Gli stereotipi sulla teoria del gender: cos'è e cosa NON è spiegato bene
La teoria del gender esiste? No, esistono gli "studi di genere" che non sono quello che vi vogliono far credere.
La teoria del gender esiste? No, esistono gli "studi di genere" che non sono quello che vi vogliono far credere.
La cosa più importante da premettere, prima di addentrarci nel discorso, è che non esiste alcuna teoria del gender. Almeno non nel senso inteso dai suoi detrattori, ovvero per indicare in modo critico l’idea, alla base degli studi di genere, che genere e sesso siano diversi, e che questi studi mirino a modificare il genere delle persone.
I gender studies, gli studi di genere, che sono l’unica cosa concretamente esistente, attengono infatti all’analisi della costruzione delle identità femminile e maschile nel tempo, nella storia e nella cultura, e mostrano come le norme che regolano l’ordine sessuale siano state create storicamente. Non solo, gli studi di genere sono di quanto più lontano si possa immaginare dalla negazione delle differenze corporee o dall’idea che si possa “inventare” la propria identità e il proprio orientamento sessuale.
La distinzione è tra sesso e genere, intendendo con il primo ciò con cui nasciamo, l’anatomia, e con il secondo l’identità sessuale in cui ci si riconosce. In poche parole, il sesso è qualcosa di biologico, il genere un elemento psicologico e socio-culturale. L’orientamento sessuale, infine, identifica il genere da cui siamo attratti, ossia persone dello stesso genere, del genere opposto, di entrambi i generi, o nessuno di questi. Sesso, genere e orientamento sono quindi cose diverse, ma non solo: sono anche scollegate tra loro.
Il concetto di “genere”, del resto, si trova già a partire dagli anni ’50 e ’60 nella ricerca psichiatrica, sociologica e antropologica americana, che iniziava a indicare proprio la percezione che ciascuno ha di sé, ma anche il suo ruolo di genere, ovvero il sistema sociale costruito attorno alle identità di genere.
Il pensiero, innovativo, alla base di questi studi è che non esista un collegamento obbligato tra il corpo con cui si nasce, l’immagine che si ha sé e i ruoli stabiliti dalla società (i cosiddetti stereotipi di genere).
Che si possa parlare di vera e propria teoria del gender, però, è sbagliato; per questo, più importante di sapere cosa sia, lo è sapere cosa sicuramente non è.
La teoria gender non è sicuramente un complotto per indurre le giovani generazioni a “cambiare sesso”, come spesso sostengono i suoi accusatori, né un modo per instaurare una “dittatura” da parte delle lobby gay.
Come detto, si parte da un presupposto sbagliato, ovvero che mettere l’accento sulla distinzione tra sesso e genere significhi cercare di indottrinare, in qualche modo, al cambio di genere. Mentre, come abbiamo appena visto, gli studi di genere rappresentano esclusivamente un percorso antropologico, come quello condotto da Gayl Rubin nel 1975, con The traffic women, che è stata la prima a parlare di sex-gender system, cioè di un sistema binario asimmetrico in cui le differenze tra i caratteri sessuali biologici sono trasformate arbitrtiamente in disparità tra uomini e donne. In breve: hai una vagina allora devi vestirti in un certo modo, fare solo alcuni lavori, avere i capelli lunghi, ecc…
Tempo fa il cardinale Angelo Bagnasco, in apertura del Consiglio della Conferenza episcopale italiana, mise in guardia dai “pericoli” della teoria del gender per i più piccoli, mentre il Forum delle associazioni familiari dell’Umbria ha stilato addirittura un vero e proprio vademecum per “difendersi” dalla sua introduzione nelle scuole. Inoltre, per ProVita onlus, l’insegnamento alla sensibilizzazione verso gli studi di genere tenta di equiparare “ogni forma di unione e di famiglia” e di normalizzare “quasi ogni comportamento sessuale”.
Come dovrebbe ormai essere chiaro, mettere in guardia dai pericoli di una cosa che non esiste è già di per sé una raccomandazione inutile, inoltre, come specifica l’Osservatorio Gender, con il decreto Buona Scuola del 13 luglio 2015 non si è introdotta alcuna “teoria gender” nella didattica, bensì si è inserito solo il concetto di “identità di genere” nelle scuole italiane.
Nel “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere” introdotto dal Decreto, all’articolo 5.2 si legge per esempio:
Obiettivo prioritario deve essere quello di educare alla parità e al rispetto delle differenze, in particolare per superare gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell’essere donne e uomini, ragazze e ragazzi, bambine e bambini, nel rispetto dell’identità di genere, culturale, religiosa, dell’orientamento sessuale, delle opinioni e dello status economico e sociale, sia attraverso la formazione del personale della scuola e dei docenti sia mediante l’inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa e didattica.
Si tratta quindi di un decreto volto a prevenire discriminazioni legate agli stereotipi di genere, il tutto all’interno dell’obbiettivo più ampio di educare alla parità e al rispetto. Nel decreto infatti si legge:
Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall’articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all’articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto-legge n. 93 del 2013.
In precedente decreto legge citato, quello del 14 agosto 2013, il n.93, si occupava di violenza sessuale e di genere, promuovendo
un’adeguata formazione del personale della scuola alla relazione e contro la violenza e la discriminazione di genere […] programmazione didattica curricolare ed extra-curricolare delle scuole di ogni ordine e grado, la sensibilizzazione, l’informazione e la formazione degli studenti al fine di prevenire la violenza nei confronti delle donne e la discriminazione di genere, anche attraverso un’adeguata valorizzazione della tematica nei libri di testo.
Ciò di cui la scuola si occupa, nell’ambito delle problematiche relative al genere, è quindi unicamente valorizzare le differenze per prevenire fenomeni di violenza sessuale, bullismo e aggressività, riconoscere il valore di identità di genere per rinforzare l’autostima e dialogo per superare i conflitti tra generi diversi. Insomma, cose per cui non si capisce quali pericoli causino, al punto da dover addirittura “essere messi in guardia”.
Fatte queste premesse è piuttosto chiaro che a distorcere gli scopi e il lavoro compiuto dagli studi di genere, che come detto sono invece un elaborato percorso che analizza, nel tempo, i significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di genere, siano i suoi detrattori, cioè chi parla di “teoria del gender”, inventata per avere un nemico da attaccare.
I gender studies rappresentano un campo di indagine multi e interdisciplinare che si interroga sul modo in cui la società, nel tempo e a latitudini diverse, abbia fomentato le differenze tra il maschile e il femminile, legittimando le disparità fra i generi – che sono frutto del sistema patriarcale, ma anche conseguenza del maschilismo ancora imperante – ma anche negando il diritto di cittadinanza ai non eterosessuali.
Nessuno studio di genere nega l’esistenza di un sesso biologico, né dell’influenza di quest’ultimo nella nostra vita, ma semplicemente afferma che non è sufficiente per definire quel che siamo nella nostra complessità. A intervenire sono infatti altre componenti, come genere, orientamento sessuale e ruolo di genere.
Il fatto che in Italia non sia presente, nei programmi didattici, l’educazione sessuale come materia obbligatoria ha fatto in modo che l’idea che esista una teoria del gender “serpeggiasse” con facilità, portando a non guardare di buon occhio quello che invece, a tutti gli effetti, rientra pienamente nell’ambito educativo, ovvero l’insegnamento alle differenze.
Educare al genere non significa altro che incentivare e stimolare la crescita psicologica, fisica, sessuale e relazionale, liberando i bambini dagli stereotipi legati al genere cui siamo fin troppo assuefatti, per costruire una propria identità. Il che non significa che tutte le bambine debbano sentirsi maschi, o pensino a se stesse come di sesso opposto, o viceversa, ma semplicemente che non si sentano “sbagliate” se amano fare cose che, secondo gli standard canonici, non rientrano nell’idea di femminilità (o mascolinità) alimentata a livello socioculturale. Insomma, che si smetta di pensare che esistono “cose da femmine” e “cose da maschi” che si è condannati a fare solo in base ai propri genitali.
Una donna può guidare un camion, un uomo può truccarsi, una ragazza può giocare a calcio e un ragazzo può amare danzare. Questo non significa che un bambino che ama il calcio e una bambina che ama la danza siano “sbagliati” o condannabili. Gli studi di genere non voglio cambiare le naturali preferenze che una persona può avere, si prefiggono solo lo scopo che tali preferenze siano libere di spaziare in ogni dove, non vincolate dal proprio sesso biologico.
Ovviamente sulla presunta teoria del gender si sono riversate le critiche soprattutto delle associazioni cattoliche e, in generale, dei movimenti conservatori di tutto il mondo, andando ad alimentare credenze e stereotipi alquanto fantasiosi, alcuni dei quali vi riportiamo di seguito.
Per fare un esempio del tipo di controversie generate dall’argomento, Papa Francesco, in un discorso del 2015, ha dichiarato
La cultura moderna e contemporanea ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione di questa differenza. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo. Per esempio, io mi domando, se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Eh, rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione.
Peccato che, lo abbiamo spiegato, gli studi di genere (e non la teoria gender, che non esiste) non mirino in alcun modo a “soffocare” le differenze sessuali, ma solo a distinguere dei concetti che da un lato attengono a questioni biologiche, e da un altro socioculturali e psicologiche.
C’è, inoltre, un’ulteriore variabile che smentisce le parole del Pontefice, ossia l’esistenza di svariati studi, di cui uno dei più recenti è pubblicato dall’Università del Wisconsin, che mostrano come in realtà uomini e donne siano piuttosto simili per la maggior parte delle variabili psicologiche, e che eventuali differenze di genere dipendano solo dall’età e dai momenti diversi della vita.
Nessuna prova scientifica ha dimostrato che il sesso di nascita predisponga maggiormente a un’azione, a un mestiere o a una passione. Anche per questo gli studi di genere – che non sono “teoria del gender” – sono tanto importanti.
Monsignor Tony Anatrella, nel suo libro La teoria del gender e l’origine dell’omosessualità, parla di una “teoria pericolosa e oppressiva più del marxismo“, “travestita” da discorso di liberazione e di uguaglianza che vorrebbe portarci a pensare che, prima di essere uomini e donne, siamo tutti esseri umani, che mascolinità e femminilità non siano altro che costruzioni sociali, dipendenti dal contesto storico e culturale, o che i mestieri non abbiano sesso (che novità!).
Parlare di ideologia gender non ha alcun senso.
È un’arma retorica per strumentalizzare i gender studies che, nati a cavallo tra gli anni ’70-’80, affondano le loro radici nella cultura femminista che ha portato il sapere creato dai movimenti sociali all’interno dell’accademia – spiega Laura Scarmoncin, che studia Storia delle donne e di genere alla South Florida University – Così sono nati (nel mondo anglosassone) i dipartimenti dedicati agli studi di genere, e poi ai gay, lesbian e queer studies.
In sostanza, la teoria del gender è solo un’invenzione polemica costruita a cavallo fra la fine degli anni ’90 e i primi 2000 per deformare e delegittimare nel campo degli studi di genere.
Il 7 aprile del 2011 è stata approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’ormai famosa Convenzione di Istanbul, firmata dall’Unione Europea nel 2017 e da 32 Paesi, tra cui l’Italia – con riserva – nel 2013, che mira alla prevenzione e a punire tutti gli atti di violenza contro le donne, ma anche contro trans e omosessuali. Nel 2019 il Parlamento Europeo ha emesso una Risoluzione invitando “il Consiglio a ultimare con urgenza il processo di ratifica della convenzione di Istanbul da parte dell’UE sulla base di un’adesione ampia e senza alcuna limitazione nonché a promuoverne la ratifica da parte di tutti gli Stati membri. […] invita, in particolare, la Bulgaria, la Cechia, l’Ungheria, la Lettonia, la Lituania, la Slovacchia e il Regno Unito che hanno firmato ma non ratificato la convenzione a farlo senza indugio“.
Inutile dire che la Risoluzione non sia stata bene accolta dal mondo cattolico; leggiamo qui:
Dunque, mentre tutti siamo distratti dal Mes e dai viadotti che si genuflettono alla forza di gravità, ecco che, senza strepito e addirittura con la benedizione di molti politici, è passata una risoluzione che, se accolta, non solo diffonderà il credo gender in modo ancor più capillare, ma restringerà ancor di più la possibilità di protestare, di discutere liberamente, di criticare e di dissentire.
Insomma, di scrivere articoli come questo.
Sembra piuttosto ovvia l’assurdità di un concetto simile, soprattutto alla luce degli scopi primari per cui è stata adottata la Convenzione di Instanbul; che non sono solo quelli di arginare la piaga dei femminicidi, ma anche gli episodi omo e transfobici, cosa di cui abbiamo un gran bisogno, visto che l’Italia ha il triste primato di Paese europeo con più omicidi di trans (dati Trans Murder Monitoring di Transrespect versus Transphobia Worldwide) con 36 casi registrati dal 2008 al 2016.
In breve, coloro che criticano la convenzione di Instanbul accusandola di essere censoria, sono quelli che vorrebbero essere liberi di insultare e discriminare in base al genere e sesso. Non c’è bisogno di scomodare Popper e la sua teoria della tolleranza per capire che non si può essere tolleranti con gli intolleranti.
Abbiamo visto che sempre più vip (ma anche persone comuni) lasciano crescere i figli senza genere: da Will Smith, con il primogenito Jaden, a Kate Hudson, fino ad Angelina Jolie.
In realtà i genitori che seguono questa strada stanno dando una libertà di scelta ai figli, di sperimentare, di esplorare se stessi e di compiere un percorso autonomo che sia del tutto slegato dai cliché socioculturali che vogliono per forza dare un’etichetta, basata sul sesso biologico, a tutto.
Il che significa non considerare, ad esempio, il rosa o le gonne come “cose da femmine” o i capelli corti come “cose da maschio”. Non è un’invenzione o un “capriccio da vip”, come spesso viene definito: basti pensare che in Svezia, quarto Paese al mondo per uguaglianza di genere in settori come lavoro, politica, salute e istruzione, da oltre vent’anni la maggior parte delle scuole pubbliche sono gender neutral, ovvero improntate a educare i bambini senza stereotipi di genere, tanto che dal 2012 è stato persino introdotto un pronome neutro, “hen”, e molti insegnanti non usano la tradizionale distinzione in maschi e femmine.
Questo non significa che ci sia la volontà di corrompere i bambini per far cambiare loro sesso (a che scopo, poi?). L’unica volontà è quella che i bambini e bambine possano crescere liberi di giocare con le bambole, con le macchinine, indossare gonne o pantaloni, portare gioielli o capelli corti solo in base ai propri gusti e non perché la società ha deciso per loro quale debba essere il “recinto” entro il quale sono legittimati a muoversi.
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
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