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Femvertising: quando la pubblicità promuove l'empowerment delle donne
Ecco cos'è la Femvertising, la pubblicità che abbatte gli stereotipi di genere e che punta all'empowerment femminile
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Ecco cos'è la Femvertising, la pubblicità che abbatte gli stereotipi di genere e che punta all'empowerment femminile
Ve ne sarete accorti, le pubblicità sono cambiate, soprattutto quelle che parlano alle donne. Una tendenza che prende il nome di femvertising. Un termine che va a indicare le diverse campagne pubblicitarie che, nei termini e nei contenuti, abbracciano valori femministi, andando a enfatizzare e promuove messaggi di inclusione ed empowerment.
Una parola che nasce nel 2014 in occasione di un dibattito durante l’Adweek di New York, dalla fusione tra le parole “feminism” (femminismo) e “advertising” (pubblicità). E che identifica tutte quelle pubblicità che non vanno solo a vendere dei prodotti, ma che allo stesso tempo lo fanno cercando di promuovere dei valori di inclusione, facendo una differenza a livello sociale e supportando l’uguaglianza di genere.
Una tipologia di pubblicità riconoscibile, sia in termini di parole usate che di temi trattati e che va ad abbandonare gli stereotipi di genere a cui troppo spesso si è abituati (e che condizionano profondamente il nostro comportamento e modo di pensiero), proponendo invece un’immagine femminile diversa, dalle molteplici sfaccettature e autentica. Un’immagine più reale.
Avete presente, per esempio, la pubblicità di Dove, che ormai da qualche anno ha come protagoniste delle sue campagne pubblicitarie donne vere di ogni età, colore o taglia. Un inno alla celebrazione dell’autenticità e delle diversità che ci rendono uniche, ma anche delle cose che ci uniscono e che ci rendono donne.
O ancora alla pubblicità di Lines che ha come protagoniste l’attrice Matilde Gioli e la ballerina e conduttrice tv Giulia Stabile, che va ad abbattere i tabù legati alle mestruazioni.
Pubblicità semplici ma di grande impatto, poiché mostrano la normalità di ogni donna e che ognuna di noi vive, ma che troppo spesso si scontra con una visione completamente distorta e centrata su stereotipi obsoleti e che nulla hanno a che vedere con ciò che la donna è e vive davvero. Pubblicità che normalizza al grande pubblico ciò che dovrebbe essere normale ma che spesso viene taciuto o volutamente tacciato come “non giusto”. Ma che in realtà non lo è.
Un modo di fare pubblicità che si stacca totalmente dalle campagne pubblicitarie “tradizionali”. Se dagli anni ’50 ai ’70, infatti, la donna nelle campagne pubblicitarie era mostrata come uno stereotipo vivente, figlia di una mentalità e società patriarcale all’ennesima potenza, tra gli anni ’80 e ’90 la figura femminile ha visto un balzo di emancipazione e di maggior libertà. Nelle pubblicità di quegli, infatti, la donna era rappresentata in modo autonomo, in grado di fare carriera tanto quanto di essere madre, forte, intraprendente, autosufficiente e libera, anche sessualmente. Per poi ricadere nel baratro dello stereotipo con l’arrivo del nuovo millennio.
Le pubblicità degli anni ‘2000, infatti, hanno più volte proposto immagini violente nei confronti della donna, oggettivizzandone il corpo, sia in termini sessuali che di raggiungimento di canoni estetici irreali e irraggiungibili, e che puntavano su un solo messaggio, la ricerca della magrezza e della perfezione estetica. Un susseguirsi di stereotipi di genere, di concetti che ruotavano intorno all’immagine di donna-oggetto e di passività.
E che, con l’arrivo della femvertising nel 2014, sono stati eliminati o quanto meno ci si sta lavorando. Un movimento che non solo propone immagini diverse, reali e che puntano all’inclusività, all’empowerment e alla libertà di scelta, ma che condannano senza mezzi termini tutta quella pubblicità che punta a etichettare la donna, assegnandole dei ruoli prestabiliti e stereotipati, che ne sessualizza il corpo e che riduce la donna a oggetto o a una posizione di dominanza.
Se da un lato, quindi, i temi portati avanti dalla femvertising sono più che legittimi e necessari, dall’altro inevitabilmente si sono tirati dietro critiche e scetticismo (soprattutto da parte di chi non ne vede o non ne comprende l’utilità).
Tra le maggiori critiche che sono state poste alla femvertising e alle aziende che hanno virato i loro spot pubblicitari in questo senso, la prima è sicuramente la commercializzazione dell’emancipazione femminile e dello sfruttamento dei temi femministi e di uguaglianza per scopi commerciali.
Altra critica che si è vista arrivare la femvertising è l’incoerenza. C’è, infatti, chi taccia questo genere di spot di ipocrisia, poiché pur mostrando campagne pubblicitarie di un certo tipo, non ne seguono i principi e i valori all’interno dell’azienda. Basti considerare la differenze di stipendio a parità di mansione tra uomini e donne, la minoranza di donne in posizione di rilievo e manageriali o la difficoltà a conciliare vita lavorativa e familiare.Un problema chiamato gender washing (ovvero femminismo di facciata) in cui viene promossa un’immagine a sostegno delle donne ma senza che questo venga poi perpetuato anche concretamente nella diverse pratiche aziendali.
Infine, la femvertining, è stata accusata anche di superficialità, in quanto le è stata mossa la critica di ridurre un problema reale e meri slogan, banalizzando quindi le lotte e i valori femministi e riducendo il vero significato di emancipazione a un qualcosa che si può facilmente vendere e consumare.
Critiche che, se da una parte possono avere un fondamento, dall’altra potrebbero essere usate piuttosto come spunto di miglioramento. Sempre ricordandosi che non conta tanto il fatto di dire “io l’avrei fatto meglio, questo non è il modo giusto, ecc.” quanto piuttosto il prendere coscienza di un problema urgente che necessita di essere risolto e a cui far seguire un’azione concreta nel farlo. A migliorare il tiro ci si può pensare anche in corsa.
Cosa importante, quindi, non è tanto la critica di un messaggio che ha un’enorme importanza, quanto piuttosto la comprensione delle stesso all’interno di una pubblicità che comunque ha come scopo la vendita di un prodotto. Un messaggio che ci deve essere sempre a 360° e non finalizzato alla commercializzazione o come mera strategia di marketing, e che potete vedere anche molto semplicemente confrontando le diverse campagne pubblicitarie del brand, la comunicazione ufficiale e non ufficiale. Dopo tutto siamo nell’epoca dei social e non è poi così difficile avere informazioni.
Ma anche ascoltando bene il messaggio pubblicitario, che non deve collegare l’emancipazione e l’empowerment femminile all’utilizzo di un prodotto ma che deve lanciare un messaggio che ne sia svincolato. Così come ogni donna è svincolata da qualsiasi tipologia di etichetta, stereotipo di genere, aspettativa, canone o immagine irreale, che non fa parte dell’essere donna e che ognuna può decidere di crearsi in perfetta sintonia con la propria indole e personalità.
Vivo seguendo il mantra "se puoi sognarlo puoi farlo". Sono una libera professionista della vita. Una porta verde, una poltrona rossa e una vasca da bagno sono le mie certezze, tutto il resto lo improvviso.
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