La Morte di JFK, vista dagli occhi di un bambino.

<< Il nostro dovere non è solo la conservazione del potere politico, ma la protezione della pace e della libertà. Non litighiamo fra di noi, ma uniamoci con rinnovata fiducia, decisi che questo nostro Paese che amiamo continui a guidare l’umanità verso nuove frontiere di pace e abbondanza». – John Fitzgerald Kennedy

<< 22 Novembre 1963. Dallas. Io vivevo con mamma all’epoca, papà non era ancora “ tornato a casa “ ed avevo solo 5 anni. Non capivo cos’era tutto quel fermento, dal giorno prima. “ Verrà, verrà lui!” ‘ma lui… CHI?’ – mi chiedevo. Così chiesi alla mamma. La mamma, come solito sapeva fare, mi spiegò con parola dolci e semplici che era un uomo importante, che veniva a trovarci, è il presidente degli stati uniti. E io mi resi conto che era davvero importante, per passare dalla nostra piccola cittadina di Dallas. Seppur piccolo, sapevo di non vivere in uno di quei paesini grandi abbastanza da essere ricordato, ma da essere importante per un giorno per quell’evento unico nel suo genere. Quella mattina, la mamma non mi fece andare a scuola. “Devi vedere il presidente Kennedy!” mi disse. Mi fece mettere il mio vestito migliore. La mente di un bambino va per una logica così sottile che dissi: “Ma mamma, cos’è oggi? il compleanno del presidente per caso? sei sicura che non andiamo ad una grande festa?” Lei mi sorrise. Ma per certi versi avevo ragione. La mia mamma mi disse solamente che avremmo visto la sua amica Karol che aveva partorito da circa due mesi. Io la chiamavo la donna con il pancione (sgonfio). Usciti, ci incontrammo a 4 isolati da casa mia. Era ancora mattino presto, potevano essere le 9 del mattino. E karol ci stava già aspettando da un pezzo. Da lontano ci vide: “Joan! Finalmente non potevo aspettarvi più. E hai portato anche il tuo giovanotto! Ciao Mark.”. “Saluta, su!” mi incitò la mamma. Ed io: “Ciao.” Risposi tranquillamente. “Eheheh! Ora fa il timido, ma poi si scatena, vero?” “sì, esatto.” Disse la mia amorevole mamma. Ma il fatto era che io non ero affatto timido in quel momento, ma mi sentivo in ansia. C’era qualcosa nell’aria che non mi metteva sicurezza e felicità, come negli altri. Era come se stava per accadere qualcosa, e guardando in cielo vidi non solo le nuvole cariche e grigie nel cielo azzurro. Ma qualcosa alla finestra di un palazzo. Ma prima che potessi davvero mettere a fuoco la mamma mi strattonò verso il gelataio, comprandomi uno di quei gelati delle occasioni speciali, con tre gusti. Si sa, essendo solo un bambino, prestai tutta la mia attenzione al gelato trigusto e dimenticai facilmente di vedere meglio da quella sporgenza.

 

Mentre finivamo il gelato, Karol ci disse: ” dai, su! Andiamo a metterci alla fine della strada, prima che esca dalla città! Lì sicuramente vedremo meglio il presidente!” “viaggerà su una decapottabile, lo sai? Ultimo modello! ” “no, davvero?” “ sì, finalmente vedrò Jaqueline! ”.

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Continuavano a battibeccare parlando ancora di quanto fosse dolce ed elegante la First lady ed io vedevo del movimento nel palazzo dietro di noi. all’ultimo piano, ora non ricordo bene quale fosse, vedevo del movimento. Due persone, uomini che litigavano indicando la finestra. Pensavo che evidentemente qualcuno avesse fatto cadere qualcosa dalla finestra. Ma la mamma mi prese in braccio prima di finire il ragionamento che stavo facendo: “dai, tesoro! Sta arrivando! Vieni a vedere!” Ecco. Il fermento. Sul ciglio della strada, senza transenne (all’epoca si riteneva ci fosse molta più sicurezza), un centinaio di persone inizia ad essere felice, contenta. Entusiasta. La folla iniziava a sbraitare. Con la mente di un bambino che avevo, mi raffiguro ora la strada come un enorme strada tortuosa, e che ad ogni curva che la macchina faceva, la gente iniziava davvero a fare la ola. Sì, era come se fosse una grande ola ed arrivava molto velocemente fin da noi. Pensavo si sarebbe fermato a salutare me e la mamma. Ma invece il presidente Kennedy, dalla sua Lincoln Continental fece solo un cenno verso di noi. Mi salutò e mi sorrise.

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Io mi girai alla mamma per dire tipo: ” Mamma! Mamma! Mi ha salutato! il presidente ha salutato me!”. Ma prima di dirglielo, uno sparo squarciò quel momento in due. Mi girai di nuovo, e vidi che l’uomo nella macchina era stato ferito al braccio. Sì, era il presidente. La signora affianco a lui, gli si buttò addosso. Ma un altro sparo colpì quel signore importante sulla tempia e ricordo un po’ di sangue sul cofano, vedendo la scena a pochi metri da noi.  Da lì in poi ricordo tutto in pochi attimi veloci.

La mamma mi avvolge a sé, scappiamo con Karol. Il bodyguard dietro la vettura raggiunge la macchina, e la macchina corre più veloce.

La signora Kennedy si abbassa in macchina insieme agli altri passeggeri. Alzo la testa, un uomo alla finestra con una pistola di quelle grosse, un fucile. Mamma inizia a piangere. L’uomo alla finestra chiude tutto e se ne scappa. Io piango con lei.

Scappiamo, corriamo, non ci fermiamo neanche un attimo fino a quando arriviamo a casa nostra con Karol che è più lucida di noi. Mamma continua ad essere spaventata, mi guarda, piango con lei. Ma mia madre non voleva farmi piangere. Perciò mi dice: “è tutto finito caro, stai tranquillo.” La smetto di piangere. Karol abbraccia mia madre, come solo una sorella poteva fare. Ed io mi tranquillizzo. Gioco con i miei giocattoli. E Karol inizia a dire: “chissà se è ancora vivo.” La mamma la guarda spaventata. “ L’hanno colpito alla testa, Joan. E ho sentito anche un terzo sparo. Non so cosa possa essere successo.” La mamma accende la televisione. E passiamo tutta la giornata davanti a quella scatoletta che dopo circa un ora inizia a trasmettere la diretta, che ricordo durò più di 9 ore. La sera stessa, però un tale che ora ricordo come Walter Cronkite, l’amato e rispettato anchor della Cbs, confermò alla Nazione: «Il presidente è morto».

La gente è sconvolta, disperata. La scuola rimane chiusa per qualche giorno. Io non vado a scuola per i giorni seguenti, soprattutto perché la mamma è in ansia, ha paura che possa esserci ancora in giro il kiler. Lo dice al telefono con la nonna, che ci chiama ogni ora, sopratutto per tranquillizzare la mamma. Gli chiedo: “mamma, ma che è successo?” con gli occhi lucidi e ingenui. E lei mi rispondedolcemente, non spiegandomi come se fossi un bambino, ma come se stesse parlando già all’adulto che è in me. “Amore, hanno ucciso il presidente degli Stati uniti. Non si sa chi sia stato, lo stanno cercando. E sono tutti tristi perché era una persona molto buona, una guida per tante persone, che formano il nostro grande stato. Ma soprattutto era una persona che lottava perché tutte le persone fossero uguali, e non ci fossero persone più ricche o più povere.”

Io capivo, e capivo che avevano sparato ad una persona che non meritava. Ma non dissi dell’uomo che vidi sul palazzo. Perché la mamma aveva detto: “non sanno chi sia stato, lo stanno cercando.”. Con la mia logica infantile pensavo che se avessi fatto notare fin da subito alla mamma quell’uomo ch’era alla finestra, forse mamma avrebbe avvisato subito i poliziotti e il presidente sarebbe stato vivo. Perciò, anche se non direttamente, il colpevole dell’omicidio ero io. Così non dissi nulla. E col tempo dimenticai.

Dopo quello e l’arresto di quello che fu il suo assassino (e la morte dello stesso) , non ci fu nient’altro che condusse l’America in enorme crisi. E arrivato all’età dei  50, non c’era nulla che potesse ridarmi terrore come in quei momenti. Fino all’11 Settembre 2001, almeno. Il 15 Settembre di quello stesso anno voletti andare in terapia e lì, il terapeuta riuscì a tirarmi fuori quel ricordo nascosto. Forse ero io cheinconsapevolmente ammettevo che fosse quello il suo vero assassino. O forse voglio concludere qui la faccenda perché non potrei riuscire a gestire una faccenda così grande. Ma quel ricordo mi ossessiona. Sono americano, ma ho sempre paura di vivere nel mio paese. Sono americano e sono orgoglioso. Ma poco.>>

– Mark  Johnson.

Due parole a 50 anni dalla morte di John Fitzgerald Kennedy.

Fonte: web
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La storia di Mark è inventata ovviamente. Ma serve solo a ricordare una persona, morta innocentemente. Non è tutto oro ciò che luccica. Kennedy non era un santo. Ma neanche Satana in persona. Con l’anniversario della sua morte, ricordiamo solo che non solo in America, ma anche in tante altre nazioni, ci si uccide per le idee politiche. E ci si uccide per molto meno. Ricordiamo una persona che lottava per le sue idee e a qualcuno non stava bene. L’America è questo che vuole ricordare. La morte (improvvisa) di una persona che non meritava quella fine. Milioni si recheranno sulla sua tomba, nel cimitero monumentale di Arlington (Virginia). La metafora della fiaccola che non si spegne mai sulla sua tomba, è come un faro per gli americani che credono nelle proprie idee. Non va sminuito.

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