Vita e stranezze di una strega e amante esagerata: la Marchesa Luisa Casati

Vita e stranezze di una strega e amante esagerata: la Marchesa Luisa Casati
Fonte: collezione privata / Man Ray Trust
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Ci sono alcune vite che meritano di essere ricordate, perché permettono di comprendere meglio lo spirito del tempo che hanno attraversato. Quella della Marchesa Luisa Casati è una di queste e ancora oggi affascina proprio come era accaduto nei primi anni del Novecento. La sua figura, spettrale e magnetica, vive ancora nei molti ritratti che le sono stati dedicati e nelle foto d’epoca. Un libro di recente pubblicazione, scritto da Judith Mackrell e oggetto di un articolo della BBC, ha raccontato i suoi eccessi e la sua influenza sugli artisti che l’hanno conosciuta.

Nata a Milano nel 1881 e rimasta orfana a 15 anni, Luisa Amman (era questo il suo nome da nubile) divenne fin da giovanissima una vera leggenda. L’eredità del padre, un ricco produttore di cotone, la rese immediatamente una delle donne più ricche d’Italia. Lei decise però di investire il denaro in collezioni artistiche, eventi mondani e soprattutto in uno stile di vita “esagerato”. Fu così che diventò una delle protagoniste principali della Belle Èpoque.

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Le sue fantasmagoriche feste attirarono artisti e nobili da tutta Europa: sensuale, eccentrica e anticonformista, nessuno poteva resistere al suo fascino. Lei scelse il marchese milanese Camillo Casati Stampa di Soncino, che sposò nel 1900 e da cui ebbe la sua unica figlia, Cristina. La vita sopra le righe della Marchesa Luisa Casati minò da subito il suo matrimonio: proprio nello stesso periodo conobbe infatti Gabriele D’Annunzio e divenne la sua amante.

“È la sola donna che mi abbia sbalordito”, disse di lei D’Annunzio, che le dedicò anche il romanzo Forse che sì, forse che no. E in effetti non c’era nulla di lei che potesse passare inosservato. Era alta e magrissima, con occhi magnetici e capelli tinti di rosso. Ma non era solo la sua fisicità a colpire: la Marchesa Luisa Casati amava anche vestirsi con abiti esclusivi, creati appositamente per lei da famosi stilisti.

Ispirò molti degli artisti che ebbero la fortunata di conoscerla, frequentarla e in alcuni casi anche ritrarla: Giovanni Boldini, Jean Cocteau, Filippo Tommaso Marinetti, Alberto Martini, Man Ray, Cecil Beaton e Giacomo Balla sono solo alcuni dei tanti nomi che gravitavano intorno alla Divina Marchesa, come veniva soprannominata.

Nel 1910 si trasferì a Venezia, dove acquistò il settecentesco palazzo Venier dei Leoni, ora sede della Fondazione Peggy Guggenheim. Nei giardini nel palazzo, la Marchesa Luisa Casati creò un mondo fatato, accogliendo corvi albini, pavoni, ghepardi e persino un boa. Era lì che si svolgevano le sue feste più bizzarre, tutte con temi diversi ma un solo ed unico scopo, ovvero quello di stupire. A sostegno di questa tesi ci sono le straordinarie creazioni dei costumisti dei Ballets Russes a cui lei stessa chiese in commissione un abito fatto di lampadine che le provocò uno shock elettrico.

Voglio essere un’opera d’arte vivente.

Potrebbe essere la citazione perfetta (da lei stessa proferita) per descrivere appieno la sua eccentricità, il suo essere così indipendente e sensuale a qualsiasi occhio umano, a chiunque persona posasse – anche solo per qualche secondo – lo sguardo su di lei, così diversa da tutte le altre donne dell’epoca. Luisa è ed è stata la femme fatale della fine dell’Epoca Bella, di quei primi anni ’20, gli stessi che l’hanno successivamente portata alla rovina. Fu proprio in quel periodo che iniziò ad appassionarsi alle scienze occulte e all’esoterismo, ospitando nel suo meraviglioso palazzo maghi, chiromanti e medium con cui organizzò sedute spiritiche.

Al giorno d’oggi, in un’epoca dove ogni cosa deve essere politically correct, questa marchesa così oscura sarebbe probabilmente uno dei primi nomi ad apparire su un possibile patibolo sociale: già, perché Luisa viveva la sua vita con una frenesia e una smania quasi paurosa: si circondava di animali esotici per puro scopo ornamentale e ne colorava la pelliccia abbinandola alla tappezzeria e ai mobili della propria dimora quasi per gioco. E se tutto ciò non basta a far capire quanto davvero “l’apparire” fosse così importante e necessario per lei, c’è da ricordare il ruolo di figuranti che dava anche ai suoi servi neri. Li sceglieva di una certa statura precisa, alti e muscolosi, e li vestiva con abiti succinti, dando sfogo a quello che oggi sarebbe quasi definito un vero e proprio imperialismo.

Luisa Casati ci ha fatto pensare che fascismo e divismo hanno non pochi tratti in comune.

Cita su di lei il blog letterario Kainowska ed effettivamente è una visione non troppo lontana dalla realtà: la struttura piramidale (la persona idolatrata in alto e gli ammiratori alla base), il fascino dato dalla ricchezza, il gusto unico dello spettacolo e nel darlo in prima persona.

È a Capri, nell’iconica Villa San Michele (dimora del celebre medico Axel Munthe), che fece la sua vera e propria entrata trionfale nel mondo esoterico. A descrivere il suo arrivo è stato lo scrittore e diplomatico Roger Peyrefitte nel suo libro dal titolo L’esule di Capri: era il 1919.

La marchesa, alta e snella, portava un cappello da astrologo dal quale ricadevano veli che la avviluppavano. Il viso era impiastrato come quello di un pierrot […]. Dalle orecchie dondolavano campanellini e il trucco le colava a rivoli sulle scarpe impolverate. Teneva fra le mani una sfera di cristallo, per rinfrescarle.

Una visione stregata per tutti i capresi ma che mise la parola “inizio” a tutte le future stravaganze che avrebbero caratterizzato il suo periodo di sosta di circa due anni nella celebre isola del golfo di Napoli. Se Munthe ideò la villa come un tempio per l’arte classica, chiaro e baciato dal sole e dal mare, per Luisa Casati diventò un luogo dedicato all’occultismo. Fra drappi cupi e la pelle di una pecora nera inchiodata alla parete di una stanza adibita proprio alle pratiche spiritiche, la marchesa divenne così celebre in tutta la città proprio con il soprannome di strega.

Una fama, la sua, da non mettere a tacere: se da una parte i cittadini dell’isola pensavano che nella bella Villa San Michele si praticassero messe nere in favore di demoni sconosciuti, dall’altra la donna, nel momento in cui faceva la sua apparizione nel centro della città, si mostrava fiera nei suoi abiti scuri come la pece e con serpenti vivi a mo’ di gioiello.

Nel 1923 la marchesa si trasferì a Parigi facendo una pazzia in pieno suo stile: acquistò il magnifico Palais Rose – appartenuto in precedenza al conte de Montesquiou – ribattezzandolo con il nome di Palais du Rêve (in francese, il Palazzo del Sogno). Lo svuotò da ogni ricchezza, ogni ninnolo costoso, lasciando che a predominare in quelle enormi sale fosse unicamente la bicromia (quella fusione di bianco e nero mista all’oro, il colore della ricchezza che tanto l’ha contraddistinta). In quest’ultimo periodo parigino conobbe il conte Feliks Jusupov, i conti Beaumont e la stessa stilista Elsa Schiaparelli (quest’ultima inventrice di quello che oggi conosciamo con il nome di rosa shocking).

Ridotta sul lastrico dalle spese ingenti dovette vendere i suoi palazzi e trasferirsi a Londra. È lì che spese il denaro rimasto in incenso di muschio indiano, sfere di cristallo e consulenze con la tavola ouija (strumento usato per le comunicazioni mediatiche con l’aldilà).

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La sua vita finì con un colpo di scena, uno dei tanti a cui aveva abituato gli amici: povera e dimenticata da tutti, l’1 giugno 1957 venne sepolta con il suo mantello nero bordato di leopardo, ciglia finte, occhi truccati di nero e ai piedi il suo amato cagnolino imbalsamato. E, come epitaffio, le parole usate da William Shakespeare per descrivere Cleopatra: “L’età non può appassirla né l’abitudine rendere insipida la sua infinita varietà”.