La Donna Nell'Arte di Gustav Klimt

Un viaggio nell'ossessione klimtiana: ginolatria o ginofobia? Sono tante le donne in Klimt: dalla femme fatale incubo del genere maschile, alle fluttuanti ninfee, alle madri che donano vita e morte. Nella continua esaltazione della superiorità femminile, gli uomini restano rari, perlopiù rappresentati di spalle, mai protagonisti e solo semplici comprimari.

Sguardi ammalianti e corpi sospesi in un’atmosfera dal sapore metafisico e lontano che seduce lo spettatore, dimentico del tempo e dello spazio.

Membra allungate e visi spenti, capelli come nidi d’uccelli, mani nervose e colori esplosivi, irreali, poi, corpi esageratamente materni e abbondanti.

Nell’arte di Klimt le donne sono un soggetto fondamentale e imprescindibile: l’essere femminile è l’idea stessa dell’eros, quell’eros che fa la donna fatale, perché è al contempo amore e morte, salvezza e perdizione.

“Un leitmotiv della mentalità del tempo, che per Klimt ha però una connotazione meno misogina dei suoi contemporanei, almeno fino al 1903.

Nella sua arte la donna è protagonista suprema, è elemento superiore, è una forza che sovrasta quella maschile, sopprimendola ed eliminandola.

La donna è vita, bellezza e depositaria del segreto dell’esistenza.”

(Eva di Stefano)

La donna di Gustav Klimt

Giuditta I (1901) rappresenta la donna compiuta: è essa stessa il potere, è regina del proprio desiderio.

La posa frontale che vuole avvicinare quasi il partner sessuale -ma è allo stesso tempo negata dal braccio piegato, il volto lievemente arrovesciato indietro come in trance, la bocca semiaperta che nasconde un compiacimento diabolico, sono tutti segnali di una donna-incubo che fonde in sé “antica fantasia” e “idea moderna”, annunciando un funesto destino vanificatore dell’azione virile nel mondo.

Da un lato sul fondo è riproposto il passato aureo e trionfale del palazzo di Sennachenib a Ninive, dall’altro l’illusionismo fotografico riconduce al presente, alla tipica signora della Vienna del tempo.

La via assordante strepitava intorno a me.
Una donna alta, sottile, a lutto, in un dolore
maestoso, passò sollevando e agitando
con mano fastosa il pizzo e l’orlo della gonna,

agile e nobile con la sua gamba di statua.
E io, proteso come un folle, bevevo
nel suo occhio, cielo livido che cova l’uragano,
la dolcezza che affascina e il piacere che uccide.

Un lampo… poi la notte! – Bellezza fuggitiva
dallo
sguardo che mi ha fatto rinascere all’istante,
ti rivedrò solo nell’eternità?

Altrove, assai lontano da qui! Troppo tardi! Forse mai!
Perché io ignoro dove fuggi, né tu sai dove vado,
tu che avrei amata, tu che lo sapevi!

(C.Baudelaire, A une passante – da “Les fleurs du mal”)

Alle soglie dell’abbandono dello “stile aureo” il tema di Giuditta è riproposto in una nuova veste (Giuditta II, 1909): il pesante collare d’oro del 1901 -simbolo della decapitazione (o castrazione?) che motiva il suo piacere- è sparito; ora a colpirci sono un collo allungato e teso, mani febbrili e nervose ed un elaboratissimo puzzle di stoffe, ricami e colori in cui la testa di Oloferne sembra sprofondare.

Il contatto con lo spettatore è dunque mutato: la donna è consumata dall’isteria e dall’angoscia, e i suoi occhi sono lontani, irraggiungibili.

La donna di Gustav Klimt

La speranza in un ritorno di quell’antico regime delle madri, collettivista e in perfetta sintonia con la Natura, rappresenta una costante nella donna di Klimt, simbolo di assoluta superiorità: essa è infatti ammantata di oro, elemento con cui il pittore “vuole trasfigurare la realtà e fissare l’immagine in un’eterna sublime trascendenza, congelandola nella distanza e nella perfezione del metallo”.

Tuttavia questa speranza si colora di minaccia: in questa immobile età dell’oro l’uomo è raro e mai protagonista. In Adamo ed Eva (1917-1918, incompiuto), in cui la donna sfoggia forme abbondanti distaccandosi dai tipici corpi filiformi e allungati, il personaggio maschile è chiaramente in secondo piano, spento ed in ombra, quasi appartenga ad un altro quadro.

L’intero spazio è “devastato” dalla luminosità e grandezza dell’essere femminile, vivo e solo nell’universo.

La ginolatria klimtiana ha tante altre espressioni.

Il dipinto La speranza I (1903) segnala il doppio volto della maternità e allo stesso tempo la duplicità della psiche, dove l’affetto amorevole e delicato possiede anche un lato distruttivo.

Ed è così che la donna è accostata ad una creatura mostruosa, un drago che, nella psicologia di Jung, simboleggia la madre che divora i suoi figli.

Madre con figli

D’altro canto, la valenza positiva della maternità è evidenziata in un dipinto spoglio, Madre con figli (1909-1910), in cui i bambini sembrano emergere dalle profondità uterine di questo mantello scuro, quasi a rappresentare un grembo di terra. I “segni” ossessivi della maternità si ripropongono anche in due colori, quasi sempre presenti, sia nelle decorazioni sia nei chiaroscuri sui volti pallidi.

Si tratta del rosso e dell’azzurro: il primo rimanda al sangue, mentre il secondo all’acqua, entrambe collegati alla nascita.

Proprio in questo elemento naturale sembrano abbandonarsi altre donne klimtiane, ora fluttuanti, ora avvolte in abbracci metafisici. Le maliose creature si lasciano trasportare dalla Natura, suggerendo ancora una volta la seduzione e l’inaccessibilità di un erotismo solitario e supremo. Ancora una volta l’uomo è “l’escluso”, l’elemento che disturba: un dettaglio angoloso e dissonante nell’armonia curvilinea dei movimenti femminili.

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