Chi erano le squaw e perché è una parola offensiva, anche se molti non lo sanno

In origine, il termine "squaw" indicava le donne appartenenti alle tribù dei nativi americani dell'America del Nord. Non possedeva, dunque, alcuna accezione peculiare, se non quella di indicare semplicemente la popolazione femminile, costellata di "mogli" e "giovani donne". Con l'arrivo dei coloni bianchi, tuttavia, l'espressione iniziò a essere gravata di stereotipi razzisti e sessisti, fino a essere investita di un significato derogatorio. Scopriamone i dettagli.

Il vocabolario umano è pieno di termini che, nel corso del tempo, hanno mutato il proprio significato, anche in maniera radicale.

Spesso, si tratta di termini inizialmente dispregiativi ma resi, poi, propri da chi ne era destinatario – si pensi, ad esempio, a “impressionismo”, “decadentismo”, “ermetismo” e così via -, altre volte, invece, le parole utilizzate, per esempio, da un ristretto gruppo di persone o da minoranze hanno assunto una connotazione dissimile da quella originaria perché trasfigurata da chi deteneva il “potere”.

È il caso di “squaw”, sostantivo con cui venivano designate le donne native americane e che, in seguito alla sua appropriazione derogatoria da parte dei coloni, si è tramutata in un vero e proprio insulto. Vediamone i dettagli.

Chi erano le squaw?

In origine, il termine “squaw” indicava le donne appartenenti alle tribù dei nativi americani dell’America del Nord. Non possedeva, dunque, alcuna accezione peculiare, se non quella di indicare semplicemente la popolazione femminile, costellata di “mogli” e “giovani donne”.

Personalità che, nei loro clan, rivestivano non solo il ruolo di madri e mogli, ma anche cariche di un certo rilievo, come quelle di leader, guaritrici e custodi delle tradizioni.

Cariche di estrema importanza, che sono state, però, appiattite ed erose con lo scorrere del tempo e, in particolare, con l’utilizzo inappropriato, storpiato e derisorio della parola squaw, la quale, con i coloni bianchi, ha iniziato ad assumere accezioni sempre più razziste e offensive.

Origine della parola “squaw” e il suo uso storico

La sua etimologia, infatti, risale alla lingua algonchina, ossia quella afferente agli Algonchini, l’insieme di tribù di nativi americani più popolose tuttora esistenti, attualmente locate nelle riserve indiane canadesi (anche se, in passato, occupavano la maggior parte delle regioni canadesi, in un territorio che si estendeva dall’Atlantico alle Montagne Rocciose).

Nello specifico, la parola sembra derivare da un termine della lingua dei popoli Abenaki, con il significato di “donna”. In alcune varianti delle lingue algonchine, inoltre, “eskwaw” o “squa” si usava in un contesto simile, privo di connotazioni negative e riferito alla figura femminile all’interno della società.

Un’altra teoria, ancora, farebbe provenire il termine da “ojiskwa’”, espressione con cui gli Indiani Mohawk definivano l’apparato sessuale femminile.

In ogni caso, il termine assunse rapidamente un altro significato – del tutto dissimile – con l’arrivo dei colonizzatori europei, che iniziarono a utilizzarlo per identificare qualsiasi donna nativa americana, privando, così, la parola della sua specificità culturale.

Con il suo diffondersi, squaw cominciò, appunto, a essere impiegato in un contesto denigratorio, razzista e stereotipato, volto a ridurre le donne indigene a mere figure sessualizzate e subordinate, cui iniziarono a correlarsi pregiudizi razziali e di genere.

Perché la parola “squaw” è offensiva: il significato contemporaneo

A oggi, quindi, sebbene inizialmente si trattasse di una parola neutra, il termine squaw è intriso degli stereotipi sessisti e razzisti affidatigli dai pionieri bianchi, stratificati e consolidati dai successivi usi nella cultura popolare.

Nel corso dei secoli, infatti, l’espressione ha cominciato a tratteggiare sempre di più le donne native americane come selvagge, inferiori e ipersessualizzate, sminuendone il ruolo – spesso cruciale, come accennato in precedenza: si pensi, ad esempio, alle matrone -, reificando il loro corpo e giustificando, in questo modo, la violenza e la discriminazione perpetrate nei loro confronti.

Come spiega la giornalista Cristina Carpinelli:

La lunga storia della frontiera americana, dai primi anni del XVII secolo fino al termine del XIX, contiene una serie infinita di rapimenti, stupri, torture e uccisioni commessi sulle donne native americane rapite dai pionieri bianchi durante la conquista del suolo americano. Le prede preferite per questi colonizzatori d’oltre oceano erano le giovani e i loro figli, mentre le anziane e i maschi adulti erano subito eliminati. Il numero di donne indiane rapite, torturate e vendute come schiave, nel corso dei conflitti coloniali, della guerra d’indipendenza americana e successivamente durante la guerra civile, ammonta a diverse migliaia.

Attualmente, dunque, squaw è associato alla lunga e dolorosa storia di sfruttamento, disumanizzazione e oppressione delle popolazione native americane e, in particolare, delle sue donne, di cui sono state “dimenticate” la specificità e l’identità assolutamente uniche che le caratterizzano.

La rappresentazione delle donne native nella cultura popolare

Motivo per cui, in passato e, in alcuni casi, ancora oggi, le donne native americane sono delineate in maniera distorta, problematica e avulsa dalla realtà, come si evince dai media e dalla letteratura, colpevoli di dipingerle in termini semplicistici, riduttivi e stereotipati.

Le donne native americane, appunto, sono perlopiù rappresentate alla stregua di:

  • squaw (con accezione dispregiativa), ossia donne subalterne, soggiogate dai doveri familiari di mogli e madri, prive di una propria identità autonoma, servizievoli e oppresse, cui non sono riconosciuti valore e agency, in quanto donne inferiori e di “serie B” – soprattutto rispetto alle donne bianche;
  • principesse esotiche, bellissime e salvifiche, in trepidante attesa di sposare un uomo bianco e avviare il processo di “civilizzazione” grazie a quest’ultimo (un emblema, in questo senso, è offerto naturalmente da Pocahontas, donna selvaggia che può essere “civilizzata” solo da un conquistatore bianco, e di cui rispetta le aspettative romantiche).

Questo appiattimento provoca, perciò, uno scollamento tra rappresentazione e realtà, colpevole di disumanizzare le donne native e non rendere evidenti i loro contributi e le loro esperienze.

Ricordiamo, infatti, che le donne native hanno avuto, e posseggono tuttora, ruoli significativi all’interno delle loro tribù, quali quelli di artigiane, guerriere, leader, custodi delle tradizioni e sostenitrici dei diritti civili. Non proprio, quindi, ruoli subordinati.

Parole alternative e linguaggio inclusivo

Narrazioni che persistono e devono essere mutate al più presto, al fine di promuovere rappresentazioni più autentiche e aderenti alla vera identità delle donne native americane. Per tale ragione, fare ricorso a un linguaggio maggiormente inclusivo potrebbe essere una soluzione adeguata.

Le donne native americane sono stanche di essere definite “squaw”, e già da molti anni hanno dato avvio a una battaglia politica contro l’uso di termini ed epiteti razzisti e sessisti.

Un esempio? La lotta, guidata dalle attiviste di Coeur d’Alene, mirata a eliminare questa parola denigratoria dalle valli, dalle terre, dalle montagne, dai fiumi e, in generale, dai riferimenti geografici che la contengono/contenevano (quali la celebre Squaw Valley nello Utah, i Giardini della Squaw in Oregon, il Picco della Squaw in Arizona, la Big Squaw nel Maine e molti altri ancora).

Come ha affermato due anni fa Deb Haaland, all’epoca prima segretaria di gabinetto proveniente da una tribù nativa americana, che ha preso provvedimenti per cancellare il termine dai siti in questione:

Le parole contano, in particolare nel nostro lavoro, per rendere le terre e le acque pubbliche della nostra nazione accessibili e accoglienti per le persone di tutte le origini. Il prendere in considerazione queste sostituzioni è un grande passo avanti per rimuovere i vocaboli dispregiativi il cui termine di scadenza è atteso da tempo.

Parole alternative per essere rispettosi e non reiterare stereotipi e discriminazioni potrebbero essere, dunque, le seguenti:

  • il nome della tribù di appartenenza, come “Lakota” “Navajo”, “Cherokee” e così via;
  • le espressioni generiche “donne native americane”, “donne indigene” o “donne delle Prime Nazioni” (nel contesto canadese), rispettose della varietà e complessità delle culture indigene;
  • parole che riconoscono e celebrano il ruolo culturale, quali “custodi della tradizione”, “sagge” o “leader culturali”, identificative della posizione specifica ricoperta da ciascuna donna all’interno della propria tribù.
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