Femminismo decoloniale: perché senza non si fa il femminismo

Il femminismo decoloniale è un approccio politico, culturale e teorico che sottopone a disamina il rapporto che intercorre tra il patriarcato e il colonialismo, con particolare risalto alle forme di oppressione subite dalle donne, dalle persone non binarie e dalle minoranze (con riferimento soprattutto alle persone afrodiscendenti, appartenenti alle comunità indigene e site nel Sud globale). Vediamo di che cosa si tratta nel dettaglio.

La dominazione e la disparità non sussistono solo tra uomo e donna, ma anche tra donna e donna. Basti pensare al cosiddetto femminismo bianco, confluito in movimenti e lotte per l’emancipazione e la parità di genere scaturiti dalla medesima prospettiva: quello delle donne bianche, appunto.

Una risposta e, quindi, una soluzione a questo punto di vista, però, c’è: il femminismo decoloniale. Vediamo di che cosa si tratta nel dettaglio, quali sono le sue caratteristiche e quali le sue maggiori esponenti, in Italia e nel mondo.

Cosa significa femminismo decoloniale?

Il femminismo decoloniale è un approccio politico, culturale e teorico che sottopone a disamina il rapporto che intercorre tra il patriarcato e il colonialismo, con particolare risalto alle forme di oppressione subite dalle donne, dalle persone non binarie e dalle minoranze (con riferimento soprattutto alle persone afrodiscendenti, appartenenti alle comunità indigene e site nel Sud globale).

Nello specifico, il femminismo decoloniale concentra le sue riflessioni sui seguenti temi:

  • critica all’eurocentrismo: il movimento sottolinea come il femminismo tradizionale non sia “universale”, ma sia, in realtà, frutto di contesti bianchi – europei e nordamericani – e che, in quanto tale, non abbia preso in considerazione le esperienze e le condizioni delle donne razzializzate e colonizzate;
  • intersezionalità e colonialità: il femminismo decoloniale pone l’accento sul fatto che nei sistemi di oppressione siano strettamente intrecciati etnia, genere, classe e sessualità, introducendo i concetti di “colonialità di genere” e “colonialità del potere” (teorizzati rispettivamente da María Lugones e da Aníbal Quijano), ossia il fatto che il colonialismo abbia imposto un sistema binario e patriarcale e che non sia terminato con l’indipendenza dei Paesi conquistati, bensì continui a persistere nelle strutture economiche, culturali e politiche che li caratterizzano;
  • valorizzazione delle conoscenze indigene e popolari: quella eurocentrico e occidentale non è l’unica forma di sapere degna di attenzione, ma, al contrario, sono altrettanto legittime anche le epistemologie africane, indigene e di altre comunità marginalizzate, le quali, secondo il movimento, meriterebbero di essere rivalutate, riscoperte e approfondite;
  • anticapitalismo: il femminismo decoloniale contrasta il capitalismo alla stregua di sistema che ha sfruttato le donne razzializzate, soprattutto per quanto concerne il lavoro domestico, i lavori informali e la manodopera;
  • critica all’idea di “sorellanza universale”: non tutte le donne, per etnia, classe sociale, situazione socio-culturale e area geografica di riferimento, hanno subito le medesime forme di oppressione (si pensi, in particolar modo, a coloro che hanno affrontato colonialismo e razzismo), pertanto, secondo il movimento, non si può parlare di “sorellanza” in senso generale, ma solo in relazione ai contesti.

Le differenze tra femminismo occidentale e femminismo decoloniale

Ma quali sono, nel dettaglio, le differenze che riguardano il femminismo occidentale e il femminismo decoloniale? A proposito del primo, esso prende avvio principalmente in Europa e Nord America, in contesti bianchi e borghesi, concentrando le proprie battaglie sul diritto di voto, sulla parità di genere e sui diritti civili e attribuendo, a se stesso, un carattere di “universalità” e “neutralità”, senza prendere in esame, dunque, le oppressioni delle donne soggiogate dal colonialismo e dal razzismo.

L’assunto di base del femminismo occidentale è, infatti, proprio quello secondo cui l’oppressione sia analoga – o, perlomeno, tendenzialmente simile – per tutte le donne del mondo, senza considerare, come accennato, le esperienze delle donne nere, indigene e colonizzate. Indifferenza che si rispecchia, inoltre, anche in ambito lavorativo: secondo il femminismo occidentale, infatti, tutte le donne dovrebbero avere accesso al mercato del lavoro, ma tale prospettiva, basata sull’empowerment femminile, non analizza le disuguaglianze globali e non mette realmente in discussione il sistema capitalista.

Al contrario, il femminismo decoloniale prende abbrivio in America Latina, Africa e Asia come risposta e reazione al femminismo bianco ed eurocentrico, e analizza la doppia oppressione delle donne colonizzate (in quanto donne e in quanto vittime di colonialismo), indagando, appunto, il legame tra patriarcato e colonialismo stesso. Si parla, infatti, di oppressioni multiple, corroborate dall’introduzione, da parte della politica coloniale, di un sistema binario e patriarcale e dall’erosione dei ruoli di genere fluidi (tipici, per esempio, delle comunità indigene).

Il capitalismo è, allora, analizzato nei suoi meandri e considerato non solo al pari di un’estensione del colonialismo, ma anche come la fonte di nuove forme di sfruttamento (un emblema sono le maquiladoras, le fabbriche di sfruttamento in America Latina). Ne deriva, quindi, un’invettiva aspra contro l’eurocentrismo e il correlato sapere occidentale, cui si lega una complessiva rivalutazione delle forme di sapere popolari e delle conoscenze alternative e una maggiore attenzione alle specificità culturali e storiche (motivo per cui, come detto sopra, non si può estendere il concetto di emancipazione a tutte le donne del mondo e non si può parlare di una vera e propria “sorellanza globale”).

Le principali attiviste del femminismo decoloniale in Italia e all’estero

Il femminismo decoloniale ha un’eco globale, motivo per cui può vantare figure di spicco sia in Italia, sia nel mondo. Nel nostro Paese, per esempio, si possono annoverare:

  • Rachele Borghi, professoressa di Geografia all’Università Sorbona di Parigi e geografa queer, incentra il suo lavoro sulla decolonizzazione dello spazio pubblico e sulla critica alle gerarchie del sapere mediante i corpi dissidenti e militanti;
  • Mackda Ghebremariam Tesfau’, attivista e ricercatrice italo-eritrea, dottoressa di Scienze Sociali e docente presso Iuav Venezia, Stanford Florence e Fondazione UniverMantova, si concentra sulle disuguaglianze nel mercato del lavoro e sul ruolo del razzismo strutturale in Italia;
  • Marie Moïse, attivista afrodiscendente e dottoranda in Filosofia politica all’Università di Padova e Tolosa II, collabora con associazioni per i diritti delle donne e delle persone razzializzate;
  • Esperance H. Ripanti, attivista e scrittrice nata in Ruanda durante gli anni del genocidio, si focalizza soprattutto sulla condizione delle seconde generazioni in Italia e sulla decolonialità.

All’estero, invece, possiamo trovare:

  • Françoise Vergès, femminista antirazzista francese, presidente dell’associazione “Décoloniser les Artsè” e autrice di diversi libri e articoli sulla schiavitù coloniale, analizza le profonde disuguaglianze tra le donne generate dal femminismo occidentale;
  • María Lugones, filosofa femminista e decoloniale argentina, ha sviluppato il concetto di “colonialità del genere” e ha posto in risalto i limiti del femminismo occidentale, che non ha saputo riconoscere le peculiarità e le specifiche oppressioni subite dalle donne razzializzate e colonizzate;
  • Silvia Rivera Cusicanqui, sociologa e attivista di origine aymara, è uno dei punti di riferimento del pensiero alternativo in Bolivia e ha sviluppato il concetto di “ch’ixi”, il quale esprime la coesistenza di identità multiple che, però, riescono a non annullarsi a vicenda;
  • Rita Laura Segato, antropologa, scrittrice e attivista argentina, la cui disamina si concentra sulla violenza di genere come strumento del colonialismo (suo lo studio sui femminicidi di Ciudad Juárez e sul modo in cui il capitalismo e il patriarcato si intrecciano strenuamente nella violenza contro le donne).

Perché il femminismo decoloniale è importante oggi

Sulla base delle riflessioni effettuate fin qui, risulta evidente che il femminismo decoloniale sia fondamentale per mettere in discussione le strutture di oppressione che ancora soggiogano le donne e le soggettività non binarie, il cui impatto ha una risonanza in ambito politico, sociale, culturale ed economico.

Nello specifico, il femminismo decoloniale:

  • sfida il razzismo strutturale e i retaggi di colonialismo, contestando la visione eurocentrica del mondo e riconoscendo le oppressioni specifiche delle donne indigene, nere, migranti e afrodiscendenti;
  • combatte il femminismo che uguaglia le esperienze di tutte le donne, rifiutando il concetto di “sorellanza universale” e sottolineando l’intreccio tra sessismo, razzismo e classismo;
  • critica aspramente il capitalismo e il neoliberismo, denunciando, per esempio, le condizioni di lavoro delle donne nelle fabbriche tessili in Asia o nelle piantagioni di cacao e caffè in Africa e reclamando una giustizia economica che valichi le gerarchie imposte dal colonialismo;
  • non considera il sapere occidentale come l’unico valido e valorizza le epistemologie locali, promuovendo modelli di comunità e solidarietà diversi da quelli imposti dal capitalismo occidentale;
  • affronta la crisi climatica da una prospettiva decoloniale, mettendo l’accento sullo sfruttamento coloniale delle risorse naturali, sostenendo le lotte delle comunità locali contro il land grabbing (l’espropriazione delle terre) e individuando come alternativa al modello estrattivista le conoscenze ecologiche delle donne indigene.

Il ruolo della cultura e della storia nel femminismo decoloniale

Ma come si decostruisce il potere imposto dalla cultura occidentale? Mediante un’analisi attenta e uno studio accurato della storia e della cultura, focus precipuo del femminismo decoloniale.

Per quanto concerne la prima, per esempio, il movimento studia il passato coloniale per comprendere le radici storiche dell’oppressione, mostrando come il patriarcato occidentale sia stato imposto con la violenza su società che possedevano, tra le altre, concezioni più fluide del genere. Per tale ragione, il femminismo decoloniale rivendica fortemente la memoria storica delle lotte delle donne indigene, nere e afrodiscendenti, restituendo valore a ciò che è stato ignorato, dimenticato e bistrattato.

Al contempo, anche la rivalorizzazione delle espressioni artistiche, spirituali e intellettuali delle donne indigene, nere e razzializzate può contribuire a combattere la supremazia della cultura occidentale, criticando l’eurocentrismo vigente nella letteratura, nell’arte e nei media – che continuano a rappresentare le donne nere e indigene come subalterne -, recuperando i saperi ancestrali, spesso annullati dal colonialismo e dal femminismo bianco, e (ri)dando voce a soggettività che sono state storicamente silenziate.

Tutto ciò risulterà essenziale per capire come le attuali disuguaglianze economiche siano diretta eredità del colonialismo, decostruire i modelli occidentali di femminismo che non riconoscono il privilegio bianco, valorizzare le lotte contemporanee delle donne indigene, afrodiscendenti e migranti e onorare la memoria collettiva delle donne che hanno fronteggiato e superato il colonialismo.

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