può cambiare? 

Viviamo in un momento storico senza precedenti, in cui convivono cinque-sei generazioni. Pensi che solo nella nostra azienda sono quattro quelle che lavorano fianco a fianco. È chiaro che dobbiamo rivolgerci a tutte queste generazioni, che usano medium diversi, hanno testimonial e personalità di riferimento diversi. Tempo fa sarebbe stato impensabile associare un ragazzo giovane come l’influencer della Gen Z Mattia Stanga a un prodotto per la pulizia domestica, come Bref. Oggi è importante: per comunicare con quella generazione, e per creare una narrazione diversa, equa e non anacronistica. O forse dovrei dire narrazioni perché non esiste più, per fortuna, una rappresentazione monolitica. E quindi ecco Benedetta Parodi con Prill, ma anche Sciuraglam e Perlana, che è un modo molto diverso di parlare a quel target.  

Il suo e il mio settore hanno responsabilità specifiche, che sappiamo. Sarà sempre in qualche modo così, o c’è la possibilità di una rivoluzione che parta anche dall’interno? Nella fattispecie, qual è la politica di genere e diversity di Henkel?

Condivido il tema della responsabilità e, per quanto creda sia fondamentale il cambio di passo nella pubblicità, nello storytelling e nella comunicazione, sono convinta che il vero cambiamento vada agito prima di tutto dall’interno! Le aziende, infatti, hanno un ruolo e un dovere sociale, anche perché sono esse stesse società in miniatura: i lavoratori e le lavoratrici, del resto, altro non sono che cittadine e cittadine. Il tema della diversità e delle minoranze, nonché quello di genere, laddove le donne pur senza essere una minoranza sono discriminate come se lo fossero, si pone anche sull’ambiente di lavoro e, quindi, all’interno delle nostre aziende si può e si deve agire il cambiamento.

Un passaggio molto importante che stiamo facendo in azienda è quello di abbandonare il concetto di maternità per abbracciare quello di genitorialità.

Io dico sempre che i figli non sono solo della madre: i figli sono dei genitori e lo dico con cognizione di causa, perché quello che ho fatto nella mia carriera senza il supporto di mio marito non l’avrei potuto fare. In azienda, ce ne stiamo occupando a livello di cambio culturale, di mentalità, ma anche a livello pratico. A partire dal 2024, infatti, Henkel ha implementato un nuovo standard di congedo parentale neutrale rispetto al genere per i suoi circa 50.000 dipendenti in tutto il mondo, offrendo fino a otto settimane di congedo parentale interamente retribuito, non in base al sesso o allo stato di genitore biologico, ma al ruolo di caregiver. Il che significa tutelare tutte le forme di genitorialità e di famiglia, omogenitoriali, monogenitoriali, adottive o comunque sociali. 

Restando nella concretezza dei numeri, abbiamo anche adottato politiche di recruitment messe a punto per contrastare il gender gap: per ogni nuova posizione, i curricula presi in considerazione devono essere al 50% di donne e al 50% di uomini. Questo anche in ambiti storicamente “maschili” come le vendite, in produzione e in fabbrica. Abbiamo un obiettivo molto chiaro: raggiungere entro il 2025, il 50% di donne in posizioni di management. Soltanto se si hanno degli obiettivi chiari e misurabili si possono fare delle azioni concrete. 

Oggi se ne parla molto. Cosa significa sostenibilità, per lei in primis e quindi per l’azienda che rappresenta. 

Henkel parlava di sostenibilità anche in tempi non sospetti, già dai primi Anni Venti del secolo scorso, ed è stata tra le prime aziende a dotarsi di un report di sostenibilità nel 1992. Credo che questo dica molto di quanto ci crediamo e di quanto ci credeva già il nostro fondatore Fritz Henkel. La nostra purpose, Pioneers at heart for the good of generations, riassume molto bene la nostra cultura aziendale della sostenibilità:

fare bene nel presente, e fare il bene delle generazioni future, in termini di ambiente ma anche di qualità della vita, perché sostenibilità è anche sostenibilità umana.

Senza dimenticare, ovviamente, che dobbiamo essere sostenibili anche economicamente, ovvio!
A livello di obiettivi, gliene dico uno su tutti: diventare climate positive entro il 2030, cioè vogliamo restituire all’ambiente più di quanto utilizziamo in termini di energia, aria e processi puliti.

Domanda scomoda, può decidere di non rispondere, ma a me pare un’occasione: di fronte ad accuse di pinkwashing o greenwashing, oggi sempre dietro l’angolo e in alcuni casi più che lecite rispetto ad alcune realtà aziendali quando affrontano temi come quelli trattati in questa intervista, cosa risponde? 

Non mi sottraggo, anzi, rispondo volentieri, e in parte l’ho appena fatto. Per me e l’azienda che rappresento è una questione di serietà: definire e comunicare obiettivi precisi, serve a misurarli strada facendo, fare azioni correttive dove necessario, e rilanciare quando il traguardo è raggiunto o si può fare di più. Noi oggi abbiamo l’87% degli imballi riciclabili, con l’obiettivo di arrivare al 100% entro il 2025.

Chiaro che per raggiungere un obiettivo così ambizioso, servono azioni concrete e scelte coraggiose. Prendiamo l’esempio della colla Pritt: abbiamo dovuto rinunciare al tradizionale blister, cioè confezione con la plastica trasparente che permetteva di mostrare il prodotto, a costo di sacrificare la riconoscibilità. Per un’azienda fare questo con un prodotto iconico non è una cosa da poco. Lo stesso dicasi del flacone di Nelsen, che è sempre stato bianco fino al 2019, ma che non permetteva di ottimizzare il riciclo, come invece è possibile con il pack trasparente. Mi creda, il greenwashing è un’altra cosa.

A una bambina che incontra oggi per parlare di lavoro e futuro cosa dice o direbbe?

Di non smettere di sognare, e di non permettere a nessuno di distruggere i propri sogni. Sembra banale, lo so, ma non lo è: le bambine smettono di sognare in grande già a cinque, sei anni; si convincono – perché questo è quello che l’educazione e la società trasmette loro – che ci sono cose che loro non possono fare. È gravissimo: bisogna dire loro che non è vero, di non lasciarsi tarpare le ali e di non tarparsele da sole. E poi dico loro di chiedere, imparare a chiedere: chi c’è dall’altra parte spesso non sa nemmeno quello che noi vogliamo. Dobbiamo saperlo noi, e chiedere.

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